Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29033 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. III, 13/11/2018, (ud. 21/09/2018, dep. 13/11/2018), n.29033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23321/2016 proposto da:

GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), in persona del Dott. F.G.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 82, presso lo

studio dell’avvocato GREGORIO IANNOTTA, che la rappresenta e difende

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.S., T.S., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA MONTE ZEBIO 32, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

SILVESTRI, che li rappresenta e difende giusta procura in calce al

controricorso;

CE.MA., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ELEONORA DUSE

35, presso lo studio dell’avvocato STEFANO PANTALANI che lo

rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

TE.AN.LA., CU.ST.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1403/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/09/2018 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 12 giugno 2009 i coniugi, C.S. e T.S. evocavano in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, Cu.St., Te.An. e Ce.Ma., nonchè la Alleanza Toro S.p.A. per sentir accertare la responsabilità degli stessi per la indebita appropriazione della somma di Euro 372.000 con conseguente condanna alla restituzione di tale importo, limitando la richiesta nei confronti di Te.An. ad Euro 120.000 e nei confronti di Ce.Ma. ad Euro 180.000. Esponevano che nel maggio 2002 avevano sottoscritto una proposta di assicurazione sulla vita per l’importo di Euro 3800 per ciascuno e nel dicembre 2003 due ulteriori proposte di polizza corrispondendo l’assegno di Euro 24.000, cumulativo per entrambe, deducendo che il Cu., nell’occasione, aveva applicato uno sconto. Nel giugno 2005, C.S. aveva sottoscritto una proposta di assicurazione per l’importo di Euro 13.200 corrispondendo anche in questo caso una somma lievemente inferiore al premio, beneficiando di uno sconto riconosciuto dall’assicuratore Cu.. Nel dicembre 2008, T. aveva sottoscritto tre polizze da Euro 50.000 ciascuna, corrispondendo cinque assegni per l’importo di Euro 30.000 ciascuno, intestati a Cu., nella qualità di agente della Toro Assicurazioni. Lamentavano di avere ricevuto nell’anno 2009 una comunicazione dalla compagnia Toro con la quale venivano informati che Cu. era cessato dall’incarico di agente e che le polizze erano state trasferite ad altra agenzia, rilevando, però, che dai controlli interni risultava soltanto la stipulazione di due polizze sottoscritte nel 2002, per Euro 3800 ciascuno, mentre era stata negata l’esistenza delle altre. In particolare, risultava che dei cinque assegni di Euro 30.000 ciascuno consegnati a Cu., due erano stati incassati da Te.An., segretaria di Cu. ed Euro 90.000 da Ce.Ma.. Tutto ciò premesso ritenevano sussistente la responsabilità di Cu. per la restituzione della somma in questione, dell’assicuratore, in quanto l’importo percepito era stato trattenuto da Cu. nella qualità di agente della società Toro e di coloro che avevano materialmente incassato gli assegni;

si costituiva Te.An. deducendo di essere stata dipendente dell’agenzia di Cu. e negando di avere incassato somme, mentre con riferimento ai due assegni in questione, precisava di averli ricevuti da Cu. a restituzione di una somma che la stessa aveva precedentemente prestato al titolare dell’agenzia, aggiungendo che si trattava di una pratica ricorrente. Riconosceva comunque di avere ricevuto e incassato incautamente assegni provenienti da terzi. Chiedeva di chiamare in causa Cu.;

si costituiva anche Ce. deducendo di essere stato uno dei clienti di Cu.;

di essere stato coinvolto nel giro di polizze irregolari e di avere agito in un separato procedimento nei confronti di Cu. richiedendo il risarcimento del danno. Aggiungeva di avere investito la somma di Euro 175 in una polizza, risultata non vera e di avere successivamente richiesto la restituzione di parte delle somme, importi che Cu. gli aveva corrisposto, attraverso i tre assegni da Euro 30.000 ciascuno, menzionati in citazione. Aggiungeva di avere ricevuto tali titoli in buona fede e chiedeva di chiamare in causa Cu. e la Compagnia Toro per la restituzione delle somme;

si costituiva anche Cu.St. confermando che la Te. aveva solo svolto funzioni di segretaria e che la vicenda relativa a Ce. era stata posta in essere senza alcuna indicazione in ordine alla provenienza degli assegni. Non prendeva posizione riguardo alla domanda proposta dagli attori;

