Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29144 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. trib., 13/11/2018, (ud. 10/10/2018, dep. 13/11/2018), n.29144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29828-2011 proposto da:

FACTORIT SPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LAZZARO

SPALLANZANI 22, presso lo studio dell’avvocato NUZZO ANTONIO, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIOVANARDI CARLO

ALBERTO, FATTORI ANDREA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI BARLETTA ANDRIA TRANI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 30/2011 della COMM. TRIB. REG. di BARI,

depositata il 30/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/10/2018 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA.

Fatto

RILEVATO

che:

p. 1. Factorit spa propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza del 30 maggio 2011 con la quale la commissione tributaria regionale della Puglia, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione notificatole dall’agenzia delle entrate per imposta proporzionale di registro (1%) sul verbale di conciliazione 22 febbraio 2008. Verbale di conciliazione con il quale la società aveva definito il giudizio di opposizione allo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) spa, mediante ammissione di un credito chirografario di Euro 8.397.878,76, rinveniente da finanziamenti su factoring erogati alla società fallita, ovvero da quest’ultima garantiti.

La commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che fosse nella specie applicabile l’imposta proporzionale di registro di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 8, lett. c), nota 2 Tariffa all. (accertamento di diritti a contenuto patrimoniale), e non l’imposta in misura fissa di cui alla lett. b) art. cit. (condanna al pagamento di somme o valori, in rapporti assoggettati ad Iva), atteso che: – l’imposta di registro ha natura di imposta d’atto, con la conseguenza che, in caso di tassazione di atto giudiziario, occorre fare esclusivo riferimento al contenuto ed agli effetti emergenti da quest’ultimo, risultando estraneo il negozio giuridico sottostante, nella specie rientrante in campo Iva; – la sentenza di ammissione al passivo, cui doveva essere equiparato il verbale di conciliazione giudiziale, doveva ritenersi “completamente scollegata” dal tipo di rapporto tributario sottostante il credito, con conseguente inapplicabilità del criterio di alternatività tra imposta di registro ed Iva; l’ammissione al passivo derivante dal verbale di conciliazione in questione non aveva natura di condanna al pagamento di somme o valori, concretandosi unicamente nell’accertamento del credito.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

p. 2.1 Con il primo motivo di ricorso Factorit spa lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 37 e 40, in relazione all’art. 8 tariffa allegata, per avere la commissione tributaria regionale ritenuto legittima l’imposizione proporzionale di registro (in luogo di quella in misura fissa) nonostante che il verbale di conciliazione in questione avesse ad oggetto operazioni di finanziamento e garanzia rientranti in campo Iva (anche se esentate dal pagamento della relativa imposta, ex D.P.R. n. 633 del 1972, art. 1, lett. l); con conseguente indebita disapplicazione del principio generale di alternatività tra Iva ed imposta di registro di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 40.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – motivazione contraddittoria, per avere la commissione tributaria regionale dapprima affermato che la pronuncia giurisdizionale di accertamento del credito era “completamente scollegata dal tipo di rapporto tributario sottostante il credito”, per poi affermare la legittimità dell’avviso di liquidazione “proprio sul presupposto della inapplicabilità al caso di specie di una norma che, invece, presuppone uno stretto collegamento tra gli atti dell’autorità giudiziaria e l’assoggettamento o meno ad Iva della prestazione di beni o servizi che ha generato il credito oggetto della pronuncia giurisdizionale” (così ric. pag. 15).

Con il terzo motivo di ricorso Factorit spa deduce violazione e falsa applicazione delle già citate disposizioni del D.P.R. n. 131 del 1986, per avere la commissione tributaria regionale erroneamente equiparato la sentenza definitoria dell’opposizione allo stato passivo ad una pronuncia di accertamento, e non di condanna; nonostante che essa costituisse l’unico mezzo per consentire al creditore di far valere il credito nei confronti del fallimento e nonostante, inoltre, che la Corte Costituzionale avesse già equiparato la sentenza definitoria dell’opposizione allo stato passivo fallimentare ad una pronuncia di condanna (sent. C. Cost. nn. 522/2002 e 198/2010, sul D.P.R. n. 131 del 1986, art. 66, in tema di imposizione di registro del rilascio di copia autentica del provvedimento giudiziale).

