Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28928 del 08/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 08/11/2019), n.28928

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.M.F., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati ARISTIDE DE VIVO, MAURO LO PRESTI, PATRIZIA

TOTARO, GIUSEPPE MARZIALE;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DI STATO – SEGRETARIATO GENERALE DELLA GIUSTIZIA

AMMINISTRATIVA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso

i cui Uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N.

12;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7641/2017 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata

il 02/11/2017 R.G.N. 1640/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/06/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati GIUSEPPE MARZIALE, MAURO LO PRESTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città con la quale, decidendo in esito a reclamo ai sensi della c.d. Legge Fornero, era stata respinta l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dalla Commissione di disciplina del segretariato generale della giustizia amministrativa nei confronti di D.M.F., dirigente incaricato della direzione e segreteria generale, a lui affidate talora anche cumulativamente, presso le sedi Tar di Latina, Catania, Palermo, Salerno, Campobasso e, da ultimo, Napoli.

Al D.M. era stato contestato, in relazione al servizio svolto presso il Tar con sede in Salerno, di avere speso il nome dell’Amministrazione per finalità extraistituzionali e cioè per far ottenere al personale del Tribunale, ma anche a persone esterne, schede sim sulla base di convenzioni con società di telefonia dapprima Tim, poi Vodafone ed infine BT Mobile, con il fine precipuo di assicurare facilitazioni per l’acquisto dell’apparecchio di telefonia mobile da parte dei singoli utenti, al punto che la gran parte delle schede all’atto dell’attivazione erano rimaste custodite presso il Tar, a garanzia del non utilizzo. Ne erano tuttavia derivate richieste di pagamenti anche nei riguardi del Tar per costi di gestione o traffici di imputazione incerta.

2. La Corte territoriale riteneva infondata l’eccezione di decadenza dall’azione disciplinare per tardività nella contestazione e nella conclusione del procedimento sanzionatorio, ritenendo che la gravità della violazione imponesse l’applicazione dei termini raddoppiati, sicchè il procedimento doveva ritenersi tempestivamente condotto ed ultimato.

Da disattendere, sempre secondo la Corte territoriale, era anche l’eccezione di mutamento della contestazione, in quanto era privo di rilievo l’apprezzamento di una più intensa gravità dei fatti che, come tali, erano rimasti i medesimi.

Infine la Corte riteneva fondata la valutazione di proporzionalità del licenziamento, rimarcando come il D.M. avesse agito al di fuori della disciplina degli acquisiti da parte della P.A., attraverso convenzioni mai registrate, nè dal punto di vista amministrativo, nè dal punto di vista contabile, con gestione delle fatture intestate al Tar senza protocollazione e con pagamenti che venivano effettuati attraverso raccolta del denaro tra gli interessati, ad opera di alcuni dipendenti. Dovevano perciò ritenersi violati, da parte tra l’altro di un dirigente apicale, i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza nella conduzione della P.A., con anteposizione dell’interesse privato all’interesse dell’Amministrazione.

3. Il D.M. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti con controricorso dal Consiglio di Stato-Segretariato generale della giustizia amministrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente sostiene, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis nonchè dell’art. 112 c.p.c., affermando l’erroneità dell’assunto secondo cui non avrebbe effetto decadenziale la mancata comunicazione all’interessato dell’avvenuta trasmissione degli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (U.P.D.) e censurando altresì l’assunto della Corte territoriale in ordine al fatto che, applicandosi il raddoppio della durata riconnesso alla gravità della violazione, non vi sarebbe stato superamento del termine previsto per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento disciplinare e ciò sul presupposto che la sanzione da applicare sarebbe stata pacificamente contenibile nei dieci giorni oltre i quali il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 1, stabilisce tale raddoppio, anche perchè la contestazione non faceva alcun riferimento alla “gravità della sanzione da applicare”.