si costituiva Alleanza Toro, subentrata a Toro Assicurazioni e la società Assicurazioni Generali, incorporante la Toro Assicurazioni, deducendo l’infondatezza della domanda in quanto la proposta di polizza era stata redatta su un modulo generico, non facente parte di quegli ufficiali dell’assicurazione e ciò era noto agli attori i quali, in precedenza, avevano stipulato altre polizze utilizzando la modulistica ufficiale. Evidenziava la stranezza dell’assenza di quietanze per il versamento di parte degli assegni, sottolineando che non vi era perfetta coincidenza tra le somme corrisposte e il corrispettivo delle polizze. In ogni caso, Cu., quale agente generale, non era legato da vincoli di subordinazione e ciò consentiva di escludere la responsabilità dell’assicurazione;

il Tribunale di Roma con sentenza del 15 gennaio 2012 rigettava la domanda proposta nei confronti della compagnia di assicurazioni e accoglieva quella proposta da T.S. nei confronti delle altre parti;

avverso tale decisione gli originari attori proponevano appello, con atto di citazione del 28 aprile 2012, deducendo la parziale erroneità della sentenza. Si costituivano le altre parti ad eccezione di Cu.St., Te.An.La. e Ce.Ma. spiegavano appello incidentale;

la Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 2 marzo 2016, in accoglimento dell’appello principale dichiarava responsabili in solido del fatto dannoso subito dagli attori, oltre a Cu.St., Ce.Ma. e Te.An.La., anche la compagnia Alleanza Toro S.p.A., oggi Generali Italia S.p.A. con condanna al pagamento della somma di Euro 135.000, oltre interessi (limitando la solidarietà a Euro 73.000 per Te.An.La. e ad Euro 109.000 per Ce.Ma.). Condannava, altresì Generali Italia S.p.A. in solido con Cu.St. al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 62.000 oltre interessi e spese di lite. Rigettava gli appelli incidentali;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Generali Italia S.p.A. affidandosi a sei motivi. Resistono in giudizio con separati controricorsi, T.S. e C.S., nonchè Ce.Ma..

Diritto

CONSIDERATO

che:

come rilevato in premessa, nella decisione impugnata la Corte d’Appello richiama la motivazione del Tribunale evidenziando che, con una prima argomentazione il giudice a quo aveva escluso la responsabilità dell’assicuratore poichè non era provato un reale collegamento tra gli assegni corrisposti e le proposte di polizza. Inoltre, risultava “strano” un rimborso effettuato da Cu. personalmente e non dalla Toro Assicurazioni e vi era la corresponsione di somme di denaro delle quali non era stata spiegata la provenienza o il rendimento corrisposto. Con la seconda motivazione rilevava che, in ogni caso, anche nell’ipotesi di dimostrazione del collegamento tra i titoli di credito e le proposte di polizza, non ricorreva una responsabilità dell’assicuratore. La semplice circostanza di ricevere le somme in nome dell’assicurazione non costituiva elemento sufficiente per affermare che gli attori facessero un ragionevole affidamento sulla conclusione di contratti assicurativi, poichè questi erano stati stipulati con modalità diverse dai primi contratti del 2002, attraverso un modulo non riconducibile all’assicurazione, senza conoscere le condizioni applicabili per quel contratto. Inoltre, Cu. aveva ricevuto le somme versandole sul conto di cui aveva la libera disponibilità, non intestato all’assicurazione ma, all’agenzia Cu.St.;

la Corte territoriale ritiene non condivisibile il ragionamento del Tribunale rilevando:

– che Cu.St. era agente della Toro Assicurazioni e tale circostanza non era stata contestata;

– la compagnia curava direttamente l’organizzazione dell’agenzia generale e aveva poteri d’ispezione e controllo e per tale motivo doveva ritenersi responsabile degli atti compiuti dall’agente generale, sulla base del principio di occasionalità necessaria, poichè il comportamento illecito era stato reso possibile dalle incombenze demandategli e ciò in quanto Cu. non aveva travalicato i limiti, svolgendo attività sotto il controllo dell’assicuratore e non avendo alcuna rilevanza l’esistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato;

– in terzo luogo, l’agente Cu.St. agiva con poteri di rappresentanza e l’attività era stata non solo resa possibile, ma agevolata, dalle incombenze esercitate;

– l’agente aveva utilizzato moduli di proposte contrassegnate dall’intestazione “Toro Assicurazioni”, anche se falsi, e ricorreva il rapporto di agenzia con rappresentanza;

