Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29161 del 12/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 12/11/2019, (ud. 20/02/2019, dep. 12/11/2019), n.29161

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. NOCELLA Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5680/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, rappresentata e difesa

dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata

in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

DB APPAREL ITALIA (oggi HANES ITALY) S.r.l. unipersonale

rappresentata e difesa dall’Avv.to Giuseppe Maria Cipolla,

elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in Roma,

V.le Giuseppe Mazzini n. 134, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 3874/35/14, depositata l’11 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 febbraio 2019

dal Cons. Luigi Nocella.

Fatto

FATTI DI CAUSA

In esito a controllo eseguito ai sensi del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, e concluso con p.v. del 22.10.2012, l’Agenzia delle Dogane, Ufficio di Bergamo, in data 29.04.2012, procedeva alla revisione delle bollette di accertamento ed emetteva nei confronti della DBAPPAREL ITALIA s.r.l. quale importatrice diversi avvisi di rettifica con i quali veniva contestata, per l’anno 2009, la mancata inclusione nel valore delle merci, acquistate da produttori operanti in paesi extra UE, delle spese di trasporto, del costo delle assicurazioni e dell’importo delle royalties dovute dalla società importatrice licenziataria alle imprese licenzianti titolari dei rispettivi marchi ((OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)), con conseguente applicazione delle sanzioni ex art. 303 T.U.L.D., comma 3.

La CTP di Bergamo accoglieva il ricorso proposto dalla DBApparel, ed annullava l’avviso, condannando l’Agenzia alla rifusione delle spese di lite. La decisione veniva poi confermata, in seguito ad appello proposto dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dalla CTR della Lombardia con la sentenza oggetto del presente giudizio. In particolare i Giudici d’appello, dato atto che, in seguito all’acquiescenza prestata dalla società ricorrente in ordine all’inclusione nel valore delle merci importate delle spese di trasporto e di quelle di assicurazione, la controversia aveva ad oggetto la pretesa inclusione in tale valore imponibile delle royalties che la società importatrice e licenziataria era obbligata a corrispondere a ciascuna delle licenzianti in virtù dei contratti di licenza sull’ammontare dei ricavi dalle vendite effettuate in Italia, nonchè sulle sanzioni applicate per l’erronea minor quantificazione del valore medesimo, individuate le norme regolatrici della fattispecie negli artt. 32 e 157 C.D.C. e negli artt. 23, 143 e 160 Disposizioni di Applicazione del Codice Doganale Comunitario (d’ora in avanti C.D.C. e D.A.C.), hanno ritenuto che l’Agenzia non avesse fornito la prova che “il pagamento delle royalties è una condizione del contratto di vendita nè che i licenzianti esercitino un controllo nei confronti dei produttori ai sensi dell’art. 143 D.A.C.”; invece, ritiene la CTR, non avrebbe pregio la tesi dell’Agenzia secondo cui “l’osservanza dei codici etici richiesta ai produttori da parte dei licenzianti” costituirebbe controllo rilevante ai sensi della richiamata normativa.

L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre per cassazione sulla base di quattro motivi, al quale resiste con controricorso la s.r.l. unipersonale DB Apparel Italia, che ha modificato la sua denominazione in “HANES ITALY”. La controricorrente ha inoltre depositato memoria illustrativa in data febbraio 2019, con la quale evidenzia l’avvenuta costituzione di un giudicato tra le stesse parti sulle medesime questioni di diritto qui controverse.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, poichè gli argomenti utilizzati per escludere il controverso rapporto di controllo costituirebbero una motivazione del tutto apparente, avendo la CTR trascurato di considerare gli elementi sintomatici che consentono di individuare la ricostruzione della fattispecie concreta oggetto di esame, ed in particolare circa la sussistenza del controllo delle licenzianti sulla produzione dei beni importati; nè a colmare tale lacuna può soccorrere il rinvio per relationem alla motivazione della sentenza di 1 grado, in assenza di un’analisi critica dei motivi di gravame.

