Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29163 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 13/11/2018, (ud. 23/05/2018, dep. 13/11/2018), n.29163

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 558-2014 proposto da:

C.M.L., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato FRANCO CARIA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso ordinanza definitivo della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI

SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 9/10/2013, R.G.N.

431/2012;

avverso la sentenza n. 795/2012 DEL TRIBUNALE DI SASSARI, depositata

il 19/06/2012 r.g.n. 56/2011.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore,

pronuncia la seguente ORDINANZA.

Fatto

RILEVATO

che:

il giudice del lavoro di SASSARI con sentenza n. 795 in data 19 giugno 2012 rigettava la domanda, di cui al ricorso in data 13 gennaio 2011, dell’attrice C.M.L., volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del termine finale apposto al contratto a tempo determinato, in forza del quale la medesima era stata assunta dal 28 ottobre al 27 dicembre 2002 alle dipendenze di POSTE ITALIANE S.p.a. per le esigenze ivi indicate, attesa la tacita risoluzione consensuale del rapporto, desunta dal fatto che la lavoratrice aveva reagito all’operatività del contestato termine finale dopo oltre cinque anni dal suo decorso, dopo il quale inoltre dagli atti emergeva che la predetta aveva lavorato anche presso altri datori di lavoro in regime di subordinazione a tempo indeterminato e per un apprezzabile lasso di tempo, sicchè la ricorrente aveva serbato un contegno positivo di evidente disinteresse al ripristino del pregresso rapporto;

la Corte d’Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. in data 9 ottobre 2013 dichiarava inammissibile il gravame interposto dalla C. avverso la suddetta pronuncia di primo grado, n. 795/2012, avuto riguardo al concreto disinteresse alla prosecuzione del rapporto alle dipendenze di POSTE ITALIANE, visto che dalla sua cessazione (dicembre 2002) alla messa in mora dell’ottobre 2009 erano trascorsi sette anni di silenzio totale, ed altri due prima dell’instaurazione del giudizio, senza alcuna offerta di prestazione, osservando altresì che durante tutti gli anni di silenzio la C. aveva lavorato a tempo indeterminato, sebbene part-time e sino al 2011, ciò che avvalorava ulteriormente l’ipotizzato totale disinteresse per la prosecuzione del rapporto con la società convenuta;

avverso la sentenza del tribunale e l’ordinanza della Corte territoriale ha proposto ricorso per cassazione (ex artt. 348 tere 360 c.p.c.) C.M.L. con varie argomentazioni, cui ha resistito POSTE ITALIANE S.p.a. mediante controricorso notificato come da relata del 16 gennaio 2014;

le parti, sebbene ritualmente e tempestivamente avvisate, non depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la ricorrente ha censurato l’ordinanza con declaratoria d’inammissibilità dell’appello “ex art. 111 Cost., comma 7 e art. 360 c.p.c., u.c., per nullità e/o annullamento del procedimento e violazione di norme di legge, per l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e per assenza della c.d. doppia conforme”; che la sentenza del Tribunale è stata invece censurata in base alle seguenti ragioni:

ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c.;

ancora ex cit. art. 360, n. 3 per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1; violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., art. 2729 c.c., comma 2 nonchè per non aver il giudicante valutato le prove offerte, avendo accolto l’eccezione di risoluzione sulla base di una valutazione presuntiva con riferimento ad un rapporto di lavoro il cui valore era ben superiore a quello di Euro 2,58, e per aver omesso di decidere circa un fatto decisivo per il giudizio; violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2;

tutte le anzidette doglianze vanno disattese nei seguenti termini; che, invero, per il rito lavoro, cui è chiaramente soggetta la causa di cui è processo, opera l’art. 436-bis c.p.c. (inammissibilità dell’appello e pronuncia), il quale rimanda integralmente alla disciplina dettata dagli artt. 348-bis e 348-ter cit. codice di rito, di guisa che (ex art. 348-bis, comma 1) l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta, sicchè, in particolare, quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4) (così l’art. 348-ter c.p.c., comma 4 inserito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. a), conv., con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, norma che per espressa previsione dell’art. 54, comma 2 D.L. cit., “si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” avvenuta il 12 agosto 2012 – nel caso di specie la ricorrente, peraltro, non ha sollevato alcuna obiezione circa l’operatività nella specie dell’anzidetto regime transitorio);

di conseguenza, si appalesa l’assoluta non pertinenza delle censure mosse con il primo motivo, avverso la suddetta declaratoria d’inammissibilità dell’appello, tanto più che sul punto la stessa ricorrente ammette che la Corte territoriale “nell’affermare la carenza di ragionevole probabilità di accoglimento” dell’interposto gravame aveva “ritenuto, uniformandosi a quanto statuito in 1 grado, che la lunga durata dell’inattività della lavoratrice non avrebbe trovato alcuna astratta giustificazione…”;