– infine, la compagnia era intervenuta con ritardo nelle verifiche revocando solo nel giugno 2009 l’incarico all’agente, ma senza comunicare tale circostanza ai clienti che, avevano continuato a corrispondere le somme oggi richieste;

la Corte esclude la rilevanza della mancata conclusione del contratto poichè ciò che interessa è il rapporto tra agente-preposto e società-preponente e il nesso di occasionalità tra l’attività e le incombenze dell’agente, con il fatto illecito commesso. Pertanto, neppure ritiene rilevante la circostanza che le polizze non fossero conformi alla modulistica ufficiale e che alle proposte non avesse fatto seguito il perfezionamento in veri e propri contratti. Ha escluso anche che l’attività di Cu. fosse qualificabile come del tutto estranea e diversa dalla normale attività assicurativa. Questo perchè anche, nell’ipotesi di atti esorbitanti, l’agente è comunque responsabile nei confronti dei contraenti per il principio dell’apparenza del diritto, se sussiste il presupposto della buona fede incolpevole del terzo danneggiato e l’ulteriore requisito della colpa del preponente apparente, idonea ad ingenerare l’affidamento. Nel caso di specie l’attività di Cu. rientrava nelle incombenze, anche se latamente intese, affidategli dalla compagnia preponente e ricorrevano gli altri due requisiti;

con riferimento al secondo motivo di appello, rileva che della condotta negligente dei clienti dell’agente Cu. sussistevano solo profili di “stranezza” che rimanevano a livello di semplici indizi privi del carattere della concordanza, precisione e univocità. Con seconda ed autonoma argomentazione la Corte rilevava che gravava sulla compagnia l’onere di provare la collusione o la colpevole acquiescenza tra agente e cliente. Tale prova non era stata fornita:

fatta questa doverosa premessa, con il primo motivo la compagnia deduce la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2049 c.c. e dei principi che disciplinano la responsabilità della società preponente per l’illecito operato dal proprio infedele agente assicurativo, nonchè dei principi che escludono la responsabilità della società nel caso in cui l’affidamento del terzo sia stato colposo e quando il terzo sia stato consapevole dell’illecito dell’agente ai danni della società preponente, nonchè la violazione delle norme che riguardano l’onere della prova;

rileva che la Corte territoriale aveva condannato Generali Italia S.p.A. pur avendo riconosciuto che i moduli di contratto e quelli delle proposte delle polizze assicurative erano falsi e che non vi era la prova della conclusione di rapporti assicurativi tra gli attori e Toro S.p.A., per il tramite dell’agente generale Cu.. Inoltre, era emerso che quest’ultimo svolgeva anche una parallela attività finanziaria illecita, estranea all’attività assicurativa, che gli originari attori avevano stabilito con Cu. interessi elevati e che pendeva un procedimento penale, anche a carico di alcuni degli appellati. Sulla base di questi elementi, la Corte territoriale non avrebbe potuto condannare Generali Italia e affermare che l’attività posta in essere dall’agente Cu.St. rientrava nelle incombenze che gli erano state demandate dalla compagnia preponente. Al contrario, avrebbe dovuto escludere che tra l’agente generale e gli attori fossero incorsi rapporti diretti allo svolgimento di attività assicurativa e che Cu. avesse operato nell’esercizio delle incombenze che gli erano state affidate dalla Toro Assicurazioni. La Corte avrebbe dovuto rigettare le domande, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 2049 c.c. e, in particolare, l’elemento dell’affidamento incolpevole dei terzi. Tale affidamento era in contrasto con le circostanze emerse dall’istruttoria, che evidenziavano l’esistenza di rapporti tra le parti che esulavano da una logica assicurativa;

il primo motivo è inammissibile per una pluralità di profili. In primo luogo per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè il ricorso introduttivo fa riferimento alle caratteristiche dei moduli di contratto, delle proposte di polizza assicurativa e alle risultanze del procedimento penale dal quale sarebbe emersa la parallela attività svolta da Cu. in ambito di finanziamento illecito, estranea alla logica assicurativa. Le deduzioni difettano di autosufficienza poichè il ricorrente non ha specificato i mezzi di prova che si assumono trascurati dal giudice di merito. Opera il principio secondo cui il ricorrente che censuri la sentenza sotto il profilo della rilevanza probatoria dei documenti, dei quali richiama l’esistenza, deve, a pena d’inammissibilità, riportare testualmente i passi che si assumono erroneamente valutati, al fine di consentire alla Corte di legittimità la verifica degli stessi esclusivamente in base al ricorso;

la compagnia, al contrario, ha limitato la trascrizione alla premessa in fatto contenuta nella citazione, trascurando di indicare le prove documentali che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare. La censura si struttura come mera indicazione generica, senza riproduzione o individuazione della sede processuale nella quale sarebbero stati ritualmente esibiti i documenti menzionati;