Il secondo motivo denuncia la violazione, sempre ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 7 sottolineando il mancato rispetto del divieto di mutamento dell’addebito, a dire del ricorrente realizzatosi per il fatto che la contestazione aveva fatto riferimento ad un comportamento rientrante nel disposto dell’art. 9, comma 8, lett. g, c.c.n.l. 2006-2009 (inerente i comportamenti dai quali sia derivato un grave danno all’Amministrazione o a terzi), sanzionato al massimo con la sospensione per sei mesi, mentre poi era stato irrogato il licenziamento, anche sulla base di ulteriori acquisizioni i cui fatti non erano stati contestati al lavoratore.

Con il terzo motivo il ricorrente afferma ex art. 360 c.p.c., n. 3 che la Corte partenopea avrebbe violato gli artt. 1455 e 2106 nonchè artt. 1362 ss. c.c., in relazione all’art. 9 c.c.n.l., oltre che la L. n. 183 del 2010, art. 30 per non avere considerato che il datore di lavoro aveva applicato una sanzione non prevista dal c.c.n.l. rispetto ai fatti oggetto di causa, anche tenuto conto dell’assenza di un danno patrimoniale effettivo.

2. I motivi, coinvolgendo diversi aspetti relativi al regime del procedimento disciplinare nel pubblico impiego e risultando tra loro comunque interconnessi, possono essere trattati congiuntamente.

2.1 La sentenza di appello individua il nucleo centrale della contestazione nell’avvenuta stipula di convenzioni di telefonia mobile “non necessarie e non rispondenti ad esigenze di servizio” e sulla completezza di tale addebito non vi è, in sè, questione.

Il ricorrente sostiene invece che sarebbe mancato il riferimento alla “gravità” dell’infrazione, ma non riporta nè i passaggi con cui tale specifico aspetto sarebbe stato sollecitato già nei gradi di merito, nè comunque spiega come possa tale assunto conciliarsi con il fatto che la contestazione si chiuda con il richiamo all’art. 9, comma 8, lett. g), che riguarda i comportamenti da cui sia derivato “grave” danno alla P.A. o a terzi.

Ed è evidente che la Corte territoriale, nel ritenere che il termine prescritto fosse quello di venti giorni dalla ricezione degli atti da parte del’U.P.D. e che esso fosse stato come tale rispettato, non può che aver presso le mosse del precetto sanzionatorio quale riportato nel corpo dell’atto di contestazione, inevitabilmente contemplando anche il rilievo di “gravità” del pregiudizio cagionato che è insito nella menzionata previsione.

Tali considerazioni individuano dunque la necessaria base fattuale dei ragionamenti giuridici consequenziali.

2.2 Deve in particolare ritenersi infondato l’assunto del ricorrente secondo cui, a determinare la competenza per il procedimento disciplinare e dunque anche il regime dei termini, che l’art. 55-bis – nel testo applicabile ratione temporis ed anteriore alla c.d. riforma Madia – distingue sulla base del trattarsi di sanzioni da applicare a cura del responsabile della struttura o dell’U.P.D., possa farsi riferimento alla misura entro cui, sulla base della contestazione, la misura finale sarebbe stata – si cita testualmente il termine utilizzato nel ricorso – “contenibile”.

La contestazione disciplinare, come si desume e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, commi 2 e 4 (e ora, dopo la c.d. riforma Madia comma 4) riguarda testualmente “l’addebito” e dunque i fatti suì quali si fonda la responsabilità disciplinare e non la sanzione.

D’altra parte, nel regolare la competenza,;a cui disciplina porta con sè quella relativa ai termini da osservare, la normativa, mentre, rispetto al Dirigente, fa un meno certo riferimento alla sanzione di cui è “prevista l’irrogazione” (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 1), sicchè la previsione potrebbe riguardare sia la misura edittale della sanzione, sia la sanzione che si ipotizzi in concreto di irrogare, nel disporre rispetto all’U.P.D., fa invece inequivocabile riferimento alle infrazioni “punibili” con sanzioni più gravi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 2, ora comma 4), così chiarendo senza possibilità di dubbio che il discrimine di competenza è fissato sulla base della misura edittale.

Pertanto, la competenza e la riconnessa disciplina sui termini si fissano sulla base dei margini edittali previsti dalla contrattazione collettiva per i comportamenti contestati, ivi comprese le ipotesi di maggiore gravità eventualmente previste e tenendosi conto della misura massima con cui tali fatti sono “punibili”.

