Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29030 del 17/12/2020

Cassazione civile sez. I, 17/12/2020, (ud. 26/10/2020, dep. 17/12/2020), n.29030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13980/2019 proposto da:

K.J., elettivamente domiciliato in Roma, presso la

cancelleria della Corte di cassazione, presso lo studio

dell’avvocato Massimiliano Cornacchione, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Rocco Barbato, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5767/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 14/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/10/2020 da Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Napoli, pubblicata il 14 dicembre 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da K.J., nato in (OMISSIS), avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale del capoluogo campano.

La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed ha altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.

La vicenda narrata dal ricorrente, riassunta nella sentenza impugnata, è la seguente: l’istante, proveniente dalla regione di (OMISSIS), ma vissuto a (OMISSIS), dove svolgeva il lavoro di saldatore, era stato rapito e portato in Libia, dove aveva lavorato senza essere pagato, in quanto il corrispettivo per la propria attività era versato al proprio rapitore, che lo aveva venduto; successivamente aveva lasciato la Libia ma aveva espresso il timore di tornare in (OMISSIS), perchè i parenti degli operai che lavoravano con lui, pure rapiti, potevano ritenerlo responsabile e attuare ritorsioni nei suoi confronti. La Corte di merito ha osservato che le ragioni di espatrio esposte dal richiedente erano legate a una vicenda di criminalità comune e non erano in alcun modo riconducibili a discriminazioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica; ha inoltre escluso potersi riconoscere la protezione sussidiaria in ragione della sostanziale non credibilità del racconto e dell’insussistenza di situazioni di rischio riconducibili a una vera e propria violenza indiscriminata della regione di provenienza del richiedente. Il giudice distrettuale ha infine escluso assumessero rilievo le vicissitudini narrate con riguardo al periodo di permanenza in Libia e ha negato sussistessero le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria, dovendo essere riconosciuta al ricorrente la qualità di migrante economico ed essendo comunque escluso che con riguardo alla persona dello stesso potesse configurarsi un processo di integrazione sociale in Italia.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su sei motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, si è limitato a depositare un atto di costituzione in cui non sono state svolte difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo sono lamentate la violazione dell’art. 132 c.p.c. e la nullità del provvedimento stante il carattere apparente della motivazione sul giudizio di non credibilità del narrato; si deduce che la motivazione il provvedimento impugnato non consentirebbe di comprendere quali siano le circostanze o i fatti assunti a sostegno del giudizio di non credibilità e di individuare i motivi che hanno indotto il collegio a ritenere non attendibile il racconto del ricorrente.

Il motivo è infondato.

Si legge nella sentenza impugnata che dal racconto del richiedente si evinceva che gli operai alle dipendenze dello stesso non erano stati rapiti con lui, nè tantomeno condotti in Libia e venduti a terzi: la Corte di appello ha quindi evidenziato che la narrazione dell’odierno istante risultava essere “molto nebulosa e non adeguatamente circostanziata nella parte in cui accenna al risentimento dei parenti degli operai per la supposta sparizione dei loro congiunti”. Ora, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. 23 maggio 2019, n. 13977). Quanto argomentato dal giudice di appello in punto di non credibilità del richiedente non si traduce, all’evidenza, in una motivazione apparente, nel senso appena chiarito.

2. – Il secondo motivo oppone la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis e motivazione contraddittoria circa un fatto decisivo, per non avere il Collegio tenuto nella debita considerazione le dichiarazioni del richiedente, o comunque per la mancata o errata valutazione delle risultanze processuali. Muovendo da rilievo per cui nel verbale di audizione il ricorrente aveva precisato di non poter far ritorno nel proprio paese in quanto temeva di essere arrestato dalle autorità locali per l’ingiusta accusa di rapimento, o ucciso dai parenti degli operai che lo ritenevano responsabile della vita dei medesimi, l’istante deduce che il giudice del merito avrebbe avuto l’obbligo di assumere, anche d’ufficio, le informazioni relative alla situazione il paese di origine e alla specifica condizione del richiedente ritenute necessarie ad integrazione del quadro probatorio prospettato.

