Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29084 del 11/11/2019

Cassazione civile sez. un., 11/11/2019, (ud. 14/10/2019, dep. 11/11/2019), n.29084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. CURZIO Pietro – Presidente di Sez. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14487/2018 propor’ da:

D.R.G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE

44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FABIO BUCHICCHIO,

CARLO ALBERTO FRANCHI e DANIELA FRANCHI;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA, in persona del Rettore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA

CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI

25;

– controricorrenti –

e contro

PROCURA REGIONALE PRESSO LA SEZIONE GIURISDIZIONALE DELLA CORTE DEI

CONTI PER LA REGIONE UMBRIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 509/2017 della CORTE DEI CONTI – TERZA SEZIONE

GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO – ROMA, depositata il 06/11/2017.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LUCIO CAPASSO, il quale conclude per il dichiararsi

l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Procura regionale della Corte dei Conti per la Regione Umbria convenne in giudizio D.R.G.C. affinchè fosse condannato al pagamento, in favore dell’Università degli studi di Perugia, della somma complessiva di Euro 107.605, a titolo di svolgimento di attività libero professionale medica in violazione del vincolo di esclusività e del regime di tempo pieno da lui tenuto con l’Università.

A sostegno della propria tesi, la Procura contabile pose in luce che il convenuto, pur avendo prescelto il regime di attività libero professionale intra moenia, aveva poi svolto, nel periodo in contestazione, attività professionale presso una società privata, della quale era socio nonchè Presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato.

Si costituì in giudizio il convenuto, contestando la tesi accusatoria della Procura contabile.

La Sezione giurisdizionale per la Regione Umbria condannò il D.R. al pagamento della somma suindicata, riconoscendo la fondatezza della tesi della Procura.

2. La sentenza è stata impugnata dal professionista soccombente e la Corte dei Conti, Terza Sezione giurisdizionale di appello, con sentenza del 27 aprile 2018 ha rigettato l’appello, ha confermato la decisione del primo Giudice ed ha condannato l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

La Corte dei Conti – dopo aver dichiarato infondata l’eccezione di nullità dell’originario atto di citazione, quella di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato e quella di prescrizione del diritto al risarcimento del danno – ha osservato che gli ulteriori motivi di appello, relativi al merito del giudizio, non potevano essere accolti. Richiamati i principi di cui al D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, in tema di regime di tempo pieno e tempo definito per i medici professori universitari, la Corte dei Conti ha ricordato che l’art. 11, di quel decreto afferma l’assoluta incompatibilità tra l’attività professionale e di consulenza esterna e l’attività di professore a tempo pieno.

Nel caso in esame il D.R., pur avendo optato per il regime del tempo pieno, aveva violato il regime di incompatibilità, assumendo all’interno di una società privata, costituita a fini di lucro, “cariche in contrasto con la disciplina sia generale che di settore”. Nè poteva avere rilievo la tesi difensiva del medico il quale, non negando di avere svolto attività libero professionale esterna in costanza di regime di tempo pieno, aveva affermato che tale ulteriore lavoro non aveva inciso in alcun modo nello svolgimento delle sue funzioni didattiche e sanitarie; ciò in quanto il fondamento dell’accusa era costituito dal fatto di aver “illecitamente locupletato un trattamento economico cui non aveva diritto”. Il comportamento tenuto dal D.R., quindi, era da ritenere produttivo di responsabilità erariale per avere determinato “un danno connesso alla percezione di compensi cui non è corrisposta una prestazione con le caratteristiche di esclusività richieste dalla legge”.

In ordine alla determinazione del danno, il giudice contabile si è limitato a richiamare la motivazione della sentenza di primo grado, assumendo che ciò che aveva importanza erano soltanto i compensi illecitamente percepiti.

3. Contro la sentenza della Corte dei Conti in grado di appello propone ricorso D.R.G.C. con atto affidato ad un solo motivo ed affiancato da memoria.

Resistono l’Università degli studi di Perugia e la Procura generale della Corte dei conti con due separati controricorsi.

Il Procuratore generale presso questa Corte ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1), difetto assoluto di giurisdizione oltre ad eccesso di potere giurisdizionale ai sensi dell’art. 111 Cost. e dell’art. 362 c.p.c., comma 1, nonchè superamento dei limiti esterni della giurisdizione contabile ed invasione della sfera di attribuzioni del legislatore.