Con il corollario che, se rispetto ai fatti contestati, la contrattazione collettiva non preveda una tassativa ipotesi sanzionatoria, ma essi abbiano pur sempre rilievo disciplinare e sia consentita dunque l’applicazione di ogni tipo di misura, essi sono da considerare “punibili” comunque con la sanzione più afflittiva, così che ne resta intercettata in ogni caso la competenza dell’U.P.D..

2.3 La conseguenza, rispetto al caso di specie, è che risulta sterile ogni riferimento alla misura entro cui sarebbe stata in ipotesi “contenibile” la sanzione per come ipotizzabile in sede di contestazione.

Al di là della dubbia fondatezza dell’assunto, ciò che è importa è che i fatti contestati erano riportabili all’ipotesi di cui all’art. 9, comma 8, lett. g) del pertinente c.c.n.l., per cui era stabilita una sanzione edittale i cui massimi rientravano entro la competenza dell’U.P.D. con susseguente applicazione dei termini di quaranta giorni (dalla ricezione della notizia) per la contestazione e di centoventi giorni (dall’acquisizione originaria della notizia) per la definizione del procedimento.

Poichè lo stesso ricorrente fa riferimento al 26 giugno 2014 quale data di acquisizione originaria della notizia disciplinare, al 1 luglio 2014 quale data di trasmissione di essa all’U.P.D., al 25 luglio come data della contestazione ed al 9 settembre 2014 come data di irrogazione della sanzione, va da sè che non vi è stata alcuna violazione di termini perentori.

2.4 Può altresì fissarsi il seguente principio: “I termini per lo svolgimento del procedimento disciplinare nel pubblico impiego, così come è per la distribuzione della competenza tra il responsabile della struttura e l’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis si definiscono sulla base dei fatti quali indicati nell’atto di contestazione e delle sanzioni per essi astrattamente stabilite dalla contrattazione collettiva, che si individuano, qualora l’ipotesi rientri tra quelle espressamente enunciate dal c.c.n.l., nella misura massima edittale oppure, qualora si tratti di fatti di rilievo disciplinare non rientranti in tali specifiche ipotesi, sulla base della sanzione massima irrogabile”.

2.5 Da altro punto di vista e con riferimento all’omessa comunicazione della trasmissione degli atti all’U.P.D., pur prevista dalla legge, va confermato il principio per cui in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti delle P.A. i termini “endoprocedimentali hanno carattere ordinatorio ancorchè debbano essere applicati nel rispetto dei principi di tempestività ed immediatezza, sicchè l’inosservanza del termine previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 4, per la trasmissione degli atti all’ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente, che ravvisi fatti non rientranti nella propria competenza (…), non determinano la decadenza dall’azione disciplinare” (Cass. 14 giugno 2016, n. 12213), se non allorquando risulti che ne venga in concreto pregiudicato il diritto di difesa (Cass., 10 agosto 2016, n. 16900).

Non diversamente il fatto che tale comunicazione sia stata omessa e che la conoscenza del procedimento si sia avuta solo con l’atto di contestazione degli addebiti, non crea invalidità, se non in presenza di indicazione di una concreta e argomentata lesione del diritto di difesa, che il (primo) motivo non espone.

2.6 Con riferimento alla questione sul mutamento degli addebiti e sulla sussistenza di una previsione della contrattazione collettiva utile a giustificare l’irrogato licenziamento, si osserva come in fatto risulti che la P.A., dopo avere contestato l’ipotesi di cui al citato art. 9, comma 8, lett. g), che prevedeva come sanzione massima la sospensione dal servizio fino a sei mesi, ha poi applicato la sanzione maggiore del licenziamento.

Come si è detto, secondo il ricorrente, ciò avrebbe determinato l’applicazione di una sanzione non prevista dalla contrattazione collettiva per i fatti contestati e comunque un illegittimo mutamento dei fatti oggetto del procedimento disciplinare.

