Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29144 del 06/12/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 06/12/2017, (ud. 18/07/2017, dep.06/12/2017),  n. 29144

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

B.G. propone ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale di Padova del 13 maggio 2016 con la quale è stata rigettata l’opposizione proposta dallo stesso B. avverso il decreto di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Osservava la decisione impugnata che il provvedimento di revoca era stato adottato all’esito della definizione in primo grado del giudizio intentato dal B. volto ad ottenere la condanna dei fratelli al pagamento degli alimenti, attesa l’impossibilità per l’attore di poter conseguire l’assegno alimentare che era stato in precedenza posto dall’AG a carico dei suoi figli.

La sentenza del Tribunale di Padova n. 326/2016 nel rigettare la domanda, condannava il B. anche al pagamento in favore dei convenuti della somma di Euro 4.835,00 ex art. 96 c.p.c., comma 3, sicchè con separato provvedimento lo stesso Tribunale, rilevato che l’attore aveva agito in mala fede e che comunque fruiva di un reddito annuo superiore al limite previsto per poter beneficiare del patrocinio a spese dello Stato, revocava l’ammissione al beneficio disposta in via provvisoria dal Consiglio dell’Ordine, e con efficacia retroattiva. L’ordinanza oggi gravata nell’esaminare il motivo di opposizione del ricorrente, fondato esclusivamente sulla erronea determinazione del reddito rilevante ai fini dell’ammissione, evidenziava che la revoca era stata principalmente disposta per la mala fede con la quale era stata proposta la domanda di merito, in relazione alla quale era stato richiesto il beneficio, sicchè l’impugnazione andava disattesa.

Il Ministero si è costituito ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.

Il primo motivo, con il quale si denunzia la violazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 15 in relazione al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170 laddove il provvedimento gravato è stato adottato, non dal Presidente del Tribunale, bensì da un giudice monocratico del Tribunale di Padova, in contrasto con le norme indicate, è infondato.

Ed, invero, ritiene il Collegio che debba darsi seguito ai principi già espressi in varie occasioni da questa Corte.

Ed, infatti, Cass. n. 9879/2012 ha affermato che “In tema di spese di giustizia, stante la previsione secondo cui, quando è proposta opposizione avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato, l’ufficio giudiziario procede in composizione monocratica (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170), la competenza a provvedere appartiene ad un giudice singolo del tribunale oppure della corte d’appello (a seconda dell’appartenenza del magistrato che ha emanato il decreto di liquidazione oggetto di impugnazione), ed il giudice monocratico va identificato con il presidente dell’ufficio giudiziario o con il giudice da lui delegato (Cass. pen., Sez. Un., 16 febbraio 2007, n. 6817). E poichè nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario – tribunale o corte d’appello – non sono configurabili questioni di competenza tra presidente e giudici da lui delegati, ma solo di distribuzione interna degli affari in base alle tabelle di organizzazione dell’ufficio (Cass., Sez. 3, 3 aprile 2001, n. 4884), va escluso che costituisca ragione di invalidità dell’ordinanza, adottata in sede di opposizione al provvedimento di liquidazione, il fatto che essa sia stata emessa da un giudice addetto al tribunale anzichè dal presidente dello stesso” (conf. Cass. n. 18080/2013).

Deve quindi escludersi che quanto dedotto dal ricorrente possa determinare l’invalidità del provvedimento impugnato.

Il secondo motivo denunzia invece la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136.

Si rileva che, proprio perchè la revoca era stata adottata nel caso di specie sul presupposto che l’attore avesse agito con mala fede ovvero colpa grave, e che a tal fine ci si era avvalsi di quanto stabilito dal Tribunale con la sentenza che aveva rigettato nel merito la domanda alimentare proposta dal B., occorreva attendere che l’accertamento circa la condotta processuale abusiva dell’attore fosse divenuto definitivo.

Nella specie pendeva ancora il termine per impugnare la decisione di primo grado, sicchè non poteva essere disposta la revoca prima della formazione del giudicato.

Il motivo ad avviso del Collegio è infondato.

