Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29153 del 11/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 11/11/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 11/11/2019), n.29153

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4176-2018 proposto da:

SVILUPPO ITALIA CALABRIA SCPA IN LIQUIDAZIONE, in persona del

Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DE

VIVO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.F., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

RICCARDO MANFREDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1803/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 29/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 18/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. SPENA

FRANCESCA.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 10 ottobre – 29 novembre 2017 numero 1803 la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza, accoglieva parzialmente la domanda proposta da C.F. nei confronti della società SVILUPPO ITALIA CALABRIA s.c.p.a. e, per l’effetto, per quanto in questa sede in discussione, accertava la esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal mese di ottobre del 1999 e condannava il datore di lavoro al pagamento delle differenze di retribuzione maturate, nell’importo di Euro 10.450,41;

che la Corte territoriale riteneva non condivisibile l’assunto del Tribunale, che aveva ritenuto carente la prova della subordinazione.

Osservava in primo luogo che occorreva attribuire rilievo alla prova documentale ed alle circostanze non contestate. Era rilevante lo stesso piano di inserimento professionale formalmente intercorso, in virtù del quale la C. era stata inserita nell’anno 2000 nel tessuto lavorativo aziendale al fine di acquisire la professionalità di impiegata; si trattava, infatti, un contratto a causa mista chiaramente modulato sul rapporto di lavoro subordinato, da cui si distingueva per la presenza dell’obbligo formativo dell’utilizzatore. A fronte della deduzione della lavoratrice secondo cui il rapporto in realtà si sarebbe svolto nelle forme della subordinazione, era onere del datore di lavoro provare di aver adempiuto all’obbligo formativo mentre la parte appellata nulla aveva dedotto e provato al riguardo.

Anche a ritenere non determinante l’inadempimento all’obbligo formativo, rimaneva il valore fortemente indiziante del piano, inserito temporalmente fra un formale contratto collaborazione professionale ed un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa ed a fronte dell’affermazione della ricorrente, non contestata, di avere svolto sempre le medesime mansioni.

Altro elemento indiziante era la totale indeterminatezza dell’oggetto dei contratti formalmente sottoscritti, dapprima come collaborazione professionale, poi come collaborazione coordinata e continuativa, infine come collaborazione coordinata a progetto.

Per quest’ultimo contratto, dalla assenza di un progetto specifico discendeva, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, la conversione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato.

In ogni caso, dovevano essere esaminate le prove testimoniali poichè la domanda abbracciava un arco temporale superiore a quello coperto dal contratto di collaborazione a progetto.

I testi S.G. e B.P. avevano riferito della soggezione della lavoratrice alle direttive datoriali, che valeva a qualificare il rapporto come di lavoro subordinato; inoltre da tutti i testi era confermata l’esistenza dei criteri sussidiari di qualificazione: emergeva, infatti, un contesto in cui i lavoratori a progetto prestavano la loro attività insieme ai lavoratori subordinati, nell’ambito degli stessi gruppi di lavoro e svolgendo le stesse mansioni, erano tenuti a rispettare gli stessi orari lavorativi e godevano dello stesso periodo feriale; erano tenuti a giustificare le assenze ed a documentare eventuali malattie; erano pienamente inseriti nell’organizzazione aziendale ed usavano i beni strumentali forniti dalla pretesa committente.

Era inoltre provata la prestazione di lavoro anche nei periodi non coperti formalmente da contratto.

Quanto all’inizio del rapporto la teste S., dipendente della convenuta dall’anno 1998, aveva riferito che la ricorrente aveva iniziato a lavorare in azienda circa un anno dopo di lei; la continuità del rapporto era confermata dal teste V.D., il quale dichiarava che allorquando egli aveva iniziato a lavorare per la convenuta, nell’anno 2001, la ricorrente già lavorava e che era andata via nel 2007.

L’importo delle differenze retributive era stato determinato con c.t.u. contabile, in misura pari ad Euro 5.500,70 per differenze retributive e 4.949,71 a titolo di indennità per ferie non godute e festività, indennità spettanti in quanto il mancato godimento di ferie e festività era stato dedotto in ricorso e non contestato;

che avverso la sentenza ha proposto ricorso la società SVILUPPO ITALIA CALABRIA scpa in liquidazione, articolato in otto motivi, cui ha opposto difese con controricorso C.F.;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione della adunanza camerale – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

che la parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che la parte ricorrente ha dedotto:

– con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 156,414 e 421 c.p.c..