Con il secondo motivo, l’Agenzia ricorrente deduce violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 29 e 32 Reg. CEE n. 2913/1992 nonchè degli artt. 157-160-143 Reg. CEE n. 2454/1993. Premesso che il collegamento tra condizionante tra vendita delle merci e pagamento delle royalties può essere frutto di una condizione implicita, censura la sentenza per aver escluso tale relazione nei contratti esaminati sulla scorta del mero rilievo che la base di computo delle stesse fosse individuato nell’ammontare del fatturato delle vendite da parte dell’importatore: invero, sostiene la ricorrente, qualsiasi metodo d’individuazione della base di computo delle royalties si adotti, “difficilmente le licenzianti accetterebbero la produzione e la rivendita di prodotti con propri marchi da parte di società che non abbiano corrisposto alcun diritto di licenza”;

d’altronde la CTR non avrebbe tenuto in alcun conto la circostanza, provata documentalmente (fatture allegate al p.v.c. prodotte in all. 9 alle controdeduzioni di 1 grado), che le merci entravano in Italia con il marchio già impresso e che quivi venivano vendute come prodotte. Nè avrebbe rilievo l’argomento utilizzato dalla CTP della pretesa assenza di relazione tra importazioni e calcolo delle royalties, corrisposte sulle vendite, perchè le modalità di calcolo di queste ultime sono diverse, ma la sostanza del rapporto non si modifica; diversamente opinando, basterebbe modificare il metodo di computo dei diritti medesimi per eludere l’art. 32 del C.D.C..

Di contro parte controricorrente osserva che la ricostruzione della ratio decidendi sarebbe diversa da quella illustrata dalla ricorrente, e quindi tutta l’argomentazione sarebbe inconferente: invero la CTR ha esclusivamente sostenuto che non sarebbe stata raggiunta la prova nè che il pagamento delle royalties fosse condizione della vendita, nè del controllo, di diritto o di fatto, che il licenziante dovrebbe esercitare sul produttore-venditore. Premesso che la normativa comunitaria non contiene una definizione esplicita del sintagma “condizione di vendita”, non resterebbe che ricorrere alla definizione offertane dal Commento della Commissione UE al CDC, recepita dall’Agenzia delle Dogane nella Circolare 21/D 31.11.2012, quale “assenza per il venditore estero della disponibilità a vendere i propri prodotti senza il pagamento dei diritti di licenza (da considerare…elemento essenziale della transazione tra compratore e venditore/fornitore estero…)”; il tutto senza che abbia rilievo che il rapporto sia bilaterale (licenziante-licenziatario) o trilaterale (i primi due più il produttore estero);. Quanto poi alla pretesa dimostrazione da parte dell’Agenzia dell’esistenza di tali poteri di controllo della licenziante sul terzo produttore, fondato sulle clausole contrattuali richiamate genericamente nella premessa del ricorso, non sarebbe stata invocata alcuna clausola indicativa di una condizione della vendita all’interno di un rapporto contrattuale trilaterale, mentre gli elementi valorizzati ex adverso non rientrano tra gli indicatori le cui combinazioni sarebbero significative per dimostrare la presupposta situazione di controllo ai sensi del menzionato Commento della Commissione UE al CDC.

Con il terzo motivo l’Agenzia lamenta violazione e falsa applicazione del Reg. CEE n. 2913/1992, art. 29 e art. 32, par. 1, lett. c, e par. 5, nonchè degli artt. 143 e 160 Reg. CEE n. 2454/1993 e dell’art. 2729 c.c. e dei principi in tema di onere della prova, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: la CTR avrebbe escluso l’esistenza di una condizione di vendita per la ritenuta carenza delle condizioni di controllo ai sensi dell’art. 157 D.A.C., nonostante l’Agenzia nei precedenti gradi avesse sottolineato una serie di clausole e condizioni dalle quali evincere che l’osservanza dei codici etici richiesta nei contratti avesse la fondamentale finalità di condizionare anche le modalità esecutive e le scelte imprenditoriali del produttore cinese, determinandone quindi una effettiva soggezione al controllo della licenziante.

Infine con il quarto motivo l’Agenzia deduce, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, comma 1 e 2, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, in relazione all’ingiusto annullamento delle sanzioni, conseguito all’erronea applicazione delle norme poste a fondamento degli avvisi di rettifica impugnati.