Col terzo motivo è denunciata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 8, art. 14, lett. c), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27, comma 1 bis; sono inoltre lamentate la motivazione contraddittoria e illogica circa un fatto decisivo e l’omessa valutazione delle minacce subite e delle dichiarazioni del richiedente, oltre che l’errata valutazione delle risultanze processuali. Vi si deduce che la Corte di appello avrebbe mancato di prendere in considerazione il rapimento del ricorrente, la costrizione di quest’ultimo a lavorare senza alcuna retribuzione, le minacce alla vita ricevute dai familiari dei ragazzi rapiti e il rischio di essere ingiustamente arrestato e torturato, oltre che il dato costituito dalla costante violazione dei diritti umani in (OMISSIS). Rileva che il danno grave rilevante ai fini della protezione sussidiaria e anche quello minacciato da soggetti non statuali se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o il territorio, o parte di esso, non possono o non vogliono fornire protezione.

I due motivi, nel complesso, non hanno fondamento.

Non è anzitutto ben chiaro in cosa consista il rischio, prospettato nel ricorso per cassazione, di “essere arrestato dalle autorità locali per l’ingiusta accusa di rapimento”; nè l’istante deduce di aver posto un tale, non meglio definito, pericolo, a fondamento della propria domanda di protezione internazionale.

Per quel che concerne il rischio, paventato dal ricorrente, di essere oggetto di ritorsioni da parte dei familiari degli operai che prestavano la propria attività presso di lui, occorre osservare che, secondo quanto precisato da questa Corte, in tema di protezione internazionale, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma (Cass. 29 gennaio 2019, n. 2458; Cass. 10 luglio 2014, n. 15782, e in precedenza Cass. 18 febbraio 2011, n. 4138, per la quale ove il richiedente non abbia fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti comunque veritieri se ricorrano le richiamate condizioni).

Nella circostanza, però, come si è detto, la Corte di appello ha negato che quanto narrato dal richiedente in ordine al risentimento espresso dai parenti degli operai fosse, in sostanza, credibile.

Ebbene, “la riferibilità soggettiva e individuale del rischio di subire persecuzioni o danni gravi rappresenta un elemento costitutivo del rifugio politico e della protezione sussidiaria ex lett. a) e b) dell’art. 14, escluso il quale dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva, non può riconoscersi il relativo status” (Cass. 17 giugno 2018, n. 16925, in motivazione). Ciò significa che ove vengano in questione le ipotesi del rifugio politico e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275; cfr. pure: Cass. 19 giugno 2020, n. 11936; Cass. 3 luglio 2020, n. 13756), non vi è ragione di attivare poteri di istruzione officiosa finalizzati alla verifica di fatti o situazioni che, in ragione della appurata non credibilità della narrazione del richiedente, devono reputarsi estranei alla vicenda personale di questo.

Ovviamente, anche con riguardo alle indicate forme di protezione il giudizio di credibilità può esigere accertamenti officiosi circa il paese di provenienza: ciò accadrà, in particolare, quando il vaglio della credibilità esiga un approfondimento istruttorio per valutare se le dichiarazioni del richiedente non siano in contraddizione con le informazioni generali pertinenti al suo caso, giusta il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c). Accertamenti di tale natura non si imporranno, invece, ove l’inattendibilità del narrato possa senz’altro prescindere da una tale verifica, dipendendo dalle contraddizioni che vi si ravvisino, dalla non credibilità razionale della vicenda descritta, o ancora dalla genericità del racconto.

E’ certo, tuttavia, che, nelle ipotesi del rifugio politico e della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a) e lett. b), il mancato riscontro della veridicità delle dichiarazioni del richiedente (nel quadro del giudizio condotto secondo i criteri di cui al cit. art. 3, comma 5) esoneri il giudice dal dovere di accertare se il paese di provenienza dell’istante sia interessato agli atti persecutori e alle condizioni di rischio cui il detto soggetto ha fatto riferimento: una volta, cioè, che la vicenda narrata dal richiedente sia stata ritenuta non credibile, i pericoli che vi si vorrebbe correlare – e riconducibili alle richiamate forme di protezione – risulteranno evidentemente privi di concretezza, e quindi non rilevanti ai fini del decidere.

Diversa conclusione si impone per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Come ha avuto modo di precisare la Corte di giustizia, nell’interpretare l’art. 15, lett. c), della direttiva del Consiglio n. 2004/83/CE (di cui la richiamata norma nazionale costituisce recepimento), l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è in questo caso subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale: essa sussiste anche qualora il grado di violenza indiscriminata, che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rientro dello straniero nel proprio paese, lo possa sottoporre, per la sua sola presenza sul territorio, al rischio di subire concretamente tale minaccia (Corte giust. 17 febbraio 2009, C465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30 gennaio 2014, C285/12, Diakitè; per la giurisprudenza nazionale cfr. pure, di recente: Cass. 21 luglio 2017, n. 18130; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25083; Cass. 13 maggio 2018, n. 13858; Cass. 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. 8 luglio 2019, n. 18306; Cass. 17 luglio 2020, n. 15317). Come è stato efficacemente rilevato, quando il cittadino straniero che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel paese straniero di origine dell’istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (Cass. 28 giugno 2018, n. 17069).

