Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28962 del 27/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 27/12/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 27/12/2011), n.28962

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18176-2007 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato MARCHETTI ALBERTO,

rappresentato e difeso dagli avvocati JARIA CARMELO, CANTISANI

DANIELA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – DIREZIONE GENERALE DELLE ENTRATE DELLA

SICILIA, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 102/2007 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 20/02/2007 R.G.N. 902/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato IARIA CARMELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO GIANFRANCO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G. ha convenuto in giudizio l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale Sicilia (nonchè la Direzione Centrale, la sede di Messina e quella di Milazzo della stessa Agenzia) per sentirle condannare al risarcimento dei danni (biologico, esistenziale, alla professionalità e morale) subiti a causa del comportamento vessatorio che l’Amministrazione aveva sistematicamente tenuto nei suoi confronti nel corso del rapporto di lavoro svoltosi presso le Agenzie di Messina e di Milazzo con mansioni di Capo Reparto dell’Ufficio IVA e, successivamente, di responsabile del settore analisi e ricerche, tanto da costringerlo ad una prolungata assenza per malattia e, infine, alle dimissioni dal lavoro.

Il Tribunale ha rigettato la domanda con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello di Messina, che ha ritenuto che nei comportamenti denunciati dal ricorrente non fossero rinvenibili gli elementi di una condotta protratta nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (cd.

“mobbing”).

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione C.G. affidandosi a quattro motivi di ricorso cui resistono con controricorso le Amministrazioni intimate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2, e degli artt. 1176, 1218, 1223, 1225, 1228, 2049, 2055, 2043, 2087 e 2697 c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire se nel pubblico impiego le condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del “mobbing” costituiscano un inadempimento contrattuale degli obblighi in capo al datore di lavoro previsti dall’art. 2087 c.c., su cui si fonda la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e/o non patrimoniali subiti dal lavoratore; se spetta al lavoratore-creditore l’onere di allegare l’inadempimento del datore di lavoro e di documentarne i fatti costitutivi, mentre grava su quest’ultimo l’onere di dimostrare di aver tutelato l’integrità psicofisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrando anche di non averlo demansionato o dequalificato tramite la sottrazione qualitativo-quantitativa di sfere di competenza e relative funzioni documentando, in tale ottica, i lavori resi dal lavoratore e/o dimostrando per converso la pienezza della prestazione resa; se il lavoratore che agisce nei confronti del proprio datore di lavoro-pubblica amministrazione per la richiesta di risarcimento danni all’integrità psicofisica derivanti da condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del “mobbing”, sia esonerato dal dover anche offrire la prova del “fumus persecutionis”, inteso come volontà e coscienza specifica di nuocere e svilire.

2.- Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione su più punti decisivi della controversia, attinenti ai vari comportamenti vessatori asseritamente posti in essere dall’Amministrazione nei confronti del ricorrente.

3.- Con il terzo motivo si lamenta violazione degli artt. 115, 420, 421, 414, 416 e 437 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente al mancato esercizio dei poteri d’ufficio del giudice del lavoro e al mancato accoglimento, senza adeguata motivazione, delle istanze istruttorie avanzate dal ricorrente, chiedendo a questa Corte di stabilire se il giudice del lavoro ha il dovere di esplicitare in maniera congrua e logica i motivi per cui ha disatteso le richieste di mezzi istruttori nonostante la specifica richiesta di una delle parti.

4.- Con il quarto motivo si deduce la violazione degli artt. 2700 e 2729 c.c., degli artt. 115, 116, 420, 421, 414, 416 e 437 c.p.c. e del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, nonchè vizio di motivazione in ordine al rigetto dell’istanza di ammissione della c.t.u. medico- legale.

5.- I primi due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati. Come questa Corte ha già precisato (cfr. Cass. n. 3785/2009), per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta bel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (nello stesso senso, vedi Cass. n. 22858/2008). La domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per il mobbing subito è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi (Cass. n. 19053/2005). Cass. 6 marzo 2006, n. 4774 ha poi ritenuto che l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (cd. mobbing) – che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.

