Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29100 del 18/12/2020

Cassazione civile sez. II, 18/12/2020, (ud. 15/10/2019, dep. 18/12/2020), n.29100

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21181/2016 proposto da:

S.F.P., rappresentato e difeso dall’Avvocato PIER

FILIPPO GIUGGIOLI, ed elettivamente domiciliati presso il suo studio

in ROMA, V.le BRUNO BUOZZI 99;

– ricorrente –

contro

A.D.M.A., rappresentata e difesa dagli

Avvocati FRANCESCO CANNIZZARO, e MICHELE PONTECORVO, ed

elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in ROMA, VIA

ASIAGO 9;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1011/2016 della CORTE d’APPELLO di MILANO

pubblicata il 14.03.2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/10/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 836, depositata in data 23.1.2012, il Tribunale di Milano condannava l’attrice A.D.M.A. a pagare al convenuto S.F.P. la somma di Euro 52.692,12 (oltre interessi legali dal 15.3.2007) e i due terzi delle spese di lite. La vicenda traeva origine da un contratto di cessione d’azienda (bar tavola fredda) con riserva di proprietà, stipulato in data 16-19.12.2003 per il prezzo di Euro 300.000,00 e risolto consensualmente nell’aprile 2006 per inadempimento della cessionaria: al momento della restituzione, sancita con verbale di consegna, le parti avevano formulato espressa riserva di adire l’autorità giudiziaria per veder riconosciuti i rispettivi diritti ex art. 1526 c.c..

Con atto di citazione, notificato in data 11.11.2006, la A. aveva, dunque, convenuto in giudizio il S. chiedendo la condanna al pagamento di Euro 62.879,00 (oltre interessi legali dalla domanda al saldo), somma pari alle rate fino ad allora corrisposte (Euro 129.873,00) ridotte di un importo pari all’equo compenso (Euro 42.000,00) e di ulteriore somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno (Euro 25.000,00).

Il convenuto si era costitito chiedendo la condanna dell’attrice al pagamento di Euro 120.501,21, somma ritenuta idonea a compensare il godimento del bene e a risarcire il danno subito.

Assunte le prove testimoniali ed espletata CTU per acquisire gli elementi necessari a determinare l’equo compenso, il Tribunale aveva riconosciuto, da un lato, il diritto di credito maturatosi relativamente ad Euro 129.873,00 in capo alla A. per effetto della risoluzione del contratto di vendita di azienda e, dall’altro, il diritto di credito del S. di complessivi Euro 182.565,12, di cui Euro 72.185,11 a titolo di equo compenso, Euro 20.380,01 a titolo di restituzione (per estinzione di obbligazioni assunte verso terzi e non adempiute dalla A.) ed Euro 90.000,00 a titolo di risarcimento del danno per la perdita di avviamento conseguente alla gestione della A..

Avverso detta sentenza aveva proposto appello la A. chiedendone la riforma per erroneità in punto di quantificazione del risarcimento dovuto.

Si era costituito in giudizio il S. chiedendo il rigetto dell’appello.

Con sentenza n. 1011/2016, depositata in data 14.3.2016, la Corte d’Appello di Milano, in accoglimento dell’appello e in parziale riforma della sentenza del Tribunale, determinava in Euro 129.873,00 il credito della A. e in Euro 92.565,12 il credito del S.; e disponeva la compensazione tra i due crediti per la parte corrispondente, condannando il S. al pagamento di Euro 37.307,88 in favore della A., oltre interessi legali dalla domanda al saldo. In particolare, la Corte territoriale evidenziava che il danno non potesse ritenersi in re ipsa, dovendo essere provato in base ai principi generali sull’onere della prova, mentre il S. non aveva fornito alcun elemento di prova.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il S. sulla base di due motivi, illustrati da memoria. Resiste la A. con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione degli artt. 61 e 116 c.p.c.: (nella parte in cui) la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto non provato il deprezzamento del valore dell’azienda, non riconoscendo il grado di piena prova alla CTU espletata a tal fine in sede di giudizio di primo grado”. Al consulente d’ufficio era stato affidato l’incarico di accertare i fatti, per cui la CTU costituisce fonte oggettiva di prova risolvendosi in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di specifiche cognizioni tecniche. Così il Tribunale aveva riconosciuto la necessità di deferire a un CTU, non solo la valutazione, ma anche l’acquisizione di elementi idonei a effettuare l’operazione di stima, stante la necessità di acclarare un fatto tecnico non altrimenti accertabile se non attraverso cognizioni settoriali. Del resto, entrambe le parti avevano fatto concorde richiesta di CTU al fine di accertare l’equo compenso e il risarcimento del danno. Di conseguenza, emerge la strumentalità dell’eccezione tardivamente e inammissibilmente sollevata dalla A. in sede conclusionale, poi rinnovata in appello, circa la pretesa inidoneità della CTU a dare prova del danno patito dal S. e la necessità, mai prima invocata, di fornire altra dimostrazione documentale (nella specie, il contratto di successiva cessione di azienda).

