Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29047 del 05/12/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 05/12/2017, (ud. 13/06/2017, dep.05/12/2017),  n. 29047

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 7311/2013, depositata il 20 dicembre 2013, la Corte di appello di Napoli – respinti, previa riunione, i gravami di E.R.M. e di Banco di Napoli S.p.A. – confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Napoli aveva rigettato le domande, anche risarcitorie, dipendenti dal licenziamento intimato al ricorrente in data 18/9/2008 all’esito di procedura ex L. n. 223 del 1991, nonchè la domanda volta ad ottenere la superiore qualifica di dirigente, mentre aveva accolto la domanda relativa alla illegittimità del demansionamento subito dal lavoratore a decorrere dall’agosto 2004 e al risarcimento dei danni conseguenti.

La Corte osservava in primo luogo, quanto al licenziamento, che era da considerarsi infondata l’eccezione di inapplicabilità della L. n. 223 del 1991, sollevata dall’ E. in relazione al fatto di essere stato dipendente di un istituto bancario già di diritto pubblico e alla clausola di salvezza di cui alla L. n. 218 del 1990, art. 3, comma 2; che erano da considerarsi nuove, in quanto non dedotte con il ricorso introduttivo, e pertanto inammissibili, la questione relativa alla trasmissione della comunicazione ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, alla Commissione Regionale per il Lavoro, istituita dalla Regione Campania nel 1998 con le competenze delle cessate commissioni regionali per l’impiego, ed inoltre la questione relativa alla mancanza di contestualità tra l’invio delle lettere di licenziamento ai lavoratori e l’invio delle lettere informative agli enti previsti; riteneva poi insussistenti i dedotti vizi della comunicazione di avvio ex art. 4, comma 3, atteso, in particolare, il carattere non discriminatorio del criterio di selezione dei dipendenti da licenziare fondato sull’età e la circostanza che nessuno dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici era rimasto in servizio, secondo l’accertamento compiuto al riguardo dal primo giudice e a cui l’appellante non aveva opposto alcun rilievo, se non un generico e astratto richiamo alla illegittimità della c.d. clausola di salvaguardia.

La Corte di appello riteneva, quindi, fondate, alla luce dei risultati indotti da una rivisitazione del materiale istruttorio, le conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado in relazione alla (negata) attribuzione della qualifica di dirigente e al (riconosciuto) danno derivante da dequalificazione professionale, di cui condivideva anche la quantificazione in via equitativa nella misura di 1/4 della retribuzione per i mesi in cui essa si era protratta, osservando, riguardo al danno in questione, come fosse innegabile che la privazione di talune funzioni si riflettesse sulla capacità e sull’esperienza del lavoratore e andasse a detrimento del suo patrimonio professionale, come del suo curriculum e degli sviluppi di carriera.

La Corte riteneva infine fondate le conclusioni del giudice di primo grado in ordine alle ulteriori domande proposte dal ricorrente, posto che non risultava dimostrato un legame tra i lamentati danni psicologici e biologici, manifestatisi all’epoca del licenziamento, e i risalenti fatti di dequalificazione professionale; che gli affermati comportamenti di mobbing non avevano trovato conferme nell’istruttoria svolta; che l’accertata legittimità del licenziamento rendeva non risarcibili gli effetti negativi che lo stesso poteva aver avuto sulla persona del lavoratore.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza l’ E. con dieci motivi; il Banco di Napoli S.p.A. ha resistito con controricorso con cui ha proposto ricorso incidentale, affidato a quattro motivi, e al quale il lavoratore ha resistito a sua volta con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

L’I.N.P.S. ha depositato procura speciale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1990, art. 3, nonchè vizio di motivazione, il ricorrente principale censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che dovesse applicarsi al caso di specie la procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, anzichè quella per la risoluzione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (D.P.R. n. 3 del 1957), nonostante che la L. n. 218 del 1990, art. 3, nel contesto della disciplina di privatizzazione degli istituti di credito di diritto pubblico (quale il Banco di Napoli), avesse fatto salvi i diritti quesiti già entrati a far parte del patrimonio dei dipendenti.

Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, nonchè vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte abbia ritenuto inammissibile la doglianza relativa alla mancata trasmissione della comunicazione finale della procedura alla Commissione regionale per il lavoro, organismo istituito dalla Regione Campania nel 1998 in sostituzione della soppressa Commissione regionale per l’impiego (come agli altri soggetti indicati nell’art. 4, comma 9), sull’erroneo rilievo che tale doglianza non era stata proposta con il ricorso di primo grado e comunque senza considerare che tale mancata trasmissione doveva essere rilevata anche d’ufficio; si duole poi che la Corte abbia omesso di esaminare altri profili di nullità della comunicazione di chiusura del procedimento e cioè il fatto che essa non risultasse effettuata proprio dal Banco di Napoli (ma piuttosto dalla capogruppo) e la mancanza all’interno della comunicazione del contenuto minimo previsto dall’art. 4, comma 9 (in particolare, dell’indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta), da ritenersi obbligatorio anche nel caso di adozione di unico criterio (come nella specie: possesso dei requisiti di pensionabilità ad una certa data) per la scelta dei dipendenti da collocare in mobilità.

Con il terzo motivo, deducendo nuovamente violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, nonchè vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte di appello abbia omesso di pronunciare circa il difetto di contestualità tra la comunicazione di chiusura del procedimento e le comunicazioni dei licenziamenti ai singoli lavoratori interessati, sul rilievo, anche in questo caso, che la doglianza non era stata specificamente proposta con il ricorso di primo grado.

Con il quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, nonchè vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza di appello per avere sostanzialmente omesso di esaminare la doglianza concernente i vizi della comunicazione di apertura, considerandola insieme con altre e limitandosi ad osservare come la parte appellante avesse concordato sul principio, affermato nella pronuncia gravata, secondo cui si può far luogo alla procedura di riduzione del personale ex L. n. 223 del 1991 anche in assenza di uno stato di crisi aziendale: rilievo peraltro del tutto inconferente, essendosi dal lavoratore contestato non il fatto che la procedura volesse fondarsi anche su “criticità aziendali”, come da comunicazione di apertura del procedimento, bensì la genericità di quella comunicazione.

Con il quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, il ricorrente censura la sentenza per avere reso una motivazione del tutto incongrua, nella parte in cui ha respinto il motivo di gravame concernente lo sviamento della procedura rispetto all’obiettivo dichiarato della riduzione dei costi e del personale, avendo l’impresa perseguito, in realtà, uno scopo di “svecchiamento” del personale, senza che, diversamente da quanto ritenuto, l’accertamento sotto tale profilo della nullità dei recessi datoriali comportasse un sindacato nel merito delle scelte aziendali.

Con il sesto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, nonchè della Direttiva 200/78/CE come recepita nel D.Lgs. n. 216 del 2003, il ricorrente censura la sentenza per avere escluso che la scelta del datore di lavoro di licenziare i dipendenti in possesso dei requisiti pensionistici potesse configurare un’illegittima discriminazione in base all’età, erroneamente ritenendo che il criterio adottato si allineasse alla normativa specifica del settore del credito e fosse sorretto da giustificati motivi di politica del lavoro e di promozione dell’occupazione.

Con il settimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere sostanzialmente omesso di considerare la doglianza relativa alla illegittimità del licenziamento anche in quanto operato in esito a procedura in cui la società aveva previsto una clausola di salvaguardia di personale che, pur avendo i requisiti per l’accesso alla pensione, restasse escluso dai provvedimenti risolutivi del rapporto in base a un’insindacabile valutazione del datore di lavoro, erroneamente limitandosi sul punto ad osservare come la decisione di primo grado avesse dato atto che nessuno dei dipendenti in possesso dei requisiti pensionistici era rimasto in servizio (salvo alcuni addetti alla Direzione Centrale) e come tale rilievo non fosse stato adeguatamente contrastato con il ricorso in appello, nel quale era stato solo riproposto il motivo, astratto, della illegittimità della clausola.

Con l’ottavo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonchè vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza, nella parte in cui, condividendo le valutazioni del giudice di primo grado, ha escluso lo svolgimento di mansioni dirigenziali, per non aver considerato che, nel periodo in cui egli era stato responsabile del Nucleo Territoriale Controllo Crediti per la Provincia di Napoli Nord-Est, aveva operato a diretto riporto del responsabile dell’Ente centrale competente: ciò che, unitamente alla rilevanza delle funzioni attribuite al Nucleo, avrebbe dovuto logicamente indurre la Corte di merito a conclusioni opposte.

