Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28995 del 12/11/2018

Cassazione civile sez. I, 12/11/2018, (ud. 18/07/2018, dep. 12/11/2018), n.28995

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20186/2017 proposto da:

H.Z., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Benzoni Martino, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 525/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 21/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/07/2018 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 525/2017, pronunciata in giudizio promosso da H.Z., cittadino pakistano, al fine di sentirsi riconoscere, a fronte del diniego da parte della Commissione Territoriale di Gorizia, la protezione internazionale ovvero sussidiaria ovvero umanitaria, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto la richiesta. La Corte distrettuale ha ritenuto che, dalla situazione descritta da richiedente – essere stato iscritto al Partito Popolare Pakistano, prima, ed alla Lega Mussulmana Pakistana, successivamente al 2012, subendo violente minacce degli ex compagni del PPP -, non emergeva nè, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, un effettivo rischio di persecuzione per motivi legati alla razza, alla religione, alla nazionalità, all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale o per avere professato opinioni politiche violentemente represse dal regime, nè “un quadro probatorio esauriente circa l’attività politica svolta, come delle successive persecuzioni”; la Corte, infine, evidenziava che i fatti indicati dal medesimo neppure avevano trovato conferma nell’istruttoria svolta in appello, tramite acquisizione di informative del COI sulla regione di provenienza dell’appellante, e concludeva per la conferma della decisione impugnata, “assorbiti” tutti gli altri motivi.

Avverso la suddetta sentenza, H.Z. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che resiste con controricorso).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la erronea o falsa applicazione, e art. 360 c.p.c., n. 3, art. 1 della Convenzione di Ginevra e D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 8, avendo la Corte d’appello erroneamente ritenuto non provata la situazione di persecuzione personale in ragione dell’attivismo politico, essendo stati dimostrati gli attentati subiti dal medesimo e dai suoi famigliari, in via documentale, ed essendo sufficiente, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, fornire elementi circa il “timore fondato di persecuzioni”; 2) con il secondo motivo, si denuncia l’omessa pronuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, in violazione dell’art. 112 c.p.c., sulle altre richieste di protezione, sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed umanitaria, in relazione alla personale condizione di salute del richiedente.

2. La prima censura è, in parte, inammissibile ed, in parte, infondata. La Corte distrettuale ha respinto la richiesta di protezione internazionale del richiedente sulla base delle seguenti considerazioni: 1) la situazione descritta si riferisce a fatti strettamente personali; 2) l’asserito rischio di persecuzione non è stato nemmeno compiutamente delineato e ricondotto nell’ambito dei motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, non avendo il ricorrente mai dedotto di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale, nè di aver espresso opinioni politiche violentemente represse dal regime; 3) dalla documentazione prodotta non si ricava un quadro probatorio esauriente circa l’attività politica svolta, come delle successive persecuzioni, legate alla lotta politica tra PPP e PML; 4) il PML è un movimento di stampo socialista, progressista e moderato, la cui attività mal si concilia con minacce di violenza diretta e armata; 5) i fatti dedotti non hanno trovato rispondenza neppure nell’ulteriore istruttoria compiuta in appello ad integrazione delle lacune del primo grado, attraverso l’acquisizione delle informative del COI sulla regione di provenienza dell’appellante.

Ora, la censura si presenta, anzitutto, inammissibile nella parte in cui il ricorrente si limita alla generica esposizione dei criteri cui il giudice di merito deve attenersi ai fini della valutazione dei presupposti della protezione internazionale, in assenza di specifici collegamenti con la fattispecie concreta in esame e con i passaggi argomentativi della decisione qui impugnata.

Invero, anche nella materia dell’ immigrazione, opera il principio di diritto più volte affermato da questa Corte, secondo il quale ” il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione”, risultando, quindi, inidoneamente formulata “la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata” (Cass. 5353/2007; Cass. 24298/2016; Cass. 15770/2018).

