Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28964 del 04/12/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 04/12/2017, (ud. 14/06/2017, dep.04/12/2017),  n. 28964

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza pubblicata il 28.12.10 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame di M.C. contro la sentenza n. 6011/06 con cui il Tribunale di Roma ne aveva respinto la domanda, proposta nei confronti di Federconsorzi – Federazione Italiana dei Consorzi Agrari in liquidazione, di rideterminazione di alcune voci retributive (differenze fra retribuzione e trattamento economico di CIGS – il ricorso alla quale era già stato dichiarato illegittimo – e indennità sostitutiva del preavviso) derivante dal superiore inquadramento contrattuale riconosciuto al lavoratore.

Affermavano i giudici di merito non essere consentite tali riliquidazioni perchè precluse da precedenti giudicati fra le stesse parti, l’uno (relativo alle differenze fra retribuzione e trattamento economico di CIGS) formatosi sulla sentenza n. 12770/01 del Tribunale di Roma, l’altro formatosi su decreto ingiuntivo emesso per l’indennità sostitutiva del preavviso ad istanza dello stesso M.C., che oggi ricorre per la cassazione della sentenza della Corte territoriale affidandosi ad un solo motivo.

Federconsorzi – Federazione Italiana dei Consorzi Agrari in liquidazione in concordato preventivo resiste con controricorso.

Inizialmente fissata l’udienza innanzi a questa S.C. per la data del 9.3.16, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle S.U. sull’ordinanza interlocutoria n. 1251/16 della Sezione Lavoro, sulla questione “se, una volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con l’improponibilità della domanda”.

Pronunciatesi a riguardo le S.U. con sentenza n. 4090/17, la causa torna ora all’attenzione di questa Sezione Lavoro.

Il ricorrente deposita memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con unico motivo di ricorso si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 324 e 337 cod. proc. civ., nonchè vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata ritenuto inammissibili le pretese creditorie avanzate dal ricorrente perchè precluse da precedenti giudicati: l’uno (relativo alle differenze fra retribuzione e trattamento economico di CIGS) formatosi sulla sentenza n. 12770/01 del Tribunale di Roma, l’altro formatosi su decreto ingiuntivo emesso per l’indennità sostitutiva del preavviso ad istanza dello stesso M.C.: obietta quest’ultimo che la riliquidazione di tali crediti derivava dal superiore inquadramento contrattuale nella qualifica prima di quadro B, poi di quadro A (a decorrere, rispettivamente, dal 28.6.86 e dal 19.6.88); a sua volta tali superiori qualifiche e le relative decorrenze, riconosciutegli con sentenza 10.6.95 del Pretore di Roma, erano ancora sub iudice all’epoca dell’introduzione dei due giudizi (l’uno avente ad oggetto le differenze tra retribuzione e trattamento economico di CIGS, l’altro concernente il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso) in quanto la relativa sentenza era stata gravata da appello, tanto che l’unico giudizio promosso in base alla citata pronuncia pretorile era rimasto sospeso (per quasi dieci anni) in pendenza dell’appello; per l’effetto, il lavoratore si era visto costretto ad agire per ottenere il pagamento dei crediti sopra indicati limitandosi a chiederne la liquidazione sulla base dell’inquadramento contrattuale all’epoca incontestato, in attesa che maturasse il giudicato pure sulle superiori qualifiche prima di quadro B e, poi, di quadro A. Pertanto – conclude il ricorso – contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito non si è in presenza di duplicazione di domande nè di loro diversa prospettazione attraverso la modifica delle allegazioni, bensì di un frazionamento della domanda consentito dalla non coincidenza delle causae petendi (basate su differenti inquadramenti contrattuali).

2.1. Il ricorso è fondato.

Il precedente giurisprudenziale, richiamato nella motivazione dell’impugnata sentenza e costituito da Cass. S.U. 15.11.07 n. 23726, riguarda tutt’altra ipotesi, ovvero la parcellizzazione in plurime e distinte domande di un unico credito pecuniario, parcellizzazione che, in quel caso, è stata esaminata solo sotto il profilo della mancata attribuzione delle spese di lite al creditore e non anche sotto quello dell’ammissibilità o meno di domande di pagamento frazionato del credito, vale a dire di un solo credito azionato pro quota, con riserva di separata azione per il residuo.

E infatti la cit. Cass. S.U. n. 23726/07 non dichiara inammissibili le separate domande, ma si limita ad affermare che è contrario a correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario.

E’ pur vero che nel giudizio in oggetto l’odierno ricorrente vanta ulteriori differenze su crediti già precedentemente azionati e accolti con separati provvedimenti passati in giudicato, ma lo fa in base al sopravvenire d’una non coincidente causa petendi, vale a dire in base alle superiori qualifiche prima di quadro B e, poi, di quadro A che, all’epoca dell’introduzione del presente giudizio, erano ancora sub iudice.

Pertanto, nel caso di specie trova applicazione la sentenza n. 4090/17 delle S.U. di questa S.C. (proprio in attesa della quale, non a caso, la trattazione del presente ricorso era stata rinviata a nuovo ruolo): tale pronuncia statuisce che in un solo caso non è consentito il frazionamento della domanda, vale a dire nel caso in cui plurime pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, così da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale.