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta violazione della stessa disciplina di riferimento. Per avere la commissione tributaria regionale affermato un principio incongruo e non alieno da fondato dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 8, nota 2 cit.; sotto il profilo della irragionevole applicazione alla pronuncia di accertamento (ove tale la si volesse considerare) di un’imposta di misura (1%) superiore a quella applicabile ad una pronuncia di condanna (fissa, se relativa a rapporto Iva), e nonostante che quest’ultima, in quanto preordinata all’espropriazione, contenesse un quid pluris rispetto all’accertamento, pure in essa contenuto.

p. 2.2 I motivi di ricorso – suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle questioni sollevate – sono fondati.

La tariffa di registrazione applicabile alla sentenza (estensibile anche all’atto di conciliazione giudiziale, stante l’espressa equiparazione in tal senso prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 37) è desumibile dall’art. 8 tariffa allegata, il quale sottopone all’aliquota proporzionale del 3% le sentenze “recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura” (lett. b), ed all’aliquota proporzionale dell’1% le pronunce “di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale” (lett. c).

La nota 2 apposta in calce all’art. 8 in esame, poi, prevede che: “Gli atti di cui al comma 1, lettera b), e al comma 1-bis non sono soggetti all’imposta proporzionale per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 40 del testo unico”.

Nella concretezza del caso, la società contribuente intende avvalersi – sul presupposto della affermata equiparabilità della sentenza di definizione del giudizio di opposizione allo stato passivo fallimentare alla pronuncia di condanna al pagamento – di quanto stabilito nella lett. b) dell’art. 8 cit., così come richiamato nella riportata nota 2, con conseguente sollecitata applicazione dell’imposta di registro in misura fissa in virtù del principio di alternatività con l’Iva, ex D.P.R. n. 131 del 1986, art. 40.

La commissione tributaria regionale ha tuttavia disatteso questa impostazione, ritenendo legittima l’imposizione proporzionale in misura dell’1% del credito ammesso. Ciò sul presupposto che l’assoggettamento all’imposta di registro in misura fissa in forza del principio di alternatività con l’Iva fosse espressamente prescritto per le sole sentenze di condanna (lett. b cit.), non anche per le pronunce di accertamento (lett. c), tra le quali va inclusa quella di definizione del giudizio di opposizione allo stato passivo, ex art. 98 L.fall..

In effetti, questa conclusione è stata in passato più volte affermata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale: “in tema di imposta di registro, la sentenza che, a seguito di giudizio di opposizione, ammette al passivo di una liquidazione coatta amministrativa un credito in precedenza escluso, deve essere assoggettata all’imposta proporzionale dell’uno per cento, prevista dall’art. 8, lett. c), della Tariffa, parte prima, di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, allegato A, trattandosi di una pronuncia adottata all’esito ad un giudizio contenzioso, che ha l’effetto di consentire al contribuente la partecipazione al concorso dei creditori, con possibile soddisfazione in sede di riparto dell’attivo, senza che assuma rilievo l’individuazione della natura del credito, dato che la tariffa agevolata, prevista nella nota 2 in calce al sopra menzionato art. 8, si applica nei soli casi di cui alla lett. b) del medesimo art. 8 (in virtù del principio di alternatività con l’IVA, ex D.P.R. n. 131 del 1986, art. 40) ed è norma di stretta interpretazione” (Cass. ord. n. 22502/17, con ulteriore richiamo a Cass. n. 12359/2005, n. 4748/2006, n. 6125/2011, n. 14816/2011, n. 17946/2012).