6.- Non si è discostata da tali criteri la Corte territoriale che, nella motivazione della sentenza, ha preso in esame l’insieme dei comportamenti del datore di lavoro dedotti come lesivi dal ricorrente, escludendone ogni intento persecutorio o emulativo, e così l’esistenza di un disegno di carattere vessatorio o diretto ad emarginare o discriminare il C., da parte dell’Amministrazione o del dirigente della Agenzia di Messina. Ha osservato, al riguardo, il giudice d’appello che “nessuna ratio unificatrice lega gli eventi addebitati all’Amministrazione, che non costituiscono azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato diretto ad emarginare il C., e non vi sono circostanze che consentono di ritenere esistente l’elemento soggettivo costituito dalla specifica intenzione di discriminare e vessare il lavoratore esercitando nei suoi confronti una violenza morale”. Nessun intento persecutorio era riscontrabile nel comportamento del dirigente dell’Agenzia di Messina, che “nell’intento di realizzare una maggiore produttività dell’ora soppresso Ufficio IVA, riorganizzava il servizio attribuendo ad altro funzionario le funzioni da questo svolte e sostituiva il C., il quale non subiva alcun demansionamento”. Anche le sanzioni irrogate, secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, “hanno trovato corretta giustificazione nella documentazione in atti e, lungi da essere motivate da un intento persecutorio, trovano motivazione nel doveroso controllo del superiore rispetto a comportamenti che avevano assunto caratteristiche dilatorie e contrari agli scopi d’ufficio”. La conflittualità nelle relazioni di lavoro non trovava neppur essa origine in comportamenti vessatori od ostili dell’Amministrazione, dovendo invece farsi risalire agli stessi atteggiamenti assunti dal C., che riteneva di “non dover rendere conto nè in ordine alle proprie scelte nè in ordine ai comportamenti e ai ritardi rispetto agli ordine impartiti dal direttore”. Quanto alla valutazione attribuita al ricorrente nella graduatoria relativa ad una procedura per il conseguimento di una posizione economica “super”, il giudice d’appello ha evidenziato che il punteggio attribuito al C. trovava rispondenza nei criteri indicati dall’Amministrazione con riferimento agli intervenuti accordi sindacali ed era addirittura superiore a quello che era stato indicato dal lavoratore.

A fronte di una sentenza così motivata, le argomentazioni svolte dal ricorrente (in particolare, con il primo motivo) in ordine alla configurabilità di una responsabilità contrattuale a carico del datore di lavoro per i danni derivati al lavoratore a seguito della violazione degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. – e delle conseguenze che ne deriverebbero in ordine alla ripartizione degli oneri probatori a carico del lavoratore e del datore di lavoro, ex art. 2697 c.c., per quanto riguarda in particolare la prova dell’elemento soggettivo della condotta posta in essere dal datore di lavoro – si palesano come inconferenti perchè non tengono conto della valutazione operata nel caso concreto dalla Corte territoriale, che, come sopra evidenziato, ha escluso anzitutto l’esistenza di comportamenti dell’Amministrazione aventi oggettivamente carattere vessatorio o persecutorio nei confronti del dipendente, ovvero l’esistenza di “azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato diretto ad emarginare il C.”, escludendo così che fosse stata raggiunta sia la prova della “natura discriminatoria e persecutoria dei comportamenti adottati nei confronti del C.”, sia quella “dell’intento di nuocere e svilire il lavoratore”.

Si tratta di una valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile nel giudizio di cassazione in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; anche perchè il ricorrente non ha riportato in ricorso, come era suo onere per il principio di autosufficienza, il contenuto dei documenti dei quali assume essere stato omesso ogni esame (vedi pagg. 40-45 del ricorso per cassazione) e che, secondo l’assunto, avrebbero potuto orientare la decisione in senso diverso, sicchè le censure di insufficiente motivazione (espresse con il secondo motivo) – al di là della loro corretta impostazione in diritto circa la definizione dei comportamenti che possono integrare in astratto la fattispecie del mobbing – rimangono poi confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest’ultima. Deve ribadirsi, al riguardo, che, come è stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009, Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n. 7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n. 17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n. 16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n. 13045/97, Cass. n. 3205/95).

Nella specie, va ribadito che la valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice d’appello è congruamente motivata e l’iter logico argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Per contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento del materiale probatorio e delle circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del ricorrente, traducendosi nella richiesta di una nuova valutazione del merito dell’intera vicenda processuale, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

1 – Il terzo motivo deve ritenersi inammissibile sia per la genericità del quesito di diritto formulato a chiusura delle censure espresse con lo stesso motivo (“dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione adita se il giudice del lavoro, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 115, 420, 421, 414, 416 e 437 c.p.c., ha il dovere a pena di illegittimità della sentenza di esplicitare in maniera congrua e logica i motivi per cui ha disatteso le richieste di mezzi istruttori, nonostante la specifica richiesta di una delle parti”) sia perchè ancora una volta, con ulteriore violazione del principio di autosufficienza, non viene riportato nel ricorso il contenuto delle istanze istruttorie, ed in particolare dei capitoli di prova testimoniale, di cui si lamenta l’omessa ammissione (cfr. ex plurimis sullo specifico punto Cass. n. 17606/2007, Cass. n. 17043/2007, Cass. n. 6440/2007).

8.- Il quarto motivo, con il quale si contesta la mancata ammissione della consulenza tecnica d’ufficio richiesta al fine di accertare l’esistenza del danno biologico lamentato dal ricorrente, è assorbito dal rigetto degli altri motivi.

9.- In conclusione, il ricorso deve essere respinto con la conferma della sentenza impugnata.

10.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2011

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