Ma anche in siffatta evenienza le S.U. chiariscono che il frazionamento della domanda è interdetto soltanto ove il creditore non abbia un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.

Dunque, secondo Cass. S.U. n. 4090/17, il divieto di azione frazionata presuppone il coevo concorso di due necessari requisiti, uno positivo e l’altro negativo: quello positivo è che le pretese creditorie siano inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo d’un possibile giudicato o, comunque, siano fondate sullo stesso fatto costitutivo, di modo che accertarlo separatamente importi una duplicazione di attività istruttoria; quello negativo consiste nell’assenza, in capo all’attore, d’un interesse oggettivo al frazionamento.

Ora, anche a voler ritenere – sia detto per mere esigenze di brevità del discorso – che le pretese creditorie de quibus siano inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di cosa giudicata ed accertabili separatamente solo a costo di una duplicazione di attività istruttoria, resta l’insuperabile rilievo dell’oggettivo (e giuridicamente apprezzabile) interesse dell’odierno ricorrente a frazionare le domande per ottenere subito quanto facilmente accertabile, anche in via monitoria, fatte salve ulteriori differenze all’esito del più complesso giudizio relativo al superiore inquadramento contrattuale.

Diversamente, egli si sarebbe trovato innanzi all’alternativa fra due scenari ugualmente ed ingiustamente penalizzanti: attendere (magari per molti anni) l’esito definitivo del giudizio sulla superiore qualifica prima di agire in via giudiziaria per riscuotere tutti gli altri crediti retributivi di agevole accertamento (e di natura pur sempre alimentare), oppure agire subito, ma rinunciando alla loro liquidazione secondo il parametro retributivo corrispondente alla superiore qualifica spettantegli (e, poi, effettivamente riconosciutagli).

Ad esempio, a voler seguire l’impostazione accolta dai giudici di merito, dovrebbe concludersi che ogni qual volta il lavoratore vanti il diritto ad un superiore inquadramento contrattuale egli debba o attendere di agire per TFR, indennità sostitutiva del preavviso, ratei di mensilità aggiuntive ed ulteriori crediti parametrati alla retribuzione tabellare (cioè per la gran parte di essi) fino a quando non gli sia riconosciuta la superiore qualifica con sentenza passata in giudicato, oppure rinunciare al corretto calcolo dei propri diritti retributivi.

E – deve segnalarsi – nella prima evenienza l’odierno ricorrente avrebbe necessariamente dovuto attendere il giudicato, noto essendo che le sentenze di mero accertamento, così come quelle costitutive, non sono idonee, con riferimento all’art. 282 cod. proc. civ., ad avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, atteso che la citata norma, nel prevedere la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado, intende necessariamente riferirsi soltanto alle pronunce di condanna suscettibili di esecuzione secondo i procedimenti disciplinati dal terzo libro del codice di rito civile (cfr. Cass. n. 25743/13; Cass. n. 7369/09).

Pertanto, entrambi i capi dell’alternativa di cui sopra esporrebbero il lavoratore ad una lesione dei propri diritti costituzionali sanciti dall’art. 24, comma 1 e art. 36, comma 1.

Nè si dica che il lavoratore avrebbe dovuto azionare con un unico atto tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro, poichè ciò significherebbe tornare a quella ipotesi che la citata sentenza n. 4090/17 delle S.U. espressamente esclude come doverosa, sottolineando anzi – i rischi (per i diritti di difesa di entrambe le parti e per la concreta gestibilità istruttoria della lite) d’un unico processo monstre.

Nè nella vicenda in discorso soccorre la regola per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, poichè essa non amplia i limiti oggettivi del giudicato, ma sta semplicemente a significare che il risultato d’un primo processo conclusosi con sentenza passata in giudicato non potrà essere rimesso in discussione (nel senso di essere sminuito o disconosciuto) deducendo in un secondo giudizio questioni – di diritto o di fatto, rilevabili d’ufficio o solo su eccezione di parte, di rito o di merito – rilevanti ai fini dell’oggetto del primo giudicato e che sono state proposte (dedotto) o che si sarebbero potute proporre (deducibile) nel corso del primo giudizio (il che non era nella vicenda in esame, visto che il separato processo sulla superiore qualifica era già pendente).

In altre parole, la regola per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile serve solo a rendere intangibile l’attribuzione del bene della vita contenuta nella sentenza passata in cosa giudicata.

Da ultimo, riguardo al solo credito per indennità sostitutiva del preavviso (per il quale il ricorrente aveva chiesto e ottenuto decreto ingiuntivo), va aggiunto che il decreto emesso ex art. 633 cod. proc. civ. e non opposto non è vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto (cfr. Cass. n. 6543/14; Cass. n. 23918/10; Cass. n. 18205/08; Cass. n. 24373/06; Cass. n. 4510/06).

Infatti, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 6543/14; Cass. n. 23918/10), il provvedimento giurisdizionale di merito, anche quando sia passato in giudicato, non è vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto, se da esso non sia dato ricavare le ragioni della decisione ed i principi di diritto che ne costituiscono il fondamento.

3.1. In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà pronunciarsi sul merito delle domande proposte da M.C..

PQM

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2017

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