2.7 La Corte territoriale ha ritenuto che i fatti contestati integrassero la violazione non soltanto dell’art. 9 cit., ma anche dell’art. 7 del c.c.n.l. secondo cui “il dirigente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza dell’attività amministrativa nonchè quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., anteponendo il rispetto della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”, oltre che dell’art. 12 Codice di comportamento.

La Corte ha rimarcato come i fatti fossero “particolarmente gravi e, ancor, inescusabili in quanto riguardano un soggetto tenuto a garantire il rispetto della legge” così chiaramente avallando la valutazione dei comportamenti come di “eccezionale gravità” di cui all’atto di licenziamento, anche perchè le “modalità atipiche” seguite avevano creato “intrecci indebiti tra gestione pubblica ed interessi privati”.

D’altra parte se è vero che l’art. 9, comma 8, lett. g) fa riferimento a comportamenti che determinino “grave danno” (comunque ritenuto sussistente anche in sede di licenziamento, sotto il profilo dell’immagine dell’esposizione a pretese patrimoniali di pagamento) non vi è altrettanto dubbio che l’addebito di un comportamento valutabile nella sua complessità come di “eccezionale gravità” vada al di là della previsionè tassativa della contrattazione collettiva, per attingere ad una delle ipotesi atipiche che lo stesso c.c.n.l. (art. 9, comma 10 del c.c.n.l.) consente di ravvisare allorquando si determini violazione dei doveri dirigenziali quali delineati dall’art. 7 del medesimo c.c.n.l..

Così come anche il richiamo della Corte di merito al predetto art. 7 vale anche in sè e per sè a fondare la fattispecie punitiva, atteso che esso a propria volta rinvia agli artt. 2014 e 2105 c.c., i quali, secondo l’art. 2106 c.c. (cui rinvia il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 anche a prescindere dalla contrattazione collettiva) sono le norme le cui violazioni fondano comunque il potere disciplinare.

D’altra parte, la maggiore gravità apprezzata e sottolineata dalla stessa sentenza di appello giustifica da sè l’applicazione di una sanzione superiore a quella di cui all’art. 9, comma 8, lett. g), stante la lesione, afferma ancora la Corte territoriale, “irreparabile del rapporto fiduciario necessario per la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro”.

La pronuncia impugnata risulta quindi del tutto in linea sia con la disciplina di legge (art. 2106 c.c. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55), sia con quella del c.c.n.l., atteso che la maggior gravità rispetto al caso del comma 8 giustificava evidentemente il passaggio alla sanzione superiore del licenziamento, sicchè non vi è luogo neppure a dubitare della coerenza della motivazione della Corte di Appello rispetto al disposto della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, (ove ritenuto applicabile anche rispetto alla P.A.), secondo cui la valutazione della giusta causa deve “tenere conto” delle tipizzazioni di giusta causa di cui alla contrattazione collettiva.

2.8 Infondato è anche l’assunto, di cui al secondo motivo, in ordine al mutamento dell’incolpazione.

Deve intanto muoversi dal principio, costante nella giurisprudenza di questa Corte e comune al lavoro privato ed a quello pubblico, secondo cui “in tema di sanzioni disciplinari, l’esigenza della specificità della contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione. dell’accusa nel processo penale, nè si ispira ad uno schema precostituito e ad una regola assoluta e astratta, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa” (nel lavoro pubblico: Cass. 1 ottobre 2018, n. 23771; nel lavoro privato: Cass. 30 dicembre 2009, n. 27842).

D’altra parte, il fatto stesso che l’istruttoria del procedimento disciplinare pota avere luogo anche dopo (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 6 come anche, per le infrazioni minori, comma 2, terzo periodo, nel testo anteriore alla c.d. riforma Madia) e non soltanto prima della contestazione impone tale flessibilità interpretativa.

Ciò posto e fermo restando che i fatti (reiterata stipula di convenzioni telefoniche per scopi estranei agli interessi d’ufficio) sono rimasti sempre gli stessi, si rileva che la contestazione, così come riportata nel ricorso per cassazione, già conteneva il richiamo alla violazione dei doveri di cui all’art. 7 del c.c.n.l. e manifestava il rilievo che l’Amministrazione restava esposta al pagamento di somme indebite.