Ha esposto di avere eccepito già con la memoria difensiva la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, per la mancata determinazione dell’oggetto della domanda e la mancata esposizione degli elementi di fatto e di diritto su cui essa era fondata. In riferimento alla domanda di differenze di retribuzione si evidenziava la mancanza di quantificazione dell’importo richiesto, dei parametri di riferimento per il calcolo, della specifica dei titoli.

Tale eccezione di nullità, ribadita al numero uno delle conclusioni della memoria di costituzione in appello, era stata implicitamente rigetta dalla sentenza impugnata;

– con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 156 e 434 c.p.c. – per avere la corte territoriale respinto l’eccezione di mancanza di specificità dei motivi di appello laddove l’atto di impugnazione non conteneva specifiche critiche alla motivazione della sentenza di primo grado;

– con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Con il motivo si impugna la sentenza per avere affermato che non erano state contestate le allegazioni di parte ricorrente.

In particolare si affermava non essere contestata l’allegazione della lavoratrice di avere sempre svolto le medesime mansioni laddove in nessun punto del ricorso la parte ricorrente sosteneva di avere svolto nell’intero arco del rapporto le medesime mansioni; piuttosto si indicavano i vari compiti svolti (segretaria, addetta al centralino, addetta all’inserimento dati al computer, assistente al recupero crediti, tutor), del tutto diversi tra di loro, senza dichiararne lo svolgimento contemporaneo e continuativo.

Si trattava di mansioni svolte in successione nel tempo, che trovavano riscontro nei diversi contratti di volta in volta stipulati.

Parimenti erronea era l’affermazione della Corte territoriale circa la assenza di contestazione del mancato godimento di ferie e di festività. Invero in ordine alle festività non vi era alcuna allegazione in ricorso; quanto alle ferie, la ricorrente dapprima dichiarava di non aver goduto di ferie poi, in modo contraddittorio, di avere goduto di 15 giorni di ferie l’anno, senza mai quantificare il numero di giorni di ferie non goduti e la relativa indennità. Essa aveva eccepito l’infondatezza delle allegazioni di controparte e contestato già all’esito della prima bozza di c.t.u. che fosse stata calcolata anche la indennità per ferie e festività non godute;

– con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c. nonchè degli artt. 112 e 115 c.p.c., impugnando la sentenza per avere accertato un rapporto di lavoro subordinato dal mese di ottobre del 1999 dando rilievo in primo luogo alla prova documentale ed a circostanze pretesamente non contestate.

La Corte territoriale derivava la subordinazione dall’esistenza di un piano di inserimento professionale ed erroneamente riteneva che la società avrebbe dovuto provare di aver adempiuto all’obbligo formativo, in quanto la lavoratrice non aveva affatto dedotto il mancato adempimento dell’obbligo formativo.

Del pari erroneamente era stato ritenuto non contestato lo svolgimento delle medesime mansioni ed il mancato godimento di ferie e festività.

La Corte d’appello aveva errato sotto un duplice profilo nell’applicazione del principio di contestazione: sia considerando non contestati fatti che in realtà erano stati contestati sia applicando, per come emergeva dalla motivazione, la nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c. ad un procedimento iniziato nell’anno 2008, antecedentemente alla riforma apportata dalla L. n. 69 del 2009;

– con il quinto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Si assume la assenza di congrua motivazione dell’accertamento compiuto in sentenza, alla luce delle risultanze istruttorie, imputandosi al giudice dell’appello di avere riportando in modo parziale le dichiarazioni dei testi e di avere violato i principi di diritto relativi all’onere della prova.

Quanto alle prove documentali, in relazione al contratto di incarico professionale del 30 dicembre 1999 ed al contratto di collaborazione coordinata e continuativa del 9 febbraio 2001, si deduce che, non essendovi all’epoca alcuna disposizione che imponesse una forma specifica, non vi era sotto il profilo formale alcuna ragione di invalidità; per il contratto a progetto del 3/8/2004 si lamenta che il progetto era stato riportato solo in parte e che non era motivato il giudizio di mancanza di specificità.