In primo luogo giova rilevare che la valutazione della mala fede è stata effettuata dal giudice della cognizione ai fini dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c., essendo invece frutto di un’autonoma valutazione quella compiuta in occasione del provvedimento di revoca, sicchè la condivisibilità del giudizio espresso dal giudice che ha pronunciato il secondo doveva costituire oggetto di uno specifico motivo di opposizione, onde sollecitare il giudice chiamato a decidere su quest’ultima a verificare la correttezza dell’apprezzamento della condotta processuale tenuta dal soggetto ammesso al beneficio poi revocato.

Nel caso in esame emerge che il B. non aveva minimamente contestato la valutazione espressa sul punto dal giudice della revoca, avendo incentrato le sue critiche unicamente sulla corretta determinazione del reddito del quale era titolare.

Ne consegue che, indipendentemente dalle sorti della causa di merito, era l’opposizione di cui all’art. 170,1a sede ove la parte avrebbe legittimamente potuto far valere le proprie censure circa tale apprezzamento, sicchè la mancata contestazione del provvedimento in parte qua impedisce che possa dedursi come motivo di ricorso il solo fatto che la statuizione del giudice che ha deciso la causa di merito non sia ancora divenuta definitiva. A ciò deve poi aggiungersi che, anche laddove si reputasse la statuizione emessa in sede di revoca adottata sul presupposto della correttezza dell’accertamento compiuto dal giudice della cognizione, le considerazioni espresse dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 10027 del 201, che hanno valorizzato la portata dell’art. 337 c.p.c., portano ad affermare che il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, qualificando la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, consente di invocare l’autorità della sentenza di primo grado, la quale è idonea a dispiegare la sua efficacia anche negli eventuali giudizi legati da nesso di pregiudizialità, senza dover quindi necessariamente attendere il passaggio in giudicato, essendo la decisione di sospendere il processo pregiudicato, in attesa della definizione della causa pregiudicante, frutto di una valutazione discrezionale del giudice.

Deve quindi ritenersi che l’autorità della sentenza di primo grado, laddove il giudice deputato a provvedere sulla revoca e sulla successiva opposizione, non ravvisino la sua erroneità, giustifica l’adozione di un provvedimento che si fondi sull’accertamento dei fatti come operato nella stessa.

Infine non vanno trascurate evidenti considerazioni di carattere pratico, posto che, occorrendo attendere il passaggio in giudicato della decisione di merito che ravvisi la mala fede o la colpa grave, il giudice che procede, al quale è appunto del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 136 devoluta la competenza ad adottare il provvedimento di revoca, dovrebbe verificare se e quando venga a formarsi il giudicato, rendendo quindi estremamente difficoltosa l’applicazione della previsione normativa.

Nè infine deve trascurarsi l’ulteriore argomento costituito dal fatto che, negandosi la possibilità di poter immediatamente adottare il provvedimento di revoca, anche a fronte di domande avanzate con mala fede o colpa grave conclamate, la necessità di attendere il passaggio in giudicato, consentirebbe alla parte che abbia abusato del processo, di poter reiterare la condotta abusiva in sede di impugnazione, continuando a beneficiare del patrocinio a spese dello Stato, dovendosi poi anche tener conto delle pressochè nulle possibilità di recupero delle eventuali somme anticipate a tale titolo da parte dello Stato, alla luce delle precarie condizioni economiche del soggetto provvisoriamente ammesso al beneficio.

Anche tale motivo deve quindi essere rigettato.

Infine, il terzo motivo con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76 nella parte in cui si contestano i criteri dei quali si è avvalso il giudice dell’opposizione per la determinazione del reddito del ricorrente è evidentemente inammissibile in quanto non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato che ha ritenuto del tutto inconferente il motivo di opposizione di analogo tenore avanzato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170 a fronte di una decisione di revoca fondata su di un’autonoma ratio decidendi, peraltro non contestata in sede di opposizione, costituita appunto dalla male fede del B..

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente che liquida in complessivi Euro 1.000,00 oltre spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2017

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