Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28950 del 17/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/12/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 17/12/2020), n.28950

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11318/2015 R.G. proposto da:

IL DIADEMA INTERNATIONAL s.r.l. in persona del suo legale

rappresentante pro tempore e da I.D. in proprio,

rappresentati e difesi entrambi giusta delega in atti dagli avvocati

Valerio Di Stasio (PEC distasio.pec.studiodistasio.it) e Maria

Giovanna Icolaro (PEC icolaro.pec.studiodistasio.it) con domicilio

eletto presso l’avv. Francesco Massini in Roma alla via Crescenzio

n. 2;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato (PEC

ags.rm.mailcert.avvocaturastato.it);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Molise

n. 240/02/14 depositata il 23/10/2014 non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

22/07/2020 dal Consigliere Roberto Succio;

Lette le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto

Procuratore Generale Giacalone Giovanni che ha chiesto il rigetto

del ricorso.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure ha rigettato sia l’appello principale dell’Ufficio, sia l’appello incidentale del contribuente e conseguentemente confermato la sentenza della CTP che aveva parzialmente annullato gli avvisi di accertamento impugnati, per IVA, IRES ed IRAP riferiti agli anni 2005, 2006, 2007 quanto alla società IL DIADEMA INTERNATIONAL s.r.l. e quanto al sig. I.D. per IRPEF e conseguenti addizionali riferiti agli anni 2005, 2006, 2007;

– avverso la sentenza di seconde cure propongono congiuntamente ricorso per cassazione sia la società ridetta, sia il sig. I. prefato, ciascuno con riferimento agli atti impositivi notificatigli, con atto affidato a due motivi e illustrato da memoria; l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo di ricorso censura la gravata sentenza per violazione e falsa applicazione del principio di cui all’art. 2697 c.c., e agli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sotto un primo profilo per avere la CTR molisana da un lato esclusa la qualità di evasore totale in capo alla IL DIADEMA INTERNATIONAL s.r.l., dall’altro ritenuto parzialmente legittimi gli avvisi di accertamento impugnati;

– il motivo è, sotto questo primo profilo, inammissibile;

– la sussistenza o meno della qualifica di “evasore totale” in capo alla società ricorrente non costituisce invero ratio decidendi della pronuncia impugnata, che si fonda invece sulle risultanze delle indagini finanziarie; fermo restando peraltro che è evidente che indipendentemente dalla tenuta delle scritture contabili, che è attività logicamente, giuridicamente e cronologicamente precedente e funzionale alla sua redazione – la presentazione della dichiarazione reddituale ed IVA non perfezionatasi nei termini, neppure tardivamente, sussistendone l’obbligo come in questo caso, e quindi la sua omissione, ha come conseguenza il mancato versamento delle imposte e la sottrazione del contribuente ai propri obblighi; di qui la qualificazione dello stesso, sia pur con termine atecnico, quale “evasore totale”;

– sotto un secondo profilo, poi, il motivo denuncia l’omesso esame degli elementi probatori offerti dal ricorrente, censurando la pronuncia di seconde cure in quanto la stessa si sarebbe limitata al solo esame delle singole movimentazioni del conto corrente bancario oggetto del controllo, intestato al sig. I.D., del quale si sarebbe da parte dei contribuenti dimostrata la non riferibilità alla società;

– sotto questo profilo, il motivo è sia inammissibile, sia infondato;

– invero, quanto alla ragiona della sua inammissibilità, esso è articolato nel concreto in modo tale da sollecitare questa Corte a un riesame delle circostanze di merito, operazione che in questa sede di legittimità è ovviamente preclusa;

– secondariamente, nel riproporre le doglianze di merito oggetto dei precedenti gradi di giudizio, e segnatamente nel denunciare il mancato esame da parte del giudice dell’appello della sentenza n. 611-12 del Tribunale di Campobasso che ha definito la vicenda penale con sentenza assolutoria per il sig. I. e per il sig. R., soci della IL DIADEMA INTERNATIONAL s.r.l., il motivo costituisce in realtà ulteriore doglianza – nella sostanza – di tipo motivazionale;

– tale censura risulta non più ammessa poichè la sentenza gravata è depositata successivamente all’11. settembre 2012;

– trova infatti qui applicazione quanto ai motivi di ricorso e ai vizi deducibili per cassazione, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, cosiddetto “Decreto Sviluppo”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 26 giugno 2012, n. 147, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 11 agosto 2012, n. 187); tal disposizione, per l’appunto applicabile alle sentenze pubblicata a partire dall’11 settembre 2012, quindi anche alla pronuncia qui gravata, consente di adire la Suprema Corte per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

– conseguentemente, poichè formulata in concreto con riferimento al previgente testo del n. 5 di cui sopra, la censura avente per oggetto il difetto di motivazione non è consentita a deve esser dichiarata inammissibile;

– in ogni caso, (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2153 del 30/01/2020), poi, va ulteriormente osservato come non ricorra in questo caso neppure il vizio di omessa pronuncia (anche a voler così riqualificare il vizio denunciato in concreto nel motivo in esame); quando la motivazione accolga una tesi incompatibile con quella prospettata, implicandone il rigetto, come è qui accaduto, va considerata corretta la motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi;