Quanto alle prove testimoniali, la Corte d’Appello ometteva di riportare integralmente le dichiarazioni della teste S.G. nè alcun indice emergeva dalle dichiarazioni della teste B.P. e del teste V.D., che non avevano riferito in modo diretto circa le modalità di svolgimento delle mansioni della lavoratrice. Le dichiarazioni della teste CE. erano state parimenti riportate in modo incompleto.

L’attività di collaborazione sia coordinata e continuativa che nella forma a progetto era perfettamente compatibile con l’emanazione di direttive generiche da parte della committente e non era affatto emersa l’emanazione di direttive stringenti e specifiche nè la sussistenza di un controllo quotidiano.

La sentenza della corte territoriale era priva di reale motivazione perchè non indicava la prova delle direttive emanate, del loro contenuto concreto e della loro frequenza e vincolatività come non indicava quali fossero i cosiddetti indici sussidiari emersi, limitandosi a ripetere generiche affermazioni, che riguardavano spesso altri lavoratori e progetti ed ambiti lavorativi differenti.

Avrebbe dovuto, piuttosto, essere valorizzata la volontà negoziale circa la qualificazione del rapporto;

– con il sesto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione dell’art. 2697 c.c. nonchè degli artt. 112,115 e 116 c.p.c..

Con il motivo si eccepisce, in relazione alle medesime parti della sentenza impugnata con il quinto motivo, la violazione dei principi di diritto in materia di onere della prova e di poteri del giudice di valutazione della prova, assumendosi che la corte territoriale aveva fondato il proprio convincimento su circostanze rimaste sfornite di prova;

– con il settimo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. nonchè degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., impugnandosi la sentenza per avere ritenuto che il rapporto fosse continuativo e decorrente dall’ottobre 1999 al maggio 2007.

Si assume che la prova era stata raggiunta sulla base di poche ed imprecise affermazioni rese dai testi S. e V., che non erano idonee a tale scopo;

– con l’ottavo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,416 c.p.c. e del CCNL Gruppo Sviluppo Italia, impugnando la statuizione di condanna al pagamento della indennità per ferie non godute e festività motivata dall’errato presupposto della mancata contestazione.

La società convenuta espone che nulla era stato dedotto in ricorso circa le somme richieste, in relazione alle quali neanche era allegato un conteggio e di avere replicato alle generiche deduzioni contestando in radice il dedotto rapporto subordinato. La richiesta di somme a titolo di indennità sostitutive per ferie non godute era emersa solo all’esito della c.t.u. di secondo grado e sin dal momento in cui il c.t.u. aveva effettuato i conteggi la società, tramite il proprio consulente e poi tramite note difensive, aveva contestato il computo di somme mai espressamente richieste in precedenza e delle quali la controparte non provava il titolo.

che ritiene il collegio si debba rigettare il ricorso;

che, invero:

– il primo motivo è inammissibile per difetto di specificità. Vero è che Cass., sez. un., 22-05-2012, n. 8077, ha affermato che quando col ricorso per cassazione è denunciato un vizio comportante la nullità della sentenza impugnata o del procedimento ed, in particolare, si lamenta l’indeterminatezza dell’oggetto della domanda proposta in primo grado, il giudice di legittimità non deve limitarsi a vagliare la motivazione con cui quello di merito ha statuito sul punto, ma ha il potere di esaminare e valutare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata ritualmente formulata; ma questa stessa pronuncia ha anche precisato che il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale, nei termini sopra chiariti, non comporta il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino errores in procedendo. In particolare non viene meno l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione: sicchè l’esame diretto degli atti che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato.

Nella specie il contenuto del ricorso ex art. 414 c.p.c. non è stato esposto dal ricorrente se non in maniera generica, rimandando questa Corte all’esame del relativo allegato 2; inoltre non vi è alcuna indicazione circa le statuizioni eventualmente rese dal giudice del primo grado sulla eccezione di nullità del ricorso. Infine, dalla sentenza impugnata risulta che l’appellata società aveva eccepito esclusivamente la inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 434 c.p.c. e non anche la nullità del ricorso di primo grado; era onere del ricorrente specificare, dunque, anche i contenuti della memoria d’appello, nella parte in cui riproponeva tale eccezione non essendo idoneo a tal fine il generico riferimento “a tutte le eccezioni già formulate nei precedenti scritti” (come esposto alla pagina 5 dell’odierno ricorso); le parti della memoria d’appello trascritte (soltanto) con la memoria autorizzata riguardano invece la eccezione di mancanza di specificità dell’appello ex art. 434 c.p.c. nonchè una eccezione di giudicato interno non conferente al motivo in trattazione.