in secondo luogo è inammissibile poichè sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge, in realtà, si richiede alla Corte di legittimità di rivalutare il compendio probatorio genericamente menzionato dalla ricorrente (“la predetta richiamata immotivata affermazione… è contraddetta dalle circostanze emerse dall’istruttoria…”). Si tratta di censure che attengono alla motivazione e che sono dedotte apparentemente sotto il profilo del vizio di violazione di legge. Attraverso tale doglianza parte ricorrente tenta di introdurre nel giudizio di legittimità una ulteriore revisione degli elementi di fatto emersi nei pregressi gradi del giudizio, al fine di ottenere una pronunzia aderente alla propria ricostruzione, ritenuta più appagante di quella adottata dalla Corte territoriale. Questa, al contrario, ha specificamente individuato i presupposti della responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., nell’esistenza del rapporto di agenzia tra la compagnia e l’agente Cu., nel mancato controllo da parte della prima sull’attività del secondo, nella documentata esistenza di polizze sottoscritte, seppur false, nei pagamenti eseguiti in buona fede dai clienti tramite assegni intestati all’Agenzia Toro, di cui era agente generale Cu. e, infine, nella circostanza che quest’ultimo aveva riconosciuto tutte le condotte che integravano il delitto di truffa ai danni degli attori;

per il resto, la censura risulta assolutamente generica nella parte in cui si limita a negare l’esistenza dei presupposti dell’art. 2049 c.c. e ad affermare che tra Cu. e gli attori “erano intercorsi rapporti che esulavano da qualsivoglia logica assicurativa”. In sostanza, le doglianze sono assertive, limitandosi ad una critica alla ricostruzione operata dalla Corte territoriale senza allegare dati storici decisivi, neppure sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 2049 c.c. e dei principi in tema di assicurazione nella parte in cui la disciplina negoziale presuppone che il contratto di assicurazione sia stato concluso e che il premio sia stato pagato. In secondo luogo, la sentenza sarebbe censurabile perchè la Corte territoriale non aveva considerato che era onere dell’assicurato provare la conclusione del contratto e il pagamento del premio e che era onere dell’assicurato e non dell’assicuratore dimostrare l’incolpevole affidamento degli assicurati, senza valutare che dagli atti del giudizio emergeva che gli attori erano coinvolti nel procedimento penale. In particolare, evidenzia che la Corte territoriale aveva affermato la responsabilità della compagnia anche con riferimento ai contratti di assicurazione che non erano stati conclusi e per i quali non vi era la prova del pagamento del premio, derogando al principio giurisprudenziale secondo cui la responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., non può configurarsi come oggettiva;

il motivo è inammissibile poichè assolutamente generico (parte ricorrente dedica 12 pagine alla trascrizione della motivazione della sentenza e 26 righe al contenuto delle censure) richiamando il principio secondo cui la responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., dell’assicuratore non è una ipotesi di responsabilità oggettiva. Sotto altro profilo è inammissibile perchè non specifico, in quanto non censura i singoli passaggi della motivazione, limitandosi a riportare quasi per intero il testo della sentenza impugnata. Inoltre non coglie la ratio della decisione della Corte che in alcun modo fa riferimento ad una ipotesi di responsabilità oggettiva dell’assicuratore;

oltre a ciò, non si confronta con le argomentazioni decisive della sentenza impugnata nella quale i giudici di appello hanno evidenziato che la compagnia sei mesi prima della sottoscrizione delle tre polizze disconosciute, aveva revocato all’agente la facoltà di stipulare polizze-vita, all’esito di verifiche interne, omettendo, però, colposamente di comunicare ai clienti tale circostanza e con ciò determinando l’affidamento degli stessi nel potere di rappresentanza dell’agente generale Cu.. Tale profilo è stato ritenuto rilevante dal giudice di appello, quale condotta negligente per l’omessa doverosa notizia ai clienti dell’avvenuta revoca del mandato;

con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2697 e 2049 c.c., riguardo ai principi che disciplinano l’onere della prova e la materia del contratto di assicurazione e la relativa responsabilità, oltre all’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

la Corte d’Appello avrebbe erroneamente affermato che grava sull’assicuratore l’onere di provare la collusione o la colpevole acquiescenza tra l’agente e il cliente, violando l’art. 2697 c.c. e l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui tale onere grava sul terzo che invoca la responsabilità dell’assicuratore, che deve provare di avere fatto un incolpevole affidamento sull’operato dell’agente infedele;