Osserva il ricorrente, innanzitutto, che la sentenza impugnata non avrebbe allegato nè effettivamente dimostrato le voci di danno subite dall’Azienda ospedaliera e dall’Università di Perugia in ragione delle cariche da lui rivestite presso una società privata. Il danno erariale, quindi, deriverebbe da mere differenze retributive riscontrate “tra i regimi (tempo pieno ed intra moenia) prescelti dal prof. D.R., da un lato, e quelli che non avrebbero comportato le incompatibilità lamentate (tempo definito ed extra moenia), dall’altro lato”. La sentenza impugnata – sostiene il ricorrente – non avrebbe tenuto in alcuna considerazione la distinzione, ormai consolidata nella giurisprudenza contabile, tra responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio e responsabilità di tipo sanzionatorio. Mentre nei casi di responsabilità di tipo sanzionatorio “il precetto e la sanzione sono stabiliti e predeterminati dal legislatore”, nei casi di responsabilità di tipo risarcitorio il danno patrimoniale “deve essere allegato, dimostrato e quantificato in riferimento alla singola fattispecie concreta da parte della Procura”. Nel caso in esame, pur avendo affermato che la responsabilità era del secondo tipo, la sentenza avrebbe, secondo il ricorrente, negato la necessità per l’attore di provare lo specifico danno subito dall’Amministrazione, creando, nei fatti, la figura del danno in re ipsa che non esiste nel nostro ordinamento. La Corte dei conti, quindi, si sarebbe sostituita al legislatore, determinando il radicale stravolgimento delle norme, con conseguente eccesso di potere giurisdizionale.

1.1. Osserva innanzitutto il Collegio che è infondata l’eccezione, proposta dal Procuratore generale contabile nell’atto di controricorso, secondo cui il ricorso sarebbe inammissibile per essersi perfezionato il giudicato implicito in punto di giurisdizione. L’eccezione si fonda sull’affermazione secondo cui il giudicato deriva dal fatto che la relativa questione sarebbe stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità.

In realtà, la censura sulla quale si costruisce il motivo di ricorso è quella dell’eccesso di potere giurisdizionale asseritamente derivante dalla mancata esatta indicazione delle voci di danno delle quali il ricorrente è stato chiamato a rispondere. E tale questione, come correttamente rilevato dal Procuratore generale presso questa Corte nella sua requisitoria scritta, era stata già posta dal D.R. fin dal giudizio di primo grado, nel quale egli aveva eccepito, per tale ragione, la pretesa nullità dell’atto di citazione rivolto nei suoi confronti. Rigettata quell’eccezione dal primo giudice, la doglianza è stata riproposta davanti al giudice di appello, tanto che la sentenza impugnata se ne è dovuta espressamente occupare.

Deriva da tale ricostruzione che, alla luce di alcune recenti pronunce di queste Sezioni Unite alle quali occorre dare continuità (v., tra le altre, la sentenza 5 aprile 2019, n. 9680), il giudicato implicito relativo al c.d. eccesso di potere non si è formato, posto che l’eccesso si sarebbe determinato nel giudizio di primo grado e la questione è stata riproposta in sede di appello.

1.2. Ciò premesso, le Sezioni Unite osservano che il ricorso è tuttavia inammissibile per altre decisive ragioni.

Come correttamente è stato rilevato sia dal Procuratore generale presso questa Corte che dall’Avvocatura generale dello Stato nel controricorso in difesa dell’Università degli studi di Perugia, la questione della concreta determinazione del danno non può comunque andare ad investire i limiti esterni della giurisdizione contabile. In altri termini, ove anche si ammettesse – in via del tutto ipotetica – che la Corte dei Conti abbia errato nella determinazione del danno di cui ha chiamato a rispondere il D.R., ovvero che abbia liquidato tale danno ritenendolo in re ipsa senza che ve ne fossero le ragioni, un simile errore andrebbe qualificato come error in iudicando e, in quanto tale, rimarrebbe estraneo al sindacato sulla giurisdizione rimesso alle Sezioni Unite. L’errore sull’esatta liquidazione del danno, infatti, attiene al concreto esercizio della potestas iudicandi della Corte dei Conti, per cui ogni contestazione su questo punto, essendo inerente all’applicazione delle norme riguardanti la fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata nell’ambito del giudizio contabile, rimane nell’ambito dei limiti interni di quella giurisdizione e non si traduce in un superamento dei limiti esterni della medesima (v. la sentenza 10 ottobre 2002, n. 14473).

2. Il ricorso, pertanto, è inammissibile.

A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione nei confronti dell’Università degli studi di Perugia, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Non occorre provvedere sulle spese in relazione al controricorso della Procura generale della Corte dei conti, essendo la medesima una parte solo in senso formale.

Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dell’Università degli studi di Perugia, liquidate in complessivi Euro 5.000, oltre spese prenotate a debito.

Nulla per le spese quanto alla Procura generale della Corte dei Conti.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 14 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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