Ad analoghi rilievi di inammissibilità conduce l’esame del secondo motivo di ricorso; la parte ricorrente assume la genericità dell’atto di appello senza riportare in questa sede il suo contenuto; il motivo è piuttosto fondato sui principi di diritto, relativi alla interpretazione dell’art. 434 c.p.c., che la parte assume essere stati disattesi dalla Corte territoriale.

Con il terzo motivo si censura la valutazione, compiuta dalla Corte territoriale, della non-contestazione di alcuni fatti di causa (lo svolgimento delle medesime mansioni nel corso del rapporto; il mancato godimento di ferie e festività). La valutazione di un fatto come non contestato costituisce, tuttavia, un giudizio di merito, censurabile dinanzi a questo giudice di legittimità esclusivamente con la deduzione di un vizio di motivazione e dunque con la allegazione specifica delle allegazioni svolte, e non esaminate nella sentenza impugnata, decisive ad escludere la non contestazione del fatto accertato (in termini, per tutte: Cassazione civile sez. VI, 07/02/2019, n. 3680). Il motivo, così riqualificato, neppure supera il rilievo di inammissibilità, in quanto non specifica adeguatamente le allegazioni svolte dalla lavoratrice nell’atto introduttivo del giudizio ed il luogo ed il tempo della operata contestazione;

– quanto al quarto motivo, la stipula di un piano di inserimento professionale è stata valutata dalla Corte territoriale, come evidenziato dalla stessa società ricorrente, anche come sintomatica dello svolgimento del rapporto con le medesime modalità, di natura subordinata, nei periodi di lavoro non coperti dal piano sicchè le deduzioni svolte con il motivo, che colgono la concorrente statuizione dell’inadempimento all’obbligo formativo, restano prive di decisività ai fini della cassazione della sentenza.

Con il quinto motivo si censura il giudizio di fatto espresso in sentenza circa lo svolgimento del rapporto dall’ottobre 1999 con le modalità della subordinazione. A tale valutazione la Corte territoriale è pervenuta esaminando congiuntamente i fatti non contestati, i documenti e la prova per testi.

Orbene rispetto a tale complessiva valutazione, la parte non allega alcun fatto, oggetto di discussione e di rilievo decisivo, non esaminato nella sentenza impugnata.

In particolare, quanto alla prova testimoniale, le censure mosse alla sentenza impugnata, relative all’esame parziale delle dichiarazioni dei testi, introducono una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito.

La Corte territoriale ha poi considerato la totale indeterminatezza dell’oggetto dei contratti di collaborazione professionale formalmente sottoscritti tra le parti non già quale ragione di nullità dei medesimi, in violazione delle norme vigenti ratione temporis, ma unicamente quale indice sintomatico, unitamente agli altri, della subordinazione. Le considerazioni svolte nella sentenza impugnata sulla genericità del progetto D.Lgs. n. 276 del 2003 ex art. 69, infine, hanno una valenza meramente rafforzativa, essendo stata accertata la subordinazione da epoca ben anteriore alla stipula del contratto a progetto del 3 agosto 2004.

Il sesto ed il settimo motivo, pur deducendo formalmente la violazione di norme di diritto, pongono, al pari del quinto motivo, censure di merito, in quanto contestano la idoneità degli elementi istruttori valutati dal giudice dell’appello a fornire la prova dei fatti.

L’ottavo motivo, da ultimo, anch’esso qualificato in termini di violazione di norme di diritto e del CCNL, è sovrapponibile alle censure svolte nel terzo motivo, in ordine alle allegazioni svolte in punto di ferie e festività non godute nonchè nel primo motivo, quanto alla genericità sul punto del ricorso di primo grado, con le stesse lacune, in termini di specificità della censura, ivi evidenziate;

che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere respinto con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.

che le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 3.500 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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