Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29028 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. III, 13/11/2018, (ud. 18/09/2018, dep. 13/11/2018), n.29028

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19080-2015 proposto da:

S.M.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.

FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO FILIPPO MARZI,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CORINNA MARZI,

MARIA TERESA VASCIAVEO, FERDINANDO ASPESI giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

D.S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO

SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNA LISA BARONI

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1572/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/09/2018 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Dopo aver ottenuto un accertamento tecnico preventivo presso il Tribunale di Como, D.S.A. conveniva davanti al Tribunale di Monza il chirurgo plastico S.M. e Ars Medica Day Hospital S.r.l. perchè fossero condannati a risarcirle i danni derivati da un intervento di chirurgia estetica, e precisamente di liposuzione. I convenuti si costituivano resistendo, la società ottenendo pure l’autorizzazione a chiamare in causa la sua compagnia assicuratrice, Allianz S.p.A. Acquisito il fascicolo dell’accertamento tecnico preventivo e disposta consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale, con sentenza n. 957/2011, rigettava la domanda attorea compensando le spese.

Essendo stato proposto appello principale dalla D.S. e appello incidentale dal S., la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 13 aprile 2015, accoglieva il gravame principale, rigettando l’incidentale e condannando solidalmente il S. e Ars Medica Day Hospital S.r.l. al risarcimento e alla rifusione delle spese processuali.

2. Ha presentato ricorso il S., articolandolo in quattro motivi.

2.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 1218 c.c., comma 2, artt. 2043 e 2729 c.c., artt. 113 e 115 c.p.c.

Lamenta il ricorrente che la corte territoriale “pretende di far valere a titolo di presunzioni” elementi di fatto in realtà inconferenti e quindi inidonei a sorreggere la motivazione. Riporta pertanto alcuni passi motivazionali.

In primo luogo, il passo in cui, a pagina 6 della sentenza impugnata, si richiama la richiesta dell’accertamento tecnico preventivo avvenuta nel 2006, per ribattere che si tratta in realtà di un “dato cronologico… del tutto neutrale”;

In secondo luogo, dato atto che nella stessa pagina della sentenza si afferma che la cartella clinica non ha efficacia probatoria privilegiata, rileva tuttavia il ricorrente che ciò non costituisce un “elemento presuntivo” a favore della parte attrice, bensì, anzi, un “elemento favorevole alla deduzione del medico che peraltro dal dì dell’intervento non ha più avuto accesso” ad essa.

Ancora, si richiama un passo della pagina 7 della sentenza impugnata, in cui la corte osserva che l’archiviazione in sede penale non è vincolante nel giudizio civile;

il ricorrente ribatte che neppure ciò fornisce alcun elemento a favore dell’attrice, e adduce che la corte deve comunque fornire una motivazione logica conciliante gli esiti del procedimento penale “con la pretesa inefficacia nel processo civile di un documento la cui genuinità è stata accertata nel procedimento penale”.

Si riporta, infine, un ulteriore passo presente nella stessa pagina 7 della sentenza, dove la corte afferma che l’assenza di fotografie preoperatorie – la cui esistenza è stata ammessa concordemente dalla periziata e dal chirurgo ma che, nonostante le numerose richieste del c.t.u., non sono state mai prodotte “è significativa di una lacunosità della cartella clinica”, lacunosità che costituirebbe figura sintomatica dell’inesatto adempimento e rileverebbe altresì ai fini della prova presuntiva. In seguito, la corte osserva pure che il c.t.u. ha ritenuto i reliquari iatrogeni tutti della stessa epoca. Sulla base dei due suddetti elementi la corte ritiene dunque ragionevole intendersi che si tratti dell’epoca in cui avvenne l’intervento chirurgico effettuato dal S., cioè del 2004.

Il ricorrente contesta questi argomenti sostenendo che sussisterebbe una mera “invenzione” del giudice d’appello in ordine al preteso inadempimento del medico all’obbligo di corretta tenuta della cartella clinica ex art. 1176 c.c. Si sarebbe dinanzi, invece, a un fatto del terzo – cioè di Ars Medica Day Hospital S.r.l. – idoneo ad essere “fattore anche fortuito di interruzione del nesso causale”: il medico “per certo” avrebbe “diligentemente scattate… e depositate” in clinica le fotografie insieme alla cartella clinica. E la circostanza sostenuta dalla corte territoriale sarebbe smentita dall’archiviazione del procedimento penale. Quindi il giudice d’appello avrebbe indebitamente applicato la regola del “più probabile che non” per accertare la condotta anzichè il nesso causale, incorrendo pertanto nella violazione delle norme invocate nella rubrica del motivo.

