Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29065 del 11/11/2019

Cassazione civile sez. I, 11/11/2019, (ud. 25/06/2019, dep. 11/11/2019), n.29065

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 13766/2018 proposto da:

N.R., elettivamente domiciliato in Roma, p.za Cavour, presso

la Cancelleria della Corte di Cassazione, e rappresentato e difeso

dall’avvocato Livio Neri in forza di procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

generale dello Stato che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4434/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 20/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/06/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, N.R., cittadino (OMISSIS), ha impugnato dinanzi al Tribunale di Milano il provvedimento con cui la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente, cittadino pakistano, di etnia punjabi e religione musulmano sunnita, proveniente dal villaggio di (OMISSIS) nel distretto di (OMISSIS), dedito alla coltivazione della terra, figlio di imam locale, ha raccontato di aver intrattenuto una relazione clandestina con una ragazza, Z.K., di religione sciita, per tal motivo osteggiata dalle rispettive famiglie; che nell'(OMISSIS) Z. era rimasta incinta ed era stata costretta a rivelare ai genitori il nome del padre del bambino, incitando però il ricorrente a fuggire a (OMISSIS); che in sua assenza il fratello minore era stato aggredito da quattro familiari di Z., che lo avevano mutilato agli arti superiori e quasi ucciso; che i familiari del richiedente avevano sporto denuncia nei confronti dei familiari di Z., che, a loro volta, avevano denunciato lui e il fratello; che il (OMISSIS) il cadavere di Z. era stato ritrovato nella stalla della famiglia di N. dove era stato trasportato per incriminare lui e suo fratello maggiore; che il fratello era stato arrestato ed era detenuto per un delitto che non aveva commesso, mentre il richiedente asilo era riuscito a fuggire in Grecia; nel frattempo la scuola coranica del padre era stata attaccata e data alle fiamme e il padre era morto per infarto; che lui e il fratello erano stati condannati in primo grado, pur innocenti, per l’omicidio di Z.; che il fratello e gli zii di Z. erano stati condannati in contumacia per l’aggressione al fratello minore.

Con ordinanza del 8/8/2016 il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso, negando la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.

2. Avverso la predetta decisione ha proposto appello N.R., a cui ha resistito il Ministero dell’Interno.

Con sentenza del 20/10/2017 la Corte di appello di Milano ha rigettato l’appello a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione N.R., con atto notificato il 20/4/2018, con il supporto di due motivi.

3.1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, lett. b) e art. 16, lett. b).

Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia applicato nei suoi confronti le clausole di esclusione per non meritevolezza della protezione, che tuttavia esigevano un’applicazione particolarmente cauta e restrittiva, con onere della prova a carico dello Stato e concessione del beneficio del dubbio.

Tale cautela, invece, non era stata impiegata, poichè la Corte si era limitata ad affermare di non possedere elementi contrari alla sentenza di condanna pakistana; la sentenza di condanna, comunque, non era definitiva e vi era appello in corso, come riferito da N.; il giudice non aveva svolto alcuna indagine al proposito sull’eventuale passaggio in giudicato della sentenza, allo stato semplicemente non escluso; non era stata valutata la possibilità per il ricorrente di difendersi in Pakistan dall’accusa secondo gli standard Europei.

Inoltre il rilievo era stato formulato d’ufficio e in un caso in cui neppure la Commissione territoriale aveva ritenuto di applicare la clausola di esclusione.

3.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria.

Il ricorrente lamenta la violazione del principio di non refoulement con riferimento all’art. 3 della CEDU, anche in relazione al rischio dell’applicazione della pena di morte e dall’altro lamenta la mancata considerazione della grave situazione di vulnerabilità personale della situazione di buona integrazione lavorativa e sociale del ricorrente.

3.3. L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 4/6/2018, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Collegio ritiene che il primo motivo di ricorso involga una questione di diritto di particolare delicatezza.

1.1. In materia di protezione internazionale, il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria non può essere concesso, rispettivamente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b) e art. 16, comma 1, lett. b), come modificati del D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h) e l), n. 1, a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (Sez. 6, 30/10/2018, n. 27504; Sez. 1, n. 18739 del 13/07/2018, Rv. 649585-01).

1.2. La Corte territoriale, rilevando la sussistenza della condizione ostativa in difformità dalla decisione di primo grado, che aveva ritenuto le dichiarazione del N. poco verosimili e la sua vicenda personale non configurabile come atto persecutorio, ha dedotto automaticamente l’avvenuta commissione del gravissimo delitto da parte del richiedente asilo dall’esistenza di una sentenza di condanna pakistana nei suoi confronti, prodotta dallo stesso ricorrente, senza dar atto del suo specifico contenuto.

1.4. Le clausole di esclusione per non meritevolezza di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b) e art. 16, comma 1, lett. B), (peraltro conformi alle previsioni dell’art. 1, paragrafo F, della Convenzione di Ginevra e degli artt. 12 e 17 della Direttiva 95/2011/UE) si riferiscono alla sussistenza di fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave.

Appaiono al riguardo astrattamente ammissibili due contrapposte opzioni ermeneutiche.

1.5. Secondo la prima, l’acquisizione di una sentenza di condanna emessa dall’Autorità giudiziaria del Paese di provenienza del richiedente asilo, tanto più se passata in giudicato (come in concreto ipotizzato dalla Corte territoriale), integra la prova documentale della commissione del reato ostativo, alla luce del principio giuridico internazionale del reciproco riconoscimento delle Autorità statuali e giudiziarie.

Una seconda interpretazione, invece, ritiene che il Giudice della protezione internazionale non possa basarsi esclusivamente sulla sentenza di condanna straniera e non possa esimersi nel valutare l’effettiva commissione del grave reato in patria da parte del richiedente asilo; a tal fine, qualora egli sostenga di non aver commesso il delitto ostativo e proclami l’ingiustizia della condanna, si rende necessario previamente scrutinare la sua versione dell’accaduto,alla stregua dei parametri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e valutare credibilità, verosimiglianza e plausibilità del racconto circa la vicenda personale, anche in comparazione con il contenuto dichiarativo e ricostruttivo dei fatti contenuto nella sentenza di condanna.

2. Il Collegio ritiene pertanto opportuno rinviare l’esame del ricorso alla pubblica udienza, sottoponendo la questione interpretativa sopra individuata all’esame del Procuratore generale e alla discussione orale delle parti.

P.Q.M.

La Corte:

rinvia alla pubblica udienza.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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