Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28930 del 12/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 12/11/2018, (ud. 19/07/2018, dep. 12/11/2018), n.28930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1440/2016 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, V. PANAMA 74, presso

lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che lo rappresenta

e difende;

– ricorrenti –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

EUROPA 190, (AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO DI POSTE ITALIANE),

rappresentata e difesa dell’avvocato ROSSANA CLAVELLI, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3174/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/07/2015 R.G.N. r.g.n. 2310/2014.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 6 luglio 2015, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello proposto da M.M. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto tutte le domande (in particolare, per quanto ancora qui rileva: di accertamento della nullità del termine apposto ai contratti stipulati con Poste Italiane s.p.a., ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, per i periodi dal 3 settembre al 31 ottobre 2007, dal 1 febbraio al 31 marzo 2008, dal 1 febbraio al 31 marzo 2009, dal 1 gennaio al 31 marzo 2010, con i conseguenti provvedimenti di conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato e di condanna alla riammissione in servizio e al risarcimento del danno; di accertamento di illegittimità del licenziamento intimatole il 4 novembre 2011 per illegittimità del patto di prova apposto al contratto di lavoro tra le parti del 5 luglio 2010, con le conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria);

che avverso tale sentenza la lavoratrice ricorreva per cassazione con dieci motivi, mentre Poste Italiane s.p.a. resisteva con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2096,1362 e segg., art. 2110 c.c., comma 2, art. 19(patto di prova) e art. 41 (periodo di comporto) del ccnl del 15 aprile 2015 dipendenti Poste 2010-2012, L. n. 300 del 1970, art. 18, art. 1419 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 6,artt. 112,115,116 c.p.c., art. 2697 c.c., per illegittima apposizione del patto di prova al contratto di lavoro a tempo indeterminato avente ad oggetto mansioni identiche (portalettere junior) a quelle svolte nei precedenti (cinque) contratti a termine stipulati con Poste Italiane s.p.a., che già aveva sperimentato le qualità professionali, il comportamento e la personalità della lavoratrice in relazione alla prestazione richiesta, senza necessità di ulteriore verifica, in violazione anche del principio di non discriminazione tra lavoratore a tempo determinato e a tempo indeterminato: pertanto in difetto di causa del suddetto patto, in ogni caso da intendersi soddisfatto dal superamento della prova tecnica di guida dell’automezzo (primo motivo); omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, anche in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 6,artt. 112,115,116 c.p.c., artt. 1362 e seegg., art. 2110 c.c., comma 2, art. 19 (patto di prova) e art. 41 (periodo di comporto) del ccnl del 15 aprile 2015 dipendenti Poste 2010-2012, L. n. 300 del 1970, art. 18 e art. 1419 c.c., per mancata considerazione di circostanze deponenti per l’inesistenza di esigenze di ulteriore sperimentazione dell’affidabilità professionale della lavoratrice, già apprezzata nei pregressi rapporti a tempo determinato per le medesime mansioni, sull’errato presupposto delle maggiori responsabilità comportate da un rapporto a tempo indeterminato (secondo motivo); violazione degli artt. 112,115,116 c.p.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c., artt. 420,421 c.p.c., in relazione all’art. 2096 c.c., art. 19 ccnl di settore, artt. 2727, 2728, 2729 c.c., per la mancata ammissione di prove orali dedotte sul mancato affiancamento della lavoratrice durante il periodo di prova, neppure disposto nei precedenti contratti a termine e risultando pertanto la predetta idonea alle mansioni, in assenza di alcuna deduzione in ordine a mutamenti organizzativi comportanti la trasformazione delle mansioni già svolte, giustificanti la necessità di un periodo di prova (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg., artt. 1336,1337,1338,2697 c.c., artt. 437,420 c.p.c., per la previsione, nell’accordo sindacale del 13 gennaio 2006 e nell’adesione ad esso della lavoratrice con la transazione del 27 giugno 2006, dell’inserimento della lavoratrice nella graduatoria nazionale in funzione della sua assunzione a condizioni diverse da quelle poi verificatesi (part time anzichè full time), in località diversa da quella del contratto originariamente stipulato nell’anno 2000, senza neppure ammissione delle prove orali dedotte (quarto motivo); nullità della sentenza o del procedimento, per omessa pronuncia sulle domande subordinate, presumibilmente ritenute assorbite dalla ravvisata legittimità del recesso (quinto motivo); omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, anche in relazione alla violazione degli artt. 112,115,116 c.p.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c., degli artt. 420,421c.p.c., in relazione all’art. 2096 c.c., art. 19 ccnl di settore, artt. 2727, 2728, 2729 c.c., per la mancata considerazione di più fatti processuali già censurati sull’inconfigurabilità di un esito negativo della prova, in quanto neppure integrata per mancato affiancamento della lavoratrice in mansioni peraltro già in precedenza svolte (senza alcun affiancamento) e per cui dimostratasi idonea (sesto motivo); violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, art. 2697 c.c., art. 416 c.p.c., artt. 2719,2697,2699 c.c., artt. 115,116 c.p.c., per difetto di prova del rispetto della clausola di contingentamento, per inidoneità della documentazione prodotta da Poste Italiane, siccome di provenienza unilaterale, nè debitamente asseverata dagli uffici pubblici competenti a conferirle autenticità, con erroneo computo sull’intero personale aziendale e non sul solo addetto ai servizi postali (settimo motivo); omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in riferimento alle censure formulate in ordine alla inidoneità della documentazione datoriale in merito alla dimostrazione del rispetto della clausola di contingentamento (ottavo motivo); violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, anche in relazione al art. 1 D.Lgs. cit., D.Lgs. n. 261 del 1999, artt. 1, 3, 23,artt. 2082,2555 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993, D.Lgs. n. 58 del 1998 e D.P.R. n. 144 del 2001, artt. 1362 c.c. e segg., in relazione al D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 3, art. 2, comma 1 bis D.Lgs. cit., anche in relazione agli artt. 115,116 c.p.c., art. 2699 c.c., per erroneo computo della percentuale del 15% del personale a tempo determinato sull’intero personale, aziendale assunto a tempo indeterminato e non sul solo addetto ai servizi postali (nono motivo); omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, in riferimento all’organico aziendale da prendere in considerazione per il calcolo delle assunzioni a termine ai fini del rispetto della clausola di contingentamento, oggetto di espressa contestazione della lavoratrice e non adeguatamente dimostrata dalla società datrice per inidoneità della documentazione prodotta (decimo motivo);