2.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto discusso e decisivo.

Il giudice d’appello avrebbe ritenuto provato (secondo il ricorrente, in realtà mediante le “mere presunzioni” esaminate nel motivo precedente) che il S. sia intervenuto in tutte le aree del corpo della paziente di cui si discute. Ma al S. sarebbe “stato inibito di provare” con testimoni la sua “estraneità ai fatti”. Si richiamano le istanze istruttorie presentate nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2, sostenendo che, per avere ritenuto “superflua e inammissibile” la prova testimoniale, la corte territoriale sarebbe incorsa in un vizio motivazionale.

Si osserva inoltre che la corte, nella pagina 7 della sentenza, afferma che i reliquari iatrogeni sarebbero stati tutti della stessa epoca, asserendo che in tal modo avrebbe violato l’art. 2697 c.c. in quanto il dato cronologico non costituisce prova, tenuta in conto anche la prospettazione attorea.

2.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2729 e 2702 c.c., artt. 113,115 e 116 c.p.c., nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto discusso e decisivo.

La Corte d’appello avrebbe omesso di valutare la cartella clinica come scrittura privata, così violando l’art. 2702 c.c. e l’art. 113 c.p.c.: tale documento non sarebbe stato più contestato da controparte dopo l’archiviazione del procedimento penale, limitandosi essa a eccepire, nell’appello e negli atti conclusivi, che non godrebbe fede privilegiata e sarebbe incompleto per mancanza delle fotografie, argomento quest’ultimo inopponibile al S. per quanto già osservato nelle precedenti censure. La corte avrebbe dovuto verificare l’efficacia probatoria, ai sensi dell’art. 2702 c.c., della cartella clinica, anzichè erroneamente attribuirle valenza ex art. 2709 c.c. come scrittura privata di imprenditore commerciale. Il giudice d’appello avrebbe violato gli artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 113,115 e 116 c.p.c. per non avere valutato la cartella clinica come indizio grave, preciso e concordante a favore del ricorrente, da considerarsi insieme agli altri “atti del processo”, cioè l’intervenuta archiviazione del procedimento penale e la non disponibilità della cartella al S. “dal dì dell’intervento”. Il motivo si conclude con una illustrazione di quanto sarebbe accaduto nell’ambito del procedimento penale.

2.4 I quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1223 c.c., artt. 112,113,115 e 116 c.p.c.

La Corte d’appello riconosce equitativamente alla D.S. un risarcimento di Euro 3500 in relazione al danno derivante dall’insufficienza di consenso informato: in tal modo violerebbe l’art. 112 c.p.c. perchè la D.S. non avrebbe formulato domanda di condanna al riguardo, onde avrebbe errato il giudice d’appello nel quantificare autonomamente il danno.

Il risarcimento del danno per mancato consenso informato spetterebbe soltanto se dall’attività sanitaria derivassero danni, di cui la paziente dovrebbe dimostrare l’esistenza: e nel caso in esame la D.S. non avrebbe offerto la relativa prova, neppure presentando istanze istruttorie. Solo nell’atto d’appello, a pagina 22, si rinverrebbe un riferimento: “il danno dell’appellante è accertato nella c.t.u. ed è in rapporto causale con l’intervento non essendo state fornite dal medico prove contrarie rispetto alla suddetta eccezione”. Si tratterebbe di una frase di “scarsa intelligibilità”. Il giudice d’appello avrebbe liquidato il danno autonomamente, con la laconica espressione “da liquidarsi inevitabilmente” e omettendo l’indagine sul fatto se l’intervento sarebbe stato rifiutato nel caso in cui il medico avesse “puntualmente” informato delle possibili conseguenze la paziente.