quindi, esclusa ogni ipotesi di error in procedendo da parte dei giudici di appello, in relazione alla pur motivata ordinanza del 9 ottobre 2013, pronunciata nei limiti di quanto consentito dal citato art. 348-bis, appaiono inconferenti le deduzioni in punto di fatto al riguardo svolte dalla ricorrente, laddove d’altro canto si appalesa anche la sostanziale identità di questioni di fatto poste a base della sentenza di primo grado e della successiva declaratoria d’inammissibilità del relativo gravame, sicchè contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell’art. 360, ricorso per cassazione (art. 348-ter c.p.c., comma 3, primo periodo), però nei soli limiti espressamente ammessi dal medesimo art. 348-ter, comma 4 con esclusione quindi dell’ipotesi di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 codice di rito, ostandovi per l’appunto l’anzidetta rilevata “doppia conforme”, peraltro immotivatamente negata dalla ricorrente (assunto questo contrario ad ogni evidenza e che, d’altro canto, sarebbe stato al più rilevante unicamente per il ricorso ex cit. art. 348-ter, comma 3 contro il provvedimento di primo grado);

parimenti inconferenti appaiono le doglianze poste a sostegno del ricorso avverso la sentenza di primo grado, laddove va quindi, preliminarmente, ribadita l’inammissibilità di ogni censura di rilievo ai sensi dell’art. 360, n. 5, attesa la riscontrata doppia conformità, con conseguenti preclusioni sul punto ex art. 348-ter, comma 4;

analogamente, va detto per quanto concerne le altre censure, di cui ai quattro motivi di ricorso avverso la sentenza n. 795/12, che ineriscono essenzialmente ad accertamenti e valutazioni di circostanze fattuali, operati con lineari argomentazioni dal primo giudice del merito, di modo che non sono consentite, nei limiti della critica vincolata ammessa dall’art. 360 c.p.c., apprezzamenti, mediante rivisitazione, diversi in questa sede di legittimità, tenuto altresì conto che le asserite errate percezioni del materiale probatorio acquisito (che appaiono, invero, assolutamente marginali) possono al più rilevare come errore revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4, comunque mediante atto da proporsi davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (art. 398, comma 1 cit. codice di rito);

non sussistono, quindi, le ipotizzate violazioni degli artt. 1372,2729 e 2697 c.c. nonchè art. 116 c.p.c., avendo il giudice di merito con adeguata e non illogica motivazione formato il proprio libero convincimento sulla scorta di tutte le risultanze processuali, comunque in atti acquisite (sicchè sul punto non rileva nemmeno l’onere probatorio disciplinato dal cit. art. 2697), e non risultando, d’altro canto, il ragionamento decisorio espresso dal giudicante in contrasto con alcuna prova legale (v. tra l’altro 421 c.p.c. in ordine ai poteri istruttori del giudice del lavoro, che può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile. Sul punto Cass. lav. n. 6828 del 16/06/1995 ha avuto modo di affermare: il principio per cui, nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, ai sensi dell’art. 421 c.p.c. sono ammesse le prove anche al di fuori dei limiti stabiliti dagli artt. 2721,2722 e 2723 c.c., nonchè, in tema di simulazione, dall’art. 1417 c.c., si applica anche alle presunzioni, le quali, a norma dell’art. 2729 c.c., incontrano gli stessi limiti previsti per la prova per testi.

Cfr. altresì Cass. 3 civ. n. 23940 del 12/10/2017: il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012.

V. anche Cass. 5^ civ. n. 2090 del 04/02/2004, secondo cui in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la determinazione o la valutazione delle prove siano state eseguite dal giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale – e come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito. In senso analogo, tra le altre, Cass. lav. n. 18665 del 27/07/2017, secondo cui in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. in L. n. 134 del 2012 – non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perchè a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità, l’affidabilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98). Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonchè la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti. A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture. Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari. Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità.); le rilevate inammissibilità, dovute anche all’impossibilità di censurare in sede di legittimità quanto con logica e coerente motivazione (di per sè insindacabile, specie alla stregua del vigente art. 360 c.p.c., n. 5) accertato dal giudice di merito, si riflettono, chiaramente ed in senso negativo, anche sul primo motivo di ricorso, alla stregua del più recente orientamento di questa Corte in materia di risoluzione consensuale (cfr. in part. Cass. lav. n. 29781 del 12/12/2017 ed altre successive in senso analogo), secondo cui in tema di contratti a tempo determinato l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti, diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale, costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente;

pertanto, nei sensi di cui sopra il ricorso va respinto;

tenuto conto dei riscontrati oscillanti, se non contrastanti, orientamenti giurisprudenziali in materia di mutuo consenso, si ravvisano valide ragioni per poter dichiarare compensate le spese di questo giudizio;

tuttavia, visto l’esito negativo dell’anzidetta impugnazione principale, ricorrono comunque gli estremi di legge per la declaratoria dei presupposti relativi al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018

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