che il collegio ritiene che i primi tre motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione, siano infondati;

che occorre premettere che, nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicchè è illegittimamente stipulato ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo: con la conseguenza dell’ammissibilità della ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti solo se, in base all’apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (Cass. 29 luglio 2005, n. 15960; Cass. 30 luglio 2009, n. 17767; Cass. 22 giugno 2012, n. 10440; Cass. 17 luglio 2015, n. 15059);

che in applicazione dei suenunciati principi di diritto, la Corte territoriale ha escluso, così come già il Tribunale, l’illegittimità dell’apposizione del patto di prova al contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia pure successivo ai contratti a termine stipulati tra le parti (per i periodi dal 3 settembre al 31 ottobre 2007, dal 1 febbraio al 31 marzo 2008, dal 1 febbraio al 31 marzo 2009, dal 1 gennaio al 31 marzo 2010) aventi parimenti ad oggetto mansioni di recapito, per l’accertamento, congruamente argomentato, della diversità comportata dallo “stabile inserimento nell’organizzazione aziendale, con conseguente esigenza dell’imprenditore di potere pienamente utilizzare il dipendente in tutte le attività riconducibili alla qualifica di assunzione” con “evidente… diversità di tale situazione rispetto all’assunzione a termine dove le assunzioni sono disposte per pochi mesi e per sopperire ad esigenze transitorie” (così al primo capoverso di pg. 17 della sentenza);

che un tale accertamento si fonda anche sulla legittima previsione di una tale pattuizione in base al ccnl di settore, in assenza di un diritto soggettivo della lavoratrice ma solo di un inserimento in graduatoria, sulla base in particolare dell’adesione all’accordo nazionale del 13 gennaio 2006 e della sottoscrizione del verbale di conciliazione del 27 giugno 2006 (così dall’ultimo capoverso di pg. 15 al quinto di pg. 16 della sentenza);