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – Va premesso come, del tutto correttamente, la Corte distrettuale abbia posto in evidenza che il danno asseritamente patito dal ricorrente non potesse ritenersi in re ipsa, dovendo viceversa essere provato in base ai principi generali sull’onere della prova; cosa che il ricorrente medesimo non aveva fornito.

Questa Corte ha affermato che, nella ipotesi di occupazione sine titulo di un cespite immobiliare altrui il danno subito dal proprietario per l’indisponibilità del medesimo può definirsi in re ipsa, purchè inteso in senso descrittivo, cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità del bene, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive (Cass. n. 25898 del 2016; cfr. Cass., sez. un., n. 15238 del 2008).

La Corte d’appello ha, dunque, correttamente rilevato che (nella specie), in senso contrario alla configurabilità circa la effettiva sussistenza di un danno effettivamente subito, stesse il fatto che – consensualmente risolto il contratto di cessione di azienda con restituzione dei beni – l’appellato fosse riuscito a cedere l’azienda poco dopo il rilascio da parte della A., senza tuttavia aver prodotto il nuovo contratto, che fosse idoneo a dimostrare di aver ceduto l’azienda a un corrispettivo inferiore rispetto a quello pattuito con la A. e documentando in tal modo un danno ben preciso.

1.3. – Quanto, poi, alla valenza dei risultati dell’incarico peritale conferito dal Tribunale, va posto in rilievo il fatto che questa Corte ha ripetutamente affermato che la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze (Cass. n. 9395 del 2019; Cass. n. 9979 del 2018). Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. n. 3130 del 2011; conf. Cass. n. 12990 del 2013).

Quella della Corte territoriale, circa la inidoneità della CTU di sopperire alla mancata prova da parte del ricorrente, costituisce dunque decisione incensurabile in sede di legittimità, là dove, appunto, la consulenza sia utilizzata a fini meramente esplorativi per la ricerca di fatti, circostanze o elementi non provati; essendo così, nel merito, finalizzata ad esonerare la parte dall’assolvimento del relativo onere (Cass. n. 15219 del 2007).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l'”Omesso esame di un fatto decisivo relativo alla controversia tra le parti e/o violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 1226 c.c.”, sussistendo agli atti la prova della perdita di valore dell’impresa, documentata sia dalla mala gestio della A., sia dal drastico calo del fatturato registrato durante la gestione della A. e infine dalla cessazione dell’attività di impresa con chiusura dell’esercizio commerciale e totale azzeramento della clientela. La Corte d’Appello non teneva conto della circostanza che l’esistenza del danno non fosse oggetto di contestazione tra le parti, essendo il dissidio tra le medesime unicamente incentrato sulla quantificazione del danno.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – In primo luogo, va rilevato che, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n. 6734 del 2020; Cass. n. 26790 del 2018).

Pertanto, nella formulazione del motivo di ricorso per cassazione, è inammissible la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei ed incompatibili, facenti riferimento (come nella specie) alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione e la analisi di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto (che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma) e quello del vizio di motivazione (che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione) (cfr. anche Cass. n. 26874 del 2018; conf. Cass. n. 19443 del 2011).

Ma anche a voler ritenere ammissibile il ricorso, il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, allorchè esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (cfr. Cass. sez. un. 9100 del 2015; Cass. n. 8915 del 2018), la ragione di inammissibilità, nella specie, va ravvisata nella mancata specificità del profilo riguardante l’asserito vizio di violazione e falsa applicazione di legge, così come riferito congiuntamente a plurime disposizioni del codoce civile.

2.3. – Ciò premesso, va rilevato (con riguardo sempre al profilo attinente alla censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della mera indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

2.4. – Quanto poi al profilo attinente alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di Cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ragione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 3.05.2016) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i ricorrenti avrebbero dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti

e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e spcifica indicazione.

2.5. – Va, peraltro, sotto altro profilo, rilevato che l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione

e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

2.6. – E’ allora facile rilevare che le censure formulate nel motivo in esame si sostanziano nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto emerse nel corso del procedimento, cosi mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018), giacchè la valutazione del materiale probatorio (in particolare del corredo testimoniale) operata dalla Corte d’appello è sorretta da argomentazioni logiche e coerenti tra loro, con motivazione sufficiente e non contraddittoria.

3. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 7.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 15 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2020

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