Il motivo è altresì inammissibile sia nella parte in cui assume che la Corte d’appello abbia ritenuto necessaria la prova certa dei fatti dedotti dal richiedente la protezione internazionale, non cogliendo la ratio decidendi, che si fonda surf complesso di argomentazioni sopra richiamato, sia nella parte in cui lamenta la mancata attivazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice di merito, non tenendo conto (e non censurando specificamente la relativa statuizione) del fatto che la Corte distrettuale ha integrato l’istruttoria di primo grado, attraverso le informative del COI sulla regione di provenienza del ricorrente.

La censura è poi infondata, con riguardo specifico alle violazioni di legge denunciate.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8, prevedono i presupposti per il riconoscimento del predetto status che consistono in primo luogo (art. 7) nella presenza di atti di persecuzione sufficientemente gravi e tali da rappresentare una violazione dei diritti umani che possono assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o altri; (e-bis) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale; f) atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia. La presenza di siffatti atti però non implica di per sè la possibilità di riconoscimento dello status di rifugiato poichè i detti atti debbono essere collegati a ben specifici motivi di persecuzione indicati nell’art. 8, e, cioè, motivi di: a) “razza”; b) “religione”; c) “nazionalità”; d) “particolare gruppo sociale”; e) “opinione politica”.

La valutazione del giudice deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova (perchè non reperibile o non richiedibile), della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine (Cass. 5224/2013; Cass. 19197/2015). Infatti, le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 7333/2015).

La Corte d’appello ha espresso a un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente sulla base di plurimi elementi, ritenuti rilevatori dell’inverosimiglianza della sua narrazione, in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. 16925/2018). La Corte territoriale ha quindi escluso, sulla base di un’interpretazione normativa conforme alla giurisprudenza di legittimità, che il ricorrente possa considerarsi vittima di persecuzione politica (cfr. Cass. civ., sez. 6-1, ordinanza n. 14157 del 2016, secondo cui requisito essenziale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate), rilevando che il quadro probatorio non risultava esauriente, quanto all’attività politica svolta, ed i fatti allegati non avevano trovato “nessuna corrispondenza… in seguito all’istruttoria svolta dal Collegio” (informative del COI sulla regione di provenienza dell’appellante) e che le asserite minacce da parte di ex compagni del Partito PPP (essendosi il richiedente spostato nel partito PML, Lega Mussulmana Pakistana) non risultavano credibili, trattandosi di movimento notoriamente “di carattere progressista e moderato di stampa socialista…che mal si concilia nello spirito con le attività di minacce prima e poi di violenza diretta ed armata contro un militante (seppure transfuga) ad altro movimento”.

La decisione impugnata risulta pertanto conforme ai principi di diritto sopra richiamati.

3. Il secondo motivo è inammissibile.

Invero, la Corte d’appello ha respinto il motivo di appello concernente il rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione internazionale correlata allo status di rifugiato, dichiarando assorbiti gli altri motivi, concernenti invece il rigetto delle domande subordinate di riconoscimento della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, ed umanitaria.

Ora, questa Corte ha affermato (Cass. 28663/2013; Cass. 7663/2012) che “la figura dell’assorbimento in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, la quale con la pronuncia sulla domanda assorbente ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre è in senso improprio quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande”, con la conseguente conclusione che “l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale), in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento, per cui, ove si escluda, rispetto ad una certa questione proposta, la correttezza della valutazione di assorbimento, avendo questa costituito l’unica motivazione della decisione assunta, ne risulta il vizio di motivazione del tutto omessa”.

L’odierno ricorrente prescinde dall’orientamento di questa S.C. secondo cui la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia, in quanto il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto (l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, Cass. n. 21257 del 2014) e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni.

Il ricorrente avrebbe dovuto censurare la correttezza della valutazione espressa dalla Corte di assorbimento dei motivi ulteriori, lamentando un vizio di motivazione del tutto omessa, e non sollevare un vizio di omessa pronuncia.

Inoltre, con riguardo alla protezione umanitaria, basata sulla mancata considerazione della documentazione sanitaria riguardante le condizioni di salute del ricorrente, il motivo difetta di autosufficienza e specificità, non essendo indicata o allegata la documentazione medica richiamata, e la questione appare anche nuova, non risultando che essa sia stata prospettata nel giudizio di merito (nè essendo specificato, in ricorso, in quale sede l’allegazione sarebbe avvenuta).

4. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.050,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello steso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

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