Si è difesa con controricorso la D.S.. Il ricorrente ha depositato pure memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 166 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1 Invero, la premessa descrittiva dei fatti processuali (pagine 2-3 del ricorso) non permette al giudicante di ricostruire, neppure in misura ancor meno che “sommaria”, il contenuto degli atti introduttivi e quanto avvenuto nella evoluzione del giudizio di primo grado e quindi nel giudizio d’appello. Si limita infatti, intitolando il paragrafo “Della fattispecie concreta”, ad affermare che “la fattispecie concreta verte sulla invocata responsabilità risarcitoria ascritta all’odierno ricorrente da D.S.A., sottopostasi nel 2004 a intervento chirurgico di natura estetica a opera del S.”, esponendo poi che la D.S. aveva dapprima esperito la procedura dell’accertamento tecnico preventivo e in seguito aveva citato il chirurgo, senza peraltro indicare sulla base di quali fatti e quali prospettazioni di diritto ella aveva agito, nè in quale modo avrebbe conformato la sua difesa il chirurgo, del quale in effetti non si menziona neppure la costituzione in giudizio. Seguono due brevi stralci della sentenza del Tribunale di Monza con cui era stata rigettata la domanda – stralci da cui ancora non si comprende su quali fondamenti questa era stata proposta – per proseguire dando atto che la prima sentenza era stata riformata dalla Corte d’appello di Milano, ma nulla indicando a proposito del contenuto dell’atto d’appello, dell’eventuale resistenza dell’appellato e delle ragioni in base alle quali la corte territoriale aveva riformato. Di qui l’immediata esposizione dei motivi, il cui contenuto, a sua volta, non viene configurato in modo tale da supplire poi deficit della descrizione della vicenda processuale, non risultando idoneo in effetti a integrare una prospettazione così ampiamente carente come quella appena illustrata.

3.2 La giurisprudenza di questa Suprema Corte è ben noto che riconosce senza alcuna oscillazione di dubbio – l’effetto di inammissibilità in fattispecie del genere, dal momento che esse ledono profondamente il requisito dell’autosufficienza del ricorso, il quale non può essere eluso neppure tramite il contenuto delle sentenze intervenute nella vicenda processuale. Colui che impugna deve mettere il giudice di legittimità nella condizione di disporre di un quadro completo, pur se a livello sommario, della vicenda processuale suddetta, senza peraltro obbligarlo non solo ad attingere ad altri atti (come, appunto, le sentenze già pronunciate nel corso del processo), ma neppure ad effettuare egli stesso una ricostruzione alla luce delle indicazioni che possano trovarsi “sparse” nelle argomentazioni dei motivi. Il ricorso, infatti, deve essere uno strumento di chiarezza che costituisce il presupposto della cognizione del giudicante, e non un onere, in ultima analisi, per il giudicante stesso.

Diversamente, d’altronde, si giungerebbe a privare di effettività – e dunque a inficiare il principio conservativo ermeneuticamente dominante – il significato della norma, avendo il legislatore tramite l’art. 366 c.p.c. plasmato la forma-contenuto del ricorso che deve essere seguita, e non modificata in modo da trasformare un atto così specificamente disegnato dal legislatore nel suo opposto, ovvero in un atto che non rispetta alcun paradigma bensì che si presenta in modo, per così dire, fluido, variabile e “relativo”, appigliato esclusivamente ad un generico – eventuale peraltro – raggiungimento dello scopo che, però, verrebbe ottenuto non tramite l’atto di per sè, vista tale sua conformazione, bensì mediante una specifica attività ricostruttiva/riparatoria del giudicante, laddove – anche per l’evidente canone di imparzialità assoluta il giudice della parte ricorrente ausiliario non è (su questa tematica, da ultimo, Cass. sez. 2, 24 aprile 2018 n. 10072 – per cui “nel ricorso per cassazione è essenziale il requisito, prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, dell’esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, da effettuarsi necessariamente in modo sintetico, con la conseguenza che la relativa mancanza determina l’inammissibilità del ricorso, essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte – e Cass. sez. 6-3, ord. 28 maggio 2018 n. 13312 – per cui “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente” -; e cfr. ex multis, sempre tra gli arresti più recenti, Cass. sez. 1, 31 luglio 2017 n. 19018, Cass. sez. 1, 30 maggio 2017 n. 12688 e Cass. sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926 nonchè – sullo scopo di agevolare la comprensione insito nel requisito de quo – S.U. 17 luglio 2009 n. 16628).

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis cit. articolo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 2300, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018

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