Con il nono motivo, deducendo nuovamente violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonchè vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte, anche su tale punto condividendo le valutazioni del primo giudice, abbia limitato la misura del risarcimento, in relazione all’accertato demansionamento, solo ad un quarto della retribuzione goduta dal lavoratore (per il periodo in cui il demansionamento si era protratto), senza, tuttavia, valutarne la lunga durata e la particolare intensità.

Con il decimo motivo, infine, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2103 c.c., nonchè vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza per avere escluso la risarcibilità del danno biologico (e degli ulteriori danni lamentati) in quanto erroneamente ritenuto, sulla base di una sommaria lettura delle risultanze istruttorie e, in particolare, del certificato medico prodotto, causalmente connesso non all’avvenuto demansionamento e alle pressioni subite affinchè il dipendente lasciasse volontariamente il proprio posto di lavoro, accedendo al c.d. esodo, ma ad un licenziamento legittimo.

Il ricorso principale deve essere respinto.

Si osserva preliminarmente che i motivi primo, secondo, terzo, quarto, ottavo, nono e decimo, là dove censurano la sentenza di appello per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, n. 5, sono inammissibili, non conformandosi allo schema normativo del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 20 dicembre 2013, e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.

Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.

Ciò premesso, si rileva che il primo motivo è infondato relativamente alla censura di violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1990, art. 3.

Come già affermato da questa Corte, “nel caso di trasformazione di enti creditizi pubblici (nella specie, Banco di Napoli) In società per azioni, non può essere esclusa, L. n. 218 del 1990, ex art. 3, comma 2, l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti di cui alla L. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro con un ente pubblico economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni soggettive già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico, e non riducibili a mere aspettative sotto il profilo giuridico” (Cass. n. 24109/2016).

Il secondo motivo risulta inammissibile, e comunque infondato, anche in relazione alle censure diverse dal vizio di motivazione.

Si deve infatti confermare il principio, per il quale “l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c., non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa”: Cass. n. 329/2016 (ord.).

La sentenza si sottrae poi alla censura di violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, (art. 360 c.p.c., n. 3), essendo consolidato il principio di diritto, secondo il quale “il lavoratore che voglia ottenere la dichiarazione di inefficacia o l’annullamento del licenziamento intimatogli in base alla L. n. 223 del 1991, sull’assunto del mancato rispetto dell’iter procedurale previsto dalla citata legge per la messa in mobilità o per la riduzione del personale, è tenuto – a fronte dei numerosi adempimenti imposti dalla menzionata legge – ad indicare nell’atto introduttivo del giudizio le specifiche omissioni e irregolarità addebitate al datore su cui fonda il petitum. Ne consegue che egli non può far valere nel corso del giudizio omissioni o irregolarità diverse o ulteriori rispetto a quelle originariamente denunziate perchè una siffatta condotta processuale si traduce in una mutatio libelli non consentita ai sensi dell’art. 420 c.p.c.” (Cass. n. 13727/2000 e successive numerose conformi).

E’ stato, in particolare, precisato che “se è vero che per causa petendi idonea ad identificare la domanda non debbono intendersi le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio, bensì l’insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta, ciò non esclude che, nell’ipotesi che la domanda giudiziale abbia ad oggetto l’accertamento della illegittimità di un licenziamento collettivo intimato in sede di procedura di mobilità ex L. n. 223 del 1991, la domanda debba presentare un minimo di specificità e non risolversi in una generica contestazione della procedura, contenendo l’indicazione di specifiche cause di incollocabilità nelle liste di mobilità, in riferimento alle quali la causa petendi rimane così individuata, con la conseguenza che non possono essere proposti in appello altri motivi, a pena di inammissibilità” (Cass. n. 22153/2004).

D’altra parte, la delimitazione dell’ampiezza della domanda, o, più in generale, l’individuazione del reale contenuto e del significato di un atto processuale di parte, ove non si risolva in una verifica di conformità rispetto ad un modello legalmente e rigorosamente prescritto (come nei casi esaminati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 8077/2012 e da Cass. n. 25308/2014), integra, consistendo in un’attività di interpretazione dell’atto, e come più volte precisato (cfr., fra le molte, Cass. n. 20373/2008), un accertamento di fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione sul punto.