Proprio la mancata personalizzazione del rischio preso in considerazione dall’art. 14, lett. c), dà dunque ragione della generale irrilevanza della inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente che invochi tale forma di protezione (in tal senso: Cass. 24 maggio 2019, n. 14283; Cass. 12 maggio 2020, n. 8819, la quale estende il principio oltre la fattispecie di cui alla detta norma; Cass. 29 maggio 2020, n. 10286; Cass. 28 luglio 2020, n. 16122; Cass. 22 settembre 2020, n. 19725): irrilevanza che può peraltro predicarsi in termini generali, ma non assoluti (giacchè ha sicuramente effetto preclusivo rispetto all’attività di cooperazione istruttoria, il dato della non credibilità del richiedente quanto al fatto stesso della sua provenienza dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda la forma di protezione di cui qui si discorre).

In conclusione, la decisione della Corte di merito si sottrae a censura nella parte in cui ha reputato assorbente, sul piano giuridico, il dato della non attendibilità delle dichiarazioni dell’istante con riguardo alle minacce che si deduce provenissero dai parenti degli operai: l’asserita necessità di far luogo ad approfondimenti istruttori non trova riscontro.

La pronuncia risulta, così, non contravvenire al principio per cui, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), l’obbligo di cooperazione istruttoria non opera al fine dell’accertamento di fatti o situazioni che, in ragione della appurata non credibilità della narrazione del richiedente, risultano estranei alla vicenda personale dello stesso.

Non appare d’altronde concludente la deduzione del ricorrente con cui è lamentata l’omessa audizione personale dello stesso con particolare riferimento al giudizio di gravame: detta evenienza non integra difatti una violazione processuale, sanzionabile a pena di nullità (per tutte: Cass. 14 maggio 2020, n. 8931; Cass. 29 maggio 2019, n. 14600).

3. – Il quarto motivo oppone la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5 e 8 degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., nonchè l’omessa o quanto meno insufficiente motivazione circa un punto decisivo, per non avere il Collegio tenuto in debita considerazione le dichiarazioni del richiedente o, comunque, per la mancata o errata valutazione di risultanze processuali. In sintesi, l’istante lamenta “la mancata attivazione dell’onere probatorio attenuato e la mancata assunzione delle informazioni sulla situazione del paese di origine e del villaggio del ricorrente ovvero della Libia (paese in cui è transitato il ricorrente), mediante consultazione dei report internazionali, e per non aver il collegio valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”, oltre che l’omesso esame delle condizioni per la concessione dello status di rifugiato e della situazione di pericolo derivante dalla guerra in Libia.

Il motivo non ha fondamento.

La Corte di merito ha fatto corretta applicazione degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 valutando la credibilità di quanto dichiarato dal richiedente in rapporto alla vicenda narrata e al rischio da lui prospettato con riguardo ad ipotetiche azioni violente da parte dei parenti dei propri operai. La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce, del resto, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340). Per il resto, è sufficiente richiamarsi alle considerazioni svolte in precedenza; del resto, non si vede – nè il ricorrente chiarisce -quali informazioni fosse tenuta ad acquisire la Corte di merito con riguardo al paese di origine e al villaggio del ricorrente.

Privo di rilievo, ai fini che qui interessano è, poi, quanto asseritamente occorso dall’istante durante il periodo di sua permanenza in Libia. Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria occorre far riferimento al paese di cui si ha la cittadinanza: lo si ricava dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) che definisce persona ammissibile alla protezione sussidiaria il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine (…) correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”; infatti, tale previsione conferisce rilievo al rischio, da parte del richiedente, di essere vittima del danno in caso di ritorno nel paese di origine, di cui ha la cittadinanza. Il significato della disposizione appare ancora più evidente ove si consideri che una condizione diversa dalla cittadinanza, quella della dimora, è presa in considerazione nella seconda parte del cit. art. 2, lett. g), ma con riferimento all’apolide. Nè sarebbe conferente il richiamo alla previsione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Come è stato chiarito, infatti, essa “mira solo, ove occorra ad una ricostruzione della vicenda individuale in vista della valutazione complessiva della credibilità del dichiarante, non certo ad ottenere, in ragione del fatto che in un paese di transito (nella specie: la Libia) si consuma un’ampia violazione dei diritti umani, puramente e semplicemente l’accoglimento della propria domanda di protezione internazionale, viceversa da valutare considerando essenzialmente le connessioni tra la vicenda individuale con la situazione del Paese di provenienza accertata secondo le regole probatorie già enunciate da questa Corte” (così, in motivazione, Cass. 6 febbraio 2018, n. 2861 e Cass. 20 novembre 2018, n. 29875). In definitiva, dunque, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide (così, da ultimo, Cass. 5 giugno 2020, n. 10835).