che a fronte di un tale accertamento in fatto, in linea con la regola giuridica applicabile, risultano infondate le violazioni di legge e di norme collettive denunciate con il primo ed il terzo motivo, in difetto dei loro requisiti costitutivi (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984), attingendo le censure piuttosto il carattere di inammissibili contestazioni della valutazione operata nel merito dalla Corte territoriale, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694);

che neppure si configura, in riferimento al secondo motivo, omissione di esame di alcun fatto storico, tanto meno decisivo, per la pluralità di fatti censurati (di palese negazione ex se del requisito di decisività: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625), al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439);

che il quarto motivo è inammissibile;

che infatti non è sindacabile, in sede di legittimità, l’interpretazione degli accordi tra le parti, riservata in via esclusiva al giudice di merito, salvo il controllo in ordine alla violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ovvero all’esistenza di vizi di motivazione (Cass. 2 marzo 2004, n. 4261; Cass. 7 settembre 2005, n. 17817; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22889; Cass. 18 aprile 2008, n. 10218; Cass. 4 maggio 2009, n. 10232);

che non è pertanto censurabile dalla Corte di Cassazione il risultato interpretativo in sè, per la sua riserva esclusiva al giudice di merito, in quanto appartenente all’ambito dei giudizi di fatto: posto che il controllo di legittimità afferisce alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta (qui congruamente argomentata per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 15 al quarto di pg. 16); nè investe una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice di merito, con la conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale da questo operata, che in essa si traduca (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 18 novembre 2005, n. 24461);

che neppure è stato rispettato il principio, secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio del ragionamento interpretativo non possa limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. 28 luglio 2005, n. 15798; Cass. 15 novembre 2013, n. 25728): onere nel caso di specie non assolto;

che il quinto motivo è infondato;

che non sussiste il vizio di omessa pronuncia, prospettabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che, ritualmente e incondizionatamente proposta, richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto: dovendo invece essere escluso in relazione ad una questione esplicitamente o anche implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza (come anche espressamente dedotto dalla ricorrente), suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riproposta con specifica censura (Cass. 19 marzo 2004, n. 5562; Cass. 25 gennaio 2006, n. 1380; Cass. 20 febbraio 2015, n. 3417; Cass. 26 gennaio 2016, n. 1360);

che il sesto motivo è inammissibile;

che anche qui è inconfigurabile la denunciata omissione di esame, insussistente irì rifenmento ad alcun fatto storico, tanto meno decisivo, per la pluralità di fatti censurati (di palese negazione ex se del requisito di decisività: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625), al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439): trattandosi piuttosto di una contestazione della valutazione probatoria della Corte di merito;

che i residui motivi (dal settimo al decimo), congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione consistenti nella censura sotto i profili suindicati della clausola di contingentamento, sono in parte inammissibili e in parte infondati;

che la lavoratrice non ha confutato l’argomentazione, puntuale anche se succinta, della Corte territoriale (all’ultimo capoverso di pg. 13 della sentenza), comportante la genericità delle censure riguardanti l’inidoneità della documentazione probatoria a sostegno del rispetto della clausola di contingentamento: in violazione della prescrizione di specificità, a pena appunto di inammissibilità, dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che ne esige l’illustrazione, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 6 luglio 2007, n. 15952);

che per giunta la contestazione si basa sull’assunzione di un erroneo parametro di calcolo, per la corretta applicazione dei principi di diritto in ordine al riferimento esclusivo, per l’esatta determinazione della clausola di contingentamento, all’intero organico e non soltanto al personale addetto ai servizi postali: posto che, in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, si riferisce esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. “servizio universale” postale, ai sensi del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 1, comma 1, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore (Cass. 2 luglio 2015, n. 13609; Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374);

che deve infine essere ribadita l’inconfigurabilità della denunciata omissione di esame di alcun fatto storico, tanto meno decisivo, per la pluralità di fatti censurati (di palese negazione ex se del requisito di decisività: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625), al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), avendo la doglianza piuttosto il carattere di una (inammissibile) contestazione della valutazione probatoria della Corte di merito;

che pertanto il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio regolate secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

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