Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28943 del 04/12/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 04/12/2017, (ud. 10/10/2017, dep.04/12/2017),  n. 28943

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – La Cassa di Risparmio di Alessandria s.p.a. chiedeva e otteneva nei confronti di Scalia Engineering s.r.l., quale debitrice principale, e di L.G.A., S.M. e S.S., quali fideiussori, un decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 198.779,68, oltre interessi, in relazione ad alcuni rapporti bancari in sofferenza.

Gli intimati proponevano opposizione che il Tribunale di Alessandria respingeva.

2. – Il gravame proposto contro la sentenza di prime cure era respinto dalla Corte di appello con pronuncia resa il 29 settembre 2015.

3. – La società e i nominati fideiussori ricorrono ora per cassazione, facendo valere tre motivi di impugnazione. Resiste con controricorso la Banca Popolare di Milano soc. coop. a r.l, già Cassa di Risparmio di Alessandria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per asserita mancata contestazione, da parte di Scalia Engineering, dell’entità complessiva del debito nei confronti della banca. Viene in particolare censurata l’affermazione della sentenza di appello secondo cui non era stata mai in contestazione l’entità complessiva del debito della suddetta società nei confronti della Cassa di Risparmio di Alessandria. Deducono in proposito i ricorrenti di aver sempre contestato l’ammontare globale del credito azionato da controparte.

Il motivo non è fondato.

Il fatto che gli odierni ricorrenti, nel proprio atto d’appello, avessero affermato che il credito oggetto di ingiunzione non era rappresentato da insolvenze della società, risultando piuttosto “unilateralmente creato in forza della lettera 2.3.2007 di revoca dei quattro rapporti”, non implica che nella circostanza fosse stata contestata l’entità dell’esposizione debitoria maturata per effetto della suddetta revoca (pari al complessivo ammontare delle somme erogate dalla banca in esecuzione dei contratti di apertura di credito e di finanziamento, maggiorate degli interessi), quanto, semmai, la legittimità della revoca stessa.

Se è vero, poi, che gli appellanti avevano eccepito l’avvenuto versamento di Euro 23.200,00, è altrettanto vero che il giudice distrettuale non ha omesso di prendere in considerazione tale deduzione, ma ha sottolineato che il pagamento non poteva essere imputato alle rate dei finanziamenti, rispetto alle quali esso non aveva alcuna attinenza (cfr. sentenza, pag. 10). Si tratta, come è evidente, di un rilievo che, oltre a fondarsi su di un accertamento di fatto, non sindacabile nella presente sede, è chiaramente incompatibile con la valorizzazione, da parte della Corte del merito, di una condotta di non contestazione (dal momento che, diversamente, il giudice distrettuale non avrebbe scrutinato la questione relativa alla imputazione della detta rimessa).

E’ inoltre da segnalare che la stessa Corte di appello, nel precisare (a pag. 8 della sentenza) che l’importo di 38.462,72 costituiva il “capitale residuo” di uno dei due contratti di finanziamento, ha inteso porre in luce che quell’importo era dovuto in ragione della decadenza dell’obbligato dal beneficio del termine (avendo essa Corte rammentato, come si è visto, che la banca aveva provveduto alla “revoca di tutti gli affidamenti e finanziamenti”). L’affermazione di non contestazione, anche in questo caso, si riferisce, senza dubbio, all’ammontare dell’importo in questione (che infatti i ricorrenti non deducono sia stato confutato nel quantum), non alla sua spettanza, che non era infatti pacifica, essendo controverso proprio l’esercizio del recesso dell’istituto di credito dai diversi rapporti di affidamento e finanziamento intrattenuti con la società Scalia Engineering.

2. – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione agli artt. 1845, 1816 e 1844, con riguardo alla negata arbitrarietà del comportamento della banca nell’esercizio di recesso. Assumono in sostanza gli istanti che la banca, alla luce dei principi di correttezza e buona fede, avrebbe dovuto salvaguardare l’interesse della controparte, a prescindere dalle specifiche prescrizioni contrattuali in deroga alla disciplina di cui agli artt. 1816,1844 e 1845 c.c..

Il motivo deve essere disatteso.

Esso è anzitutto carente di autosufficienza, in quanto i ricorrenti non riproducono, nel corpo del ricorso, il preciso contenuto delle clausole cui fanno riferimento.

Proprio con riguardo alla disciplina convenzionale del recesso le ricorrenti censurano, nel motivo, l’affermazione della Corte di merito secondo cui la pattuizione contrattuale che prevedeva detta facoltà era applicabile anche ai contratti a tempo determinato, assumendo, in contrario, che doveva aversi riguardo alla “diversa incidenza che la percezione della durata di un contratto può esercitare sul comportamento delle parti”. In tal modo, però, esse formulano una censura sull’interpretazione della clausola che, oltre a scontare il difetto di autosufficienza di cui si è detto, non si misura con il principio per cui l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito, che è censurabile in sede di legittimità facendo esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai canoni in esse contenuti e precisando, inoltre, in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai principi legali assunti come violati o li abbia applicati in modo illogico, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381).

Va poi evidenziato che la questione del rispetto, da parte della banca, dei nominati principi di correttezza e buona fede è stata ampiamente esaminata dalla Corte di appello (pagg. da 9 a 12 della sentenza) che sul punto ha reso un accertamento insuscettibile di censura avanti a questa Corte di legittimità. Come è noto, infatti, è rimesso al giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (ex plurimis: Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921).

3. – Col terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1957 c.c. in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c., riguardo ai principi generali in materia di decadenza e correttezza nei rapporti giuridici tra privati. A fronte della affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui l’art. 1957 c.c. è norma dispositiva, che era stata espressamente derogata nel caso di specie per i tre fideiussori, viene osservato che la inderogabilità della norma in questione non era illimitata e che, in particolare, la clausola contrattuale doveva ritenersi nulla in quanto contrastava con l’accessorietà dell’obbligazione di garanzia: in altri termini il giudice del merito aveva implicitamente negato la specifica funzione che, nella fattispecie, l’istituto della decadenza, assolve.

Nemmeno tale motivo merita accoglimento.

Detto che gli artt. 1175 e 1375 c.c. sono invocati a sproposito, giacchè tali norme operano nella fase attuativa del rapporto (rispettivamente obbligatorio e contrattuale), mentre nella fattispecie si fa questione della nullità di una pattuizione – e quindi del momento genetico del negozio -, la Corte, in assenza di ragioni che persuadano del contrario, non può che ribadire la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui la decadenza del creditore dal diritto di pretendere l’adempimento dell’obbligazione fideiussoria, sancita dall’art. 1957 c.c. per effetto della mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale, può essere preventivamente rinunciata dal fideiussore, trattandosi di pattuizione rimessa alla disponibilità delle parti che non urta contro alcun principio di ordine pubblico, comportando soltanto l’assunzione, per il garante, del maggior rischio inerente al mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore (per tutte: Cass. 24 settembre 2013, n. 21867; Cass. 18 aprile 2007, n. 9245).

4. – Il ricorso è dunque respinto, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, trovando applicazione il principio di soccombenza.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 10 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2017

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