Le considerazioni che precedono devono essere estese al terzo motivo, il quale, di conseguenza, risulta anch’esso, per una parte, inammissibile e, per altra, infondato. Il quarto motivo è inammissibile: se, infatti, il ricorrente vi censura la motivazione della sentenza di appello, allora devono essere rinnovati i rilievi già svolti in sede di esame del primo motivo con riferimento alla giurisprudenza formatasi sulla nuova formulazione dell’art. 360, n. 5; se invece il ricorrente si duole dell’omesso esame, da parte della Corte, di una propria specifica doglianza, allora vale l’osservazione, per la quale il vizio della decisione così dedotto, comportando la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), può essere proposto soltanto come error in procedendo e, pertanto, ai sensi dell’art. 360, n. 4, diversamente implicando tanto il vizio di cui all’art. 360, n. 3, come quello di cui all’art. 360, n. 5, che un esame della domanda vi sia comunque stato, sia pure con esiti conclusivi e dopo un iter logico-argomentativo censurabili.

Il quinto motivo è anch’esso inammissibile, posto che il ricorrente, pur deducendo il vizio di violazione e falsa applicazione di una norma di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) con riferimento alla L. n. 223 del 1991, art. 4, si duole, in realtà, di una motivazione incongrua della Corte territoriale, peraltro limitandosi a contrapporre a quella della decisione impugnata una propria e diversa lettura delle risultanze di fatto e, in tal modo, sollecitando questa Corte ad esprimere una nuova e inammissibile, in quanto estranea alle funzioni del giudice di legittimità e ai limiti del giudizio di cassazione, valutazione del merito della causa.

D’altra parte, il motivo in esame non censura specificamente il (consolidato) principio di diritto richiamato in sentenza, per il quale “in materia di licenziamenti collettivi, a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 luglio 1991, n. 223, il controllo giudiziale non può avere ad oggetto i motivi specifici di riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell’operazione e non possono formare oggetto di cognizione giudiziaria tutte le censure a mezzo delle quali senza che siano fatte valere violazioni degli artt. 4 e 5 della detta legge e comunque senza che sia offerta prova della dolosa elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle stesse procedure di mobilità al fine di effettuare discriminazioni tra i lavoratori – si intenda investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sull’effettiva esigenza di riduzione o trasformazione dell’attività” (cfr., fra le molte, Cass. n. 19576/2013).

Il sesto motivo è infondato.

E’ stato invero più volte affermato da questa Corte di legittimità, con orientamento consolidato e risalente, che il criterio della prossimità a trattamento pensionistico, definito in sede sindacale, deve considerarsi non discriminatorio, anche alla stregua dei principi della normativa Europea in materia, e “razionalmente giustificato”, in quanto rispondente ai caratteri dell’obiettività e della generalità (cfr. Cass. n. 1760/1999 e l’ampia giurisprudenza richiamata nella sentenza impugnata e negli scritti difensivi del Banco di Napoli).

Il settimo motivo è inammissibile, atteso che si limita ad enunciare il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di legge, con riguardo alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, senza peraltro indicare specificamente le affermazioni in diritto della sentenza che sarebbero in contrasto con tali norme, di fatto sostanziandosi nella formulazione di una censura di carenza motivazionale e nella sollecitazione ad un ulteriore esame del merito della questione da parte di questa Corte di legittimità. Anche i motivi ottavo, nono e decimo risultano, per identica ragione, inammissibili, non specificando se, dove e in quali termini la Corte di merito sia incorsa nella denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. (oltre che dell’art. 1218 c.c., per quanto riguarda il decimo motivo).

Con riferimento, poi, al vizio di motivazione, contestualmente dedotto in ciascuno dei motivi in esame, si osserva, in particolare, ciò che segue, in aggiunta ai rilievi già svolti:

– quanto all’ottavo motivo, che non risulta dimostrata la “decisività” (quale attitudine a determinare un esito diverso della controversia) della circostanza che il ricorrente avesse operato nel periodo dal 2001 al luglio 2004, come preposto al Nucleo, “a diretto riporto del responsabile dell’Ente Centrale Controllo Crediti”, a fronte della più ampia ricostruzione e “lettura” della fattispecie compiuta dalla Corte di merito sulla scorta delle risultanze istruttorie acquisite al giudizio e dei pertinenti richiami alla giurisprudenza di legittimità in materia di ruolo del dirigente e di tratti distintivi di tale figura rispetto a funzioni simili (cfr. sentenza, p. 15); e comunque la circostanza, che il ricorrente reputa omessa, appare presente, anche se superata da altri e più significativi elementi, nel ragionamento svolto dalla Corte, la quale ne ha fatto esplicita menzione nel preliminare richiamo alle doglianze dell’appellante nei confronti della decisione di primo grado (p. 14);

