Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29114 del 18/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 18/12/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 18/12/2020), n.29114

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3640/2016 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO RAIMONDO

BOCCIA, ENZO MORRICO, e ROBERTO ROMEI;

– ricorrente –

contro

I.C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso 1a CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO FANIZZI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2349/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 10/11/2015, R.G.N. 2317/2012.

 

Fatto

RILEVATO

che il Tribunale di Bari, con sentenza resa in data 1.8.2012, in accoglimento del ricorso proposto da I.C.A., nei confronti di Telecom Italia S.p.A., ha ordinato alla società di attribuire al dipendente mansioni equivalenti a quelle effettivamente espletate sino al mese di febbraio del 2002 e, per l’effetto, ha condannato la stessa a risarcire il danno cagionato al ricorrente, quantificato nell’importo pari ad 1/3 delle retribuzioni percepite dalla data del demansionamento sino a quella in cui è cessata la condotta illegittima; ha, inoltre, dichiarato la illegittimità della sanzione disciplinare irrogata al dipendente in data 3.12.2002 ed altresì la illegittimità dell’adozione della procedura informatizzata FAS di controllo a distanza dell’attività lavorativa del medesimo, ordinando alla società datrice la dismissione di tale procedura;

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata il 10.11.2015, in parziale accoglimento del gravame interposto da Telecom Italia S.p.A. avverso la pronunzia di prima istanza, ha rigettato la richiesta di dismissione dei terminali collegati alla procedura FAS, confermando per il resto la sentenza impugnata; che per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Telecom Italia S.p.A. articolando sei motivi;

che I.C.A. ha resistito con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c.; 12 del CCNL Telecomunicazioni 1992 e 23, lett. B), del CCNL Telecomunicazioni 2000, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si lamenta che la decisione assunta dalla Corte distrettuale sia violativa delle norme citate, in quanto frutto di “un’erronea ricognizione delle fattispecie astratte sopra menzionate”, nonchè di una “erronea interpretazione delle declaratorie contrattuali previste dalla contrattazione collettiva di settore”, poichè, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, “le attività cui era stato preposto l’ I. sono sussumibili nelle previsioni contrattuali delineate dall’art. 23 del ccnl del 2000, ovvero nel 4 livello”; pertanto, a parere della società ricorrente, la Corte di merito avrebbe errato nel “ritenere che il dedotto demansionamento sia stato la conseguenza della mera assegnazione da parte della Telecom dell’ I. ad un settore diverso, in quanto ciò non ha comportato una misura inferiore di responsabilità” e, comunque, “ormai del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, ha integralmente sostituito l’art. 2103 c.c., positivizzando l’esercizio del c.d. ius variandi orizzontale, ovvero lo spostamento del dipendente a mansioni equivalenti…, permettendo l’assegnazione di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: mancata valutazione delle deposizioni testimoniali, per avere la corte di appello “ritenuto sussistente il presunto demansionamento, e la conseguente violazione dell’art. 2103 c.c., seguito dell’adibizione dell’ I. presso il nuovo settore CLU,…. mancando di valutare le proprie fonti di convincimento”; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., “nella parte in cui la sentenza non ha fornito alcuna argomentazione logica e coerente circa la mancata valutazione delle prove orali raccolte in primo grado”; 4) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione agli artt. 1218,1223 e 2043 c.c., per avere i giudici di secondo grado ammesso presunzioni semplici sul danno da demansionamento nonostante esse non fossero nè precise, nè gravi ed avere fondato la liquidazione del danno da dequalificazione professionale, “omettendo del tutto di considerare che il risarcimento del danno deve essere perentoriamente provato”; 5) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1226,2103,2697 c.c. e art. 432 c.p.c., “per carenza di allegazioni sul danno da demansionamento da parte del dipendente”; 6) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1460,2104,2105 c.c., nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7, per avere la Corte territoriale ritenuto illegittima la sanzione disciplinare comminata all’ I., considerandola “del tutto ingiustificata, innanzitutto e in via decisiva perchè il ricorrente, non avendo nella fase transitoria della ristrutturazione elementi necessari, non poteva attendere all’attività richiestagli, così come avveniva anche per gli altri suoi colleghi di lavoro di provenienza CLPS che si vedevano costretti a rifiutare regolarmente tali lavori, senza peraltro reazioni disciplinari da parte della società…. Appare allora pertinente il richiamo all’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (ex multis Cass., 12 luglio 2002, n. 10187)…”;

che il primo motivo non è fondato; con esso, all’evidenza, si censura, nella sostanza, il fatto che i giudici di seconda istanza avrebbero omesso il procedimento logico-giuridico c.d. trifasico, ritenuto necessario, alla luce del consolidato orientamento della Suprema Corte, per il corretto inquadramento del lavoratore; non avrebbero, cioè, accertato quali attività lavorative svolgesse in concreto il dipendente, non avrebbero proceduto all’individuazione delle qualifiche previste dai CCNL di categoria applicabili alla fattispecie ed infine, non avrebbero operato il raffronto tra il risultato della prima indagine e le declaratorie contrattuali individuate nella seconda;

che questo Collegio osserva, al riguardo, che la Corte di Appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo logico-giuridico, è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado ed uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali il procedimento logico-giuridico che determina il corretto inquadramento di un lavoratore subordinato si compone di tre fasi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 17163/2016): l’accertamento in fatto dell’attività lavorativa svolta in concreto; l’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal CCNL di categoria; il raffronto dei risultati delle suddette fasi (v., in particolare, le pagg. 7-10 della sentenza impugnata);