2. Il primo motivo è infondato. E’ principio noto ed espresso ripetutamente nella giurisprudenza di questa Corte, anche dopo la modifica legislativa dell’art. 360 c.p.c. operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, che la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per carenza dei requisiti minimi garantiti costituzionalmente ricorre soltanto quando la carenza motivazionale sia tale da non consentire in alcun modo di verificare l’esattezza e la logicità del ragionamento giudiziale (da ultimo cfr. Cass. Sez. L ord. 17.05.2018 n. 12096; Cass. Sez. VI-V ord. 7.04.2017 n. 9105), ovvero quando sussistano contraddizioni di tale evidenza da rendere impossibile la ricostruzione di una chiara ratio decidendi (cfr. Cass. SU 7.04.2014 n. 8053); in altri termini “nelle ipotesi di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. Sez. III 23.10.2017 n. 23940); ove la contraddittorietà deve riguardare la compatibilità logica intrinseca tra più affermazioni logicamente contrastanti che si elidono reciprocamente, rendendo impossibile individuare quale sia il principio di diritto applicato nel caso concreto.

Orbene, nella specie la CTR non solo ha espresso, sia pure sinteticamente, la conclusione delle proprie valutazioni circa l’insussistenza del controllo del licenziante sull’impresa estera produttrice, ma ha anche dimostrato di aver considerato e valutato come insufficienti in senso contrario gli indici di controllo offerti e valorizzati dall’Agenzia appellante, spiegando che gli stessi rappresentavano esclusivamente strumenti convenzionali per garantire la qualità del prodotto finale che avrebbe circolato con il marchio e la reputazione commerciale delle titolari dei singoli marchi utilizzati per la sua commercializzazione. Parimenti infondate sono le censure specifiche relative alla pretesa contraddittorietà della motivazione circa l’esistenza di un potere costringente di scelta del produttore della merce (enunciato in forme diverse nei vari contratti), sia perchè la pretesa contraddittorietà non tocca un punto in sè decisivo della controversia, ma uno degli svariati indici valutabili (e di fatto presi in esame) dal Giudice; sia perchè in concreto la ipotizzata insanabile contraddittorietà non sussiste, poichè la valutazione di incompatibilità delle clausole contrattuali esaminate con la libertà di scelta del contractor estero da parte non già del licenziante ma dell’importatore è quaestio facti rimessa all’apprezzamento del Giudice, circa la quale la CTR ha espresso una valutazione implicitamente negativa (alla quale la ricorrente intende sostituire la propria valutazione di senso contrario), ma non già insanabilmente contraddittoria con la premessa astratta contenuta nell’enunciato generale se non attraverso una interpretazione della clausola contrattuale difforme da quella postulata dal Giudice d’appello, che è invece censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, soltanto nei limiti nei quali è ancora proponibile.

3. La questione che costituisce oggetto del 2 e 3 motivo, che vanno esaminati congiuntamente, è quella del valore in dogana delle merci importate, che, di regola, è il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou e a., causa C-116/12, punti 38, 44 e 50, nonchè 21 gennaio 2016, Stretinskis, causa C-430/14, punto 15). Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu).

Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico. Sicchè, qualora il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa il relativo importo, l’art. 32 del C.D.C. (reg. n. 2913/92) stabilisce che al prezzo si addizionano “…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare…”.

Peraltro, ai sensi dell’art. 157 D.A.C., par. 2, ai fini di computare i diritti di licenza nel valore della merce devono ricorrere tre concorrenti condizioni: a) i corrispettivi o i diritti di licenza non devono essere stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; b) detti corrispettivi o diritti devono riferirsi alle merci da valutare; c) l’acquirente è tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.

In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, l’art. 159 D.A.C. specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare soltanto se: 1) il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione; 2) le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza; 3) l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore.

Nel caso di specie, non è dubbio che le condizioni sub a) e b) siano rispettate: da un lato, è pacifico che il corrispettivo dei diritti di licenza non è stato computato ai fini della determinazione del valore doganale delle merci importate; dall’altro, diversamente da quanto ritenuto dalla CTR (che ha affermato che quando il dovuto è determinato in rapporto ai ricavi non esisterebbe alcun legame tra le importazioni e le royalties), l’art. 32 C.D.C., par. 1, lett. c), non prevede che l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza sia determinato al momento della conclusione del contratto di licenza o al momento dell’insorgenza dell’obbligazione doganale, affinchè i corrispettivi dei diritti di licenza siano considerati relativi alle merci da valutare (cfr. CGUE 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH).

4. La questione dirimente risulta, allora, quella concernente la terza condizione, data dalla configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizione di vendita della merce, nozione non precisata nè dall’art. 32 C.D.C., par. 1, lett. c), nè dall’art. 157 D.A.C., par. 2; peraltro, secondo CGUE 9 marzo 2017, causa C-173/15, cit., essa si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza, nonchè, tenuto conto del fatto che ci si riferisce ad un marchio di fabbrica (cfr. art. 159 D.A.C.), nella verifica se il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza.