– il secondo motivo di ricorso si appunta sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e dell’art. 113 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR dichiarato legittimi gli atti impugnati anche se fondati su meccanismi probatori costituenti “doppia presunzione” e quindi non ammessi e non probanti le maggiori imposte;

– il motivo è privo di fondamento;

– l’accertamento fondato su indagini finanziarie, infatti, come questa Corte ha già ritenuto (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15003 del 16/06/2017) ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, prevede l’onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui conti correnti intestati a soggetti per i quali è fondatamente ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a sua disposizione; esso non viola il principio “praesumptum de praesumpto non admittitur” (o “divieto di doppie presunzioni” o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) sia perchè tale principio non appare direttamente riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c., in quanto fondato ab initio su fatti certi (le movimentazioni finanziarie) ma soprattutto perchè, anche qualora lo si volesse considerare esistente, esso atterrebbe esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un’altra presunzione semplice, ma non con una presunzione legale, quale è la disponibilità di maggiori redditi derivante da movimentazione bancaria – salva in ogni caso la prova contraria da parte del contribuente – sicchè non ricorre nel caso di specie (in termini anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 20748 del 01/08/2019);

– infatti, nel presente caso, nel quale il soggetto sottoposto ad accertamento è una società di capitali a ristretta base societaria (partecipata da due soli soci) va fatta applicazione della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale è ammissibile la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale (Cass. 15824/16; Cass. 25271/14, Cass. 24572/14; Cass. Sez. 6, 1947/2019);

– con riguardo infine a entrambi i motivi, in diritto va anche ricordato che questa Corte ha costantemente ritenuto (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 374 del 12/01/2009; Sez. 5, Sentenza n. 5849 del 13/04/2012) che in tema di infedeltà della dichiarazione IVA, derivante dall’omessa annotazione di operazioni imponibili ed omessa fatturazione, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, consente di procedere all’accertamento anche mediante il controllo di dati e notizie raccolti nei modi indicati dal precedente art. 51, incluse, quindi, le indagini bancarie, previste dal n. 7, di tale norma, le quali possono riguardare anche conti e depositi intestati a terzi, inclusi i familiari del socio (nella specie la moglie), quando l’ufficio abbia motivo di ritenere, in base agli elementi indiziari raccolti, che gli stessi siano stati utilizzati per occultare operazioni commerciali, ovvero per imbastire una vera e propria gestione extra-contabile, a scopo di evasione fiscale. In questi casi, la presunzione di operazioni commerciali non registrate, discendente dalla riscontrata movimentazione di somme su conti formalmente intestati a terzi, non è qualificabile come (inammissibile) presunzione di doppio grado, poichè è il citato D.P.R., art. 51, comma 2, n. 2), a prevedere che i singoli dati ed elementi risultanti dall’indagine bancaria debbono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili;

– ne deriva che l’accesso ai conti intestati formalmente a terzi, ove la verifica sia finalizzata a provare per presunzioni la condotta evasiva e la riferibilità alla società contribuente delle somme movimentate sui conti intestati ai soci, o anche ai loro congiunti, ben può, invero, essere giustificata da alcuni elementi sintomatici come il rapporto di stretta contiguità familiare, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta, l’infedeltà della dichiarazione e l’attività di impresa compatibile con la produzione di utili, incombendo in ogni caso sulla società contribuente la prova che le ingenti somme rinvenute sui conti dei soci o dei loro familiari non siano ad essa riferibili (tra le molte, Cass. 374/2009; 26173/2011; 5849/2012; 20668/2014; 26829/2014). E non può certo dubitarsi, al riguardo, del fatto che un elemento fortemente presuntivo sia costituito proprio dall’essere la società di capitali, sottoposta a verifica, connotata – come nella fattispecie in esame è dato desumere dagli atti del giudizio – da una ristretta compagine sociale. In tal caso, infatti, per intuibili ragioni, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci, e perfino dei loro familiari, debbano – in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario – ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (si vedano Cass. 18083/2010; 12624/2012; 12625/2012; 26829/2014);

– quanto poi alle conseguenze per i soci della società a ristretta base azionaria, è egualmente costante l’orientamento di questa Corte nel ritenere (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15824 del 29/07/2016; Sez. 5, Sentenza n. 24534 del 18/10/2017; Sez. 5, Sentenza n. 27778 del 22/11/2017; Sez. 5, Ordinanza n. 32959 del 20/12/2018) che in tal caso ove siano accertati utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti, o hanno avuta sorte diversa;

– conseguentemente, il ricorso è rigettato;

– quanto alle spese, non vi è luogo a condanna alla rifusione nei confronti del ricorrente, poichè il controricorso – anche tenuto conto della ripresa del procedimento notificatorio (in forza di Cass. Sez. U, Sentenza n. 14594 del 15/07/2016) – risulta comunque tardivo e pertanto inammissibile;

– invero parte controricorrente ha avuto notizia del mancato perfezionamento della notifica in data 5/6/2015 e ha dato nuovo impulso al procedimento in data 1/07/15, quindi oltre il termine di giorni 30 dall’avvenuta conoscenza della mancata notifica; di qui l’inammissibilità dell’atto;

– va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato per atti giudiziari.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2020

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