che, sulla scorta, quindi, degli elementi delibatori emersi in prima istanza e della corretta interpretazione delle declaratorie contrattuali, la Corte di Appello ha preso atto del fatto che il dipendente, “dapprima destinato a mansioni specialistiche rivolte all’utenza medio-alta, che presupponevano l’utilizzo di specifici strumenti di lavoro ed il coordinamento di persone addette a qualifiche inferiori, è stato successivamente assegnato, in termini di prevalenza qualitativa, quantitativa e temporale, a mansioni esecutive di mero intervento e successiva manutenzione su impianti di utenti privati, prive di qualsivoglia complessità e normalmente espletate da personale operaio appartenente a qualifiche inferiori…”. Inoltre, i giudici di seconda istanza hanno sottolineato che l’ I. è inserito nel livello 4 del CCNL del 2000, con il profilo di “Tecnico specialista”, che, sulla base del precedente CCNL del 1992 corrispondeva alla figura impiegatizia del “Lavoratore addetto ai Prodotti Sistemi”, nell’ambito dell’Organizzazione Territoriale Business, da cui la denominazione di “Tecnici ex PS” (“tale è il lavoratore al quale sono affidati nel settore tecnico dei Prodotti Sistemi interventi richiedenti una particolare valutazione concettuale”, con “cognizioni teoriche di rilievo”, con “conoscenze e capacità di utilizzo, adeguate al livello di appartenenza, del linguaggio uomo-macchina e dei manuali di operatore, disimpegnando compiti di coordinamento operativo di altro personale anche sotto il profilo antinfortunistico”: declaratoria del CCNL 1992″); che, all’esito di tale disamina, il Collegio di merito ha motivatamente ritenuto delibato che la società datrice, pur riconoscendo al dipendente ancora il livello 4, ne ha, però, rideterminato in peius le mansioni e, in sostanza, “ne ha confuso il profilo professionale, qualificandolo come “tecnico addetto ad attività di intervento”, figura professionale operaia e non impiegatizia, che nell’attuale CCNL del 2000 risulta coincidente con la figura dell'”addetto ad interventi tecnici” di cui al livello 3, appunto inferiore a quello in cui” formalmente l’ I. risulta inquadrato (il livello 4, appunto); con ciò, di fatto, dequalificandolo e mortificandone la professionalità;

che il secondo ed il terzo motivo – da trattare congiuntamente per ragione di connessione e sostanzialmente tesi, entrambi, ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede – sono inammissibili, in quanto è ius receptum che la valutazione delle risultanze probatorie o processuali denunciabile in sede di legittimità deve riguardare specifiche circostanze oggetto della prova, sulle quali il giudice di legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. nn. 21486/2011; 17915/2010); nella specie, si rileva che non sono state riportate neppure compiutamente le dichiarazioni rese dai testi escussi, che si assumono erroneamente interpretate dalla Corte di merito; e ciò, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, con la conseguenza che questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare compiutamente la veridicità della doglianza svolta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); a fronte di ciò, va, altresì, rilevato che i giudici di seconda istanza hanno compiutamente ed analiticamente esaminato tutte le risultanze istruttorie (v., in particolare, le pagg. 4-10 della sentenza impugnata) poste a fondamento della decisione oggetto del presente giudizio;

che il quarto ed il quinto motivo – anch’essi connessi – non sono meritevoli di accoglimento; ed invero, premesso che, nel caso di specie, non può applicarsi il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., poichè il demansionamento di cui si tratta si riferisce ad epoca antecedente all’entrata in vigore delle novità introdotte alla citata norma dal D.Lgs. n. 81 del 2015, per quanto più specificamente attiene al pregiudizio alla professionalità derivato al lavoratore a seguito del demansionamento subito, i giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011). Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare, quindi, un effetto della violazione incidente su di un determinato bene perchè possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito, già da epoca non recente (v. sent. n. 372/1994), che neppure il danno biologico è presunto, perchè se la prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonchè il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013; 14158/2011; 29832/2008);

che, facendo corretta applicazione dei principi enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente accolto le pretese del lavoratore, ritenendo correttamente che quest’ultimo, al fine della liquidazione del danno professionale, non si fosse limitato a fornire la prova della dequalificazione, ma avesse fornito adeguati elementi delibatori a sostegno del lamentato pregiudizio professionale che, da quella dequalificazione, era casualmente derivato (v., in particolare, le pagg. 9-14 della sentenza impugnata);

che il sesto motivo non è fondato, in quanto i giudici di seconda istanza, con un iter motivazionale del tutto corretto dal punto di vista logico-giuridico, fondato sull’esito dell’istruttoria espletata, non hanno ravvisato alcuna violazione degli obblighi sanciti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., a carico del prestatore d’opera, in considerazione del fatto che la condotta dell’ I., non può considerarsi violativa del prescritto obbligo di fedeltà, poichè non è stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la correttezza dell’adempimento da parte del dipendente (cfr., tra le molte, Cass. n. 25044/2015), il quale, “non avendo nella fase transitoria della ristrutturazione elementi necessari, non poteva attendere all’attività richiestagli”. E, pertanto, correttamente, i giudici di secondo grado hanno reputato che “la connotazione plurioffensiva della condotta del datore di lavoro” fosse “idonea ad incidere sulla posizione individuale del ricorrente e che, dunque, nella fattispecie, dovesse essere applicato il principio “inadimplenti non est adimplendum”, ai sensi dell’art. 1460 c.c. (v., ex plurimis, Cass. nn. 4502/2016; 2800/2008);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;

che le spese del giudizio di legittimità – liquidate come in dispositivo e da distrarre, ai sensi dell’art. 93 c.p.c., in favore del difensore di I.C.A., avv. Francesco Fanizzi, dichiaratosi antistatario – seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, da distrarsi. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2020

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