4. – Col quinto motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e art. 14, lett. c), e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e per motivazione contraddittoria circa un fatto decisivo, per non avere il collegio di prime cure tenuto in debita considerazione le dichiarazioni del richiedente e comunque per la mancata o errata valutazione delle risultanze processuali. La doglianza investe la decisione di rigetto della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), cit.. Viene sottolineato che tale forma di protezione non è subordinata alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico alla minaccia grave ed individuale derivante dalla violenza indiscriminata. Si lamenta inoltre sia mancata un’indagine sulla situazione del paese in cui è transitato e si è stabilizzato del ricorrente, oltre che sulla condizione generale del paese di origine dello stesso, mediante l’assunzione delle informazioni relative.

Il motivo non merita accoglimento.

La Corte di appello non ha disatteso il principio per cui la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), possa essere riconosciuta in ragione della provenienza del richiedente da regione interessata alla menzionata situazione di violenza indiscriminata. L’istante, poi, non può dolersi del mancato accertamento circa l’esistenza, nell’area geografica di propria provenienza, della predetta situazione di violenza indiscriminata, in quanto la Corte di appello ha puntualmente evidenziato che, in base a quanto rilevato dall’UNHR i conflitti in (OMISSIS) non sono localizzati in tale regione. Ed è, questo, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass. 21 novembre 2018, n. 30105).

5. – Il sesto motivo oppone la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 34 e dell’art. 10 Cost., oltre che dell’art. 6, comma 4, dir. 115/2008, della dir. 95/2011, nonchè degli artt. 112 e 116 c.p.c.; denuncia altresì la mancanza o insufficienza di motivazione circa un punto decisivo e la mancata considerazione, da parte del giudice di appello, delle dichiarazioni del richiedente o, comunque, la mancata o errata valutazione delle risultanze processuali. L’istante lamenta sia mancata un’autonoma verifica delle condizioni che giustificassero la concessione della protezione umanitaria, la quale avrebbe dovuto essere apprezzata quale misura autonoma che richiede una specifica valutazione, posto che le condizioni di accesso alla medesima non sono necessariamente coincidenti con quelle relative alle forme di protezione maggiore e anche rispetto ad esse si configura l’obbligo, da parte del giudice, di procedere ad accertamenti officiosi.

Il motivo va disatteso.

La Corte di merito ha in sintesi escluso che il ricorrente potesse essere considerato un soggetto vulnerabile e il ricorrente non chiarisce quale sia il rischio di lesione dei diritti fondamentali, fatto valere nel corso del giudizio di merito, cui sarebbe esposto in caso di rimpatrio. E’ da rilevare, in proposito, che non può ovviamente rilevare il pericolo di risentire un danno dalle azioni violente dei familiari degli operai alle dipendenze dello stesso istante, dal momento che il sostrato fattuale che dovrebbe dare consistenza a tale timore è stato ritenuto non credibile dalla Corte di merito. E’ noto, poi, che la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336; Cass. 31 gennaio 2019, n. 3016): in conseguenza, competeva al ricorrente chiarire quali fossero i fatti costitutivi (diversi da quelli ritenuti inattendibili) posti a fondamento della domanda di protezione umanitaria; l’assunto (pag. 14 del ricorso) di non avere il richiedente legami familiari in patria, oltre ad essere espresso senza dar conto della pregressa formulazione di una allegazione in tal senso, non è, d’altro canto, nemmeno conferente, giacchè la protezione umanitaria va correlata a situazioni di lesione di diritti fondamentali della persona (Cass. Sez. U. 13 novembre 2019, n. 29459). Mette conto di aggiungere, del resto, che la Corte di merito ha escluso che il ricorrente avesse raggiunto un qualche significativo livello di inserimento in Italia e che tale affermazione non è stata nemmeno censurata.

6. – In conclusione, il ricorso è respinto.

7. – Non è luogo a pronuncia sulle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, dell’art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima Civile, il 26 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2020

 

 

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