Questo convincimento muoveva dalle seguenti principali affermazioni: la previsione di cui alla nota 2 cit. va assoggettata a stretta interpretazione perchè di carattere agevolativo; ciò in quanto essa estende ad un atto diverso (vale a dire, la pronuncia giudiziale assunta quale specifico ed autonomo oggetto di imposizione) il regime di alternatività con l’Iva previsto in via generale soltanto per l’atto sostanziale sottostante, avente ad oggetto la cessione imponibile di beni o servizi; – in quanto tale, essa deve essere tassativamente limitata alle sentenze di condanna (lett. b), senza possibilità di estensione a quelle di mero accertamento (lett. c) le quali, proprio per tale natura, sono svincolate, perchè inidonee alla formazione di un titolo esecutivo atto a fondare l’espropriazione, dall’attuazione degli obblighi insiti nel negozio sostanziale avente ad oggetto la cessione o prestazione Iva; – la sentenza che definisce il giudizio di opposizione allo stato passivo rientra tra quelle di cui alla lett. c) cit., poichè essa non è suscettibile di esecuzione forzata (preclusa, in ambito fallimentare, dalla L.fall., art. 51), in quanto reca un contenuto che non è di condanna, bensì di mero accertamento dei presupposti di opponibilità del credito alla massa e di sua ammissione allo stato passivo, e ciò al fine, appunto, non dell’espropriazione individuale, bensì del concorso al riparto fallimentare.

p. 2.3 Questo assetto interpretativo deve tuttavia essere oggi rivisto alla luce della sentenza n. 177 del 2017, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lett. c), della Tariffa, Parte prima, allegata al TUR, “nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anzichè in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”.

Dopo aver ripercorso il su riportato orientamento di cassazione, il giudice delle leggi – riprendendo temi già emergenti dalla precedente sentenza n. 198 del 2010, dichiarativa della illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 66,comma 2, “nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo” – è giunta a ritenere irragionevole la diversa imposizione (in regime di alternatività Iva) basata sulla sola considerazione che la sentenza ex art. 98 L.fall. non conterrebbe (nè potrebbe contenere, visto il divieto di azione esecutiva nel fallimento ex L.fall., art. 51) un contenuto di condanna, ma solo di accertamento dei presupposti di ammissione del credito al concorso.

In particolare, ha osservato C. Cost. che: “nondimeno, tenuto conto della ratio del principio di alternatività, che mira a evitare la doppia imposizione dello stesso atto, si deve pervenire a una diversa conclusione con riguardo alle pronunce di accertamento dei crediti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento. (…). Invero, il trattamento differenziato non risponde a ragionevolezza qualora l’accertamento del credito soggetto a IVA sia, come nel caso dell’accoglimento dell’opposizione allo stato passivo, il presupposto necessario e sufficiente della partecipazione del creditore all’esecuzione collettiva, che è strumentale al pagamento del credito stesso, sia pure in “moneta fallimentare”. Sotto tale profilo, la differenza tra le pronunce di accertamento e le pronunce di condanna, da cui la richiamata giurisprudenza trae la conclusione dell’inapplicabilità del regime fiscale agevolato alle prime, tende a sfumare sino a dissolversi. Per la soddisfazione del credito ammesso al passivo, infatti, non è richiesta una successiva pronuncia di condanna suscettibile di esecuzione forzata, preclusa dal divieto ex art. 51 della legge fallimentare. Da questo angolo visuale, la ratio sottesa all’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA risulta comune a entrambe le situazioni messe a confronto ed esige pertanto che l’ambito di applicazione del beneficio fiscale sia esteso alle pronunce in questione, non essendo rilevante che il pagamento del corrispettivo soggetto a IVA, in sede di riparto dell’attivo fallimentare, sia un evento futuro e incerto nell’an e nel quantum, ben potendo valere questa stessa affermazione anche per il pagamento coattivo in seguito a condanna, che dipende comunque dalla capienza del patrimonio del debitore”.

Da ciò consegue la fondatezza della tesi della società contribuente.

Il ricorso va pertanto accolto, con la cassazione della sentenza impugnata.

Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, nè sono state dedotte altre questioni controverse, sussistono i presupposti per la decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., mediante accoglimento del ricorso introduttivo della società contribuente ed annullamento dell’atto impositivo.

Visto il sopravvenire in corso di causa della su riportata sentenza della Corte Costituzionale n. 177 del 2017 (intervenuta in un quadro di legittimità basato su una diversa interpretazione della normativa tariffaria di riferimento) sussistono i presupposti per la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

– accoglie il ricorso;

– cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., accoglie il ricorso introduttivo della società contribuente mediante annullamento dell’atto impositivo;

– compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 10 ottobre 2018.

Depositato in cancelleria il 13 novembre 2018

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