– quanto al nono, che “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa”, come avvenuto nella specie, “non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass. n. 5090/2016): processo che il giudice di appello, nel confermare la valutazione di un quarto della retribuzione mensile (per i mesi di dequalificazione) già formulata dal primo giudice, ha, sia pure sinteticamente (ma chiaramente) reso esplicito e suscettibile di controllo, indicando un criterio di bilanciato contemperamento comprensivo dell’elemento della durata e del “tipo di dequalificazione subita” dal dipendente “con le nuove mansioni” assegnategli, a proposito della quale ha ritenuto di attribuire una valenza particolare al fatto che queste ultime non fossero “del tutto estranee ed avulse da quelle precedentemente svolte”;

– quanto al decimo, che non risulta allegata e dimostrata la “decisività” (nei sensi precisati) – ai fini della determinazione dei danni psicologici e biologici oggetto di domanda risarcitoria – delle pressioni che il ricorrente avrebbe subito nel corso degli anni affinchè consentisse a lasciare volontariamente il posto di lavoro, a fronte di una certificazione medica prodotta dallo stesso ricorrente (e peraltro neppure trascritta o riprodotta nei suoi punti salienti) che tali danni ha ricondotto al (legittimo) recesso datoriale, secondo la valutazione del documento operata dalla Corte di merito.

E’ invece fondato, e deve essere accolto, il primo motivo del ricorso incidentale, con cui il Banco di Napoli S.p.A., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1218 e 2087 c.c., censura la sentenza impugnata per aver fatto coincidere la sussistenza del danno con la stessa dequalificazione subita dal lavoratore, in contrasto con il consolidato orientamento di legittimità che esclude un pregiudizio in re ipsa.

Il motivo è fondato.

Il giudice di merito ha, infatti, ritenuto operante un collegamento in via automatica tra pregiudizio e fatti di dequalificazione, secondo ciò che emerge da quella parte della decisione impugnata in cui è affermato che il danno subito dal ricorrente “altro non è che l’innegabile pregiudizio attinente alla vita professionale e come tale da risarcire risolvendosi nella compromissione della professionalità del lavoratore e delle aspettative di sviluppo di quest’ultima”; e, con ancor maggiore evidenza, là dove la Corte, approfondendo e chiarendo ulteriormente il proprio pensiero, ha sottolineato come sia innegabile “che la privazione di talune funzioni si rifletta sulla capacità e sull’esperienza professionale collegata alle più qualificate funzioni che, se non più esercitate, va a detrimento del patrimonio professionale del lavoratore, del suo curriculum professionale e degli sviluppi futuri di carriera”.

Tali considerazioni si pongono in contrasto con il principio di diritto, per il quale “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale” (cfr., fra le molte conformi, Cass. n. 19785/2010).

Nell’accoglimento del primo motivo restano assorbiti gli altri motivi del ricorso incidentale, con i quali il Banco di Napoli rispettivamente ha dedotto: (2) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5), avendo la sentenza trascurato di considerare il fatto che, con riferimento all’asserito danno conseguente alla dequalificazione, il lavoratore non aveva specificamente lamentato un danno alla professionalità ma solo un danno da diminuzione retributiva e un danno biologico, morale ed esistenziale; (3) in subordine al motivo precedente, la nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, n. 4) per violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.); (4) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, avendo la sentenza omesso di considerare il fatto che l’ E. rivestiva la qualifica apicale di Quadro Direttivo di 4 livello e che è stato licenziato in quanto in possesso dei requisiti per il diritto a pensione.

L’impugnata sentenza della Corte di appello di Napoli, rigettato il ricorso principale, deve, pertanto, essere cassata in relazione al primo motivo del ricorso incidentale, assorbiti gli altri, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla medesima Corte in diversa composizione, la quale, nel procedere a nuovo esame della fattispecie, si atterrà al principio di diritto sopra richiamato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2017

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