Nel caso di specie, la CTR ha affermato che l’Ufficio: a) non ha fornito alcuna dimostrazione in merito alla circostanza che il pagamento delle royalties fosse stata una condizione del contratto di vendita; b) non ha fornito alcuna prova che il controllo della licenziante sulla licenziataria andava al di là del semplice controllo generale sulla qualità del prodotto e sul rispetto delle norme etiche a tutela dei consumatori.

La valutazione compiuta dalla CTR non sembra essersi sufficientemente confrontata con le risultanze dei contratti stipulati tra licenziante e licenziatario per come emergenti dal processo verbale di costatazione, nè con le esemplificazioni contenute nel Commento 11 del Comitato del codice doganale.

4.1. Una simile valutazione è stata, invece, puntualmente compiuta dalla sentenza della CTR di Milano n. 5399/07/15 del 14/12/2015, prodotta dalla difesa della importatrice e passata in giudicato tra la Dbapparel Italia s.r.l. (oggi Hanes) e l’Agenzia delle dogane e dei monopoli; e si è conclusa con l’espressa esclusione della configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizioni del contratto di vendita e, pertanto, con l’insussistenza in ipotesi della terza condizione, essenziale per la soggezione a dazio delle royalties.

La menzionata sentenza, sebbene intervenuta in una controversia relativa ad un distinto avviso di rettifica, è stata pronunciata con riferimento ai medesimi contratti di licenza oggetto della presente controversia, dei quali ha dato un’interpretazione che assume efficacia vincolante anche nel presente giudizio.

L’applicazione della regola del giudicato di cui all’art. 2909 c.c., infatti, non può essere ostacolata dal principio di effettività del diritto unionale (cfr. CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, O/impiclub), in ragione del quale è stato affermato, in materia di IVA, che non è possibile estendere ad altri periodi di imposta un giudicato in contrasto con la disciplina della UE, avente carattere imperativo (Cass. n. 9710 del 19/04/2018; conf. Cass. n. 8855 del 04/05/2016; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 19 maggio 2010, n. 12249).

In primo luogo, è la stessa sentenza Olimpiclub a chiarire che, in linea di principio, gli effetti del giudicato vanno salvaguardati salvo ipotesi del tutto particolari (si veda, in senso analogo, anche CGUE 10 luglio 2014, in causa C-213/13, Pizzarotti, par. 58) o che investono la stessa ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la UE (cfr. CGUE 18 luglio 2007, in causa C-119/05, Lucchini).

Si tratta, pertanto, di un principio da applicare restrittivamente, in quanto “il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto” (CGUE 10 luglio 2014, cit., par. 59).

Secondariamente, diversamente dall’IVA, il dazio non è un imposta “periodica”, bensì “d’atto”, riguardando le singole importazioni, sicchè l’occasionale impedimento all’effettività del diritto unionale conseguente all’applicabilità della regola prevista dall’art. 2909 c.c. non è di rilevanza pari a quanto prospettato dalla CGUE nella sentenza Olimpiclub, laddove la non corretta applicazione del diritto dell’unione “si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione” (CGUE 3 settembre 2009, cit., par. 30).

Infine, nell’ipotesi in cui si discute non viene in considerazione la violazione del diritto unionale, in quanto la regola del giudicato comporta, in definitiva, la corretta applicazione di quest’ultimo.

Ne consegue che i motivi proposti dall’Amministrazione doganale vanno senz’altro rigettati in ragione degli effetti del giudicato costituito dalla sentenza della CTR di Milano n. 5399/07/15 del 14/12/2015: l’interpretazione dei contratti tra licenziante e licenziatario derivante dal giudicato impedisce, infatti, l’integrazione della condizione indicata nel par. 4.3. e necessaria per l’assoggettamento delle royalties a dazio doganale.

5. Con il quarto motivo di ricorso l’Agenzia delle dogane deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, commi 1 e 2 (Testo unico sulla legge doganale – T.U.L.D.) e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 70, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziandosi che le sanzioni irrogate costituiscono corretta applicazione delle norme in rubrica a seguito delle violazioni doganali accertate.

5.1. Il motivo resta assorbito in ragione della conferma della sentenza di appello che ha ritenuto l’illegittimità dell’accertamento.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato, sussistendo giusti motivi, in ragione della complessità della questione affrontata e della sopravvenienza del giudicato, per la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019

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