sotto altro profilo evidenzia che dagli atti del giudizio emergeva che gli attori erano, quantomeno, consapevoli dell’illecito commesso da Cu.. Infatti, si erano accontentati di ricevere, a fronte di versamenti di somme ingenti a Cu., semplici proposte, documentazione incompleta e lacunosa, risultata successivamente anche falsa. Inoltre, erano stabiliti degli interessi esorbitanti rispetto a quelli normalmente applicati in ambito assicurativo;

il motivo è infondato. Con riferimento alla prima censura la Corte territoriale ha correttamente richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’onere di dimostrare la colpevole acquiescenza tra cliente e agente assicurativo grava sull’assicuratore (Cass. n. 6829-2011, Cass. 8229-2006 e Cass. n. 18928-2012). E, comunque, si trattava di una argomentazione ulteriore costituente una seconda ratio decidendi (riferita al secondo motivo di appello). Conseguentemente, ricorre carenza di interesse alla censura poichè la prima argomentazione non è stata correttamente contrastata per quanto già detto;

riguardo all’errata valutazione delle risultanze processuali che dimostrerebbero la consapevolezza da parte degli attori dell’attività illecita commessa dall’agente Cu.St., la censura è generica e attiene ai fatti, non contrastando la specifiche motivazione della Corte territoriale (pagina 10, con riferimento al secondo motivo di appello) che qualifica quali meri indizi le condotte degli attori caratterizzate da “stranezza”. Sotto altro profilo non viene censurata, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione della norma in tema di prova per presunzioni, nè l’art. 1227 c.c.. E’ noto infatti che la mera circostanza che il cliente abbia consegnato al promotore somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe stato legittimato a riceverle non esclude, in caso di indebita appropriazione di tali somme da parte del promotore, la responsabilità solidale dell’intermediario preponente per il fatto illecito commesso dal promotore, nè – in mancanza di ulteriori elementi – può costituire da sola concause del danno subito dall’investitore ovvero fatto idoneo a ridurre l’ammontare del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 c.c., rispettivamente commi 1 e 2 (Sez. 3, Sentenza n. 1741 del 25/01/2011 (Rv. 616356-01);

il terzo profilo di censura (gli attori si sarebbero accontentati di documentazione lacunosa), oltre ad atteggiarsi come richiesta di rivalutazione delle risultanze processuali, inammissibile ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è formulato in violazione all’art. 366 c.p.c., n. 6 (autosufficienza) e comunque non si confronta con la motivazione specifica della Corte (pagina 9) fondata sul principio giurisprudenziale di occasionalità necessaria, riferita anche all’ipotesi di rapporto apparente (pagina 10), principio che non viene contrastato da parte ricorrente;

con riferimento all’ultima doglianza (ex art. 360 c.p.c., n. 5) il vizio dedotto esula dal perimetro della norma, dovendosi richiamare il principio consolidato di questa Corte secondo cui l’omesso esame di elementi istruttori non integra il mancato esame di un fatto decisivo previsto dalla disposizione citata (Cass. 3698-2016, in ossequio al principio inaugurato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 2014);

con il quarto motivo si deduce la violazione degli artt. 2049 e 2059 c.c., nonchè dell’art. 185 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. e comunque dei principi che riguardano l’onere della prova, anche con riferimento all’art. 2059 c.c. e art. 185 c.p., oltre alla violazione dell’art. 116 c.p.c. e delle norme in tema di danno morale. In particolare, la Corte avrebbe condannato la compagnia al risarcimento dei danni in favore degli attori senza considerare che la società ricorrente non poteva rispondere della condotta illecita dell’agente infedele, per le motivazioni già evidenziate con i motivi precedenti;

il motivo è inammissibile perchè del tutto generico e meramente assertivo. I rilievi sono superati dalle considerazioni espresse con riferimento ai motivi precedenti. Può aggiungersi che parte ricorrente non formula una censura relativa alla corretta o meno applicazione della normativa in tema di solidarietà passiva della compagnia di assicurazione, anche con riferimento al danno non patrimoniale cagionato dall’agente infedele, ma tende a censurare il percorso motivazionale seguito dal giudice di appello attraverso un’inammissibile richiesta di valutazione differente dei mezzi di prova da parte della Corte di legittimità;

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza nei rapporti Generali Italia e C. e T., mentre vanno integralmente compensate nei rapporti tra la ricorrente e Ce., trattandosi di condebitore solidale titolare di un interesse di mero fatto. Infine, va dato atto mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti C. e T., liquidandole in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge, dichiara integralmente compensate le spese nei rapporti tra la ricorrente e Ce.Ma..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 21 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018

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