E’ dunque palese come sia stato corretta e del tutto plausibile la valutazione della Corte di merito secondo cui tra la contestazione e l’addebito ciò che mutata, pur in ragione anche delle acquisizioni istruttorie medio tempore verificatesi, è la valutazione sulla gravità complessiva dell’accaduto, sub specie di una migliore definizione della misura del fenomeno, senza che vi sia stata aggiunta di circostanze concrete realmente diverse che possano avere effettivamente sviato o sorpreso le difese del dipendente.

Quanto al fatto che le fatture a carico del Tar siano state infine stornate, il motivo di ricorso (qui il terzo) non riporta i passaggi degli elementi documentali da cui ciò avrebbe dovuto essere colto, ma comunque è evidente che l’apprezzamento complessivo di gravità effettuato dalla Corte e sopra riepilogato (v. supra, punto 2.7, secondo periodo) va ben al di là, pur essendo in ogni caso pacifico che la sottoposizione a richieste di pagamento vi sia stata, del concreto attualizzarsi del danno.

3. Il quarto motivo è formulato attraverso la denuncia di violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 2219 c.c., dell’art. 24 del Regolamento di organizzazione degli uffici della giustizia amministrativa, della L. n. 604 del 1966, art. 1 nonchè degli artt. 8 e 9 del c.c.n.l. della dirigenza.

Il ricorrente contesta il fatto che sia stata considerata illegittima la procedura in quanto svolta al di fuori del sistema Consip, mentre così a suo dire non sarebbe, in quanto era permesso ai dirigenti di stipulare convenzioni autonome se più convenienti; il tutto senza contare che le fatture a carico del Tar erano state poi stornate, mentre i contratti erano iure privatorum e non avevano per presupposto atti amministrativi, come accertato anche dal GIP di Salerno con sentenza in cui si era esclusa la ricorrenza del reato di falso ideologico.

Il motivo non coglie correttamente la ratio decidendi della sentenza impugnata.

La Corte di merito ha rilevato che il ricorrente non si era avvalso della convenziona Consip stipulata dall’amministrazione della giustizia amministrativa nel 2007 e non aveva osservato le procedure inerenti convenzioni diverse, pur ammesse dalla normativa in materia, ma quello che ha fondato la pronuncia è il fatto che sia stata istituita una “gestione atipica”, con “intrecci indebiti tra gestione pubblica ed interessi privati”, attraverso un comportamento “plurioffesivo e continuativo” di stipula di “convenzioni di telefonia mobile mai registrate nè amministrativamente nè contabilmente”, talora anche per utenti sconosciuti all’Amministrazione, ma tuttavia confluite in fatture che indicavano il TAR come soggetto debitore, onorate attraverso un sistema altrettanto atipico di “raccolta dei soldi da parte di alcuni dipendenti”.

Non conta dunque il fatto che la normativa in ipotesi preveda la possibilità, come si afferma nel quarto motivo di ricorso, di stipulare convenzioni contrattuali diverse da quelle Consip, perchè non è quello il punto, fondandosi la sentenza su un comportamento con cui il dirigente, al di fuori di qualsiasi regola e dunque con modalità comunque “atipiche”, ha utilizzato la Pubblica Amministrazione cui era preposto per soddisfare interessi privati, di fornitori ed utenti, questi addirittura talvolta estranei all’ufficio.

Quanto addotto con il motivo risulta dunque eccentrico rispetto al fondamento della pronuncia e si traduce piuttosto in un tentativo di proporre la rivisitazione del giudizio di merito, il che è certamente estraneo agli scopi ed alla struttura del giudizio cì legittimità (Cass. S.U. 25/10/2013, n. 24148).

Nell’ambito del motivo il ricorrente fa poi riferimento ad una sentenza del Gip di Salerno che avrebbe escluso la natura di atti pubblici negli accordi intercorsi con i fornitori telefonici ed avrebbe ritenuto che le firme in calce alle relative convenzioni non fossero del D.M. ma apocrife.

Anche da questo punto di vista il ricorrente, oltre a non riportare nel motivo i passaggi espressi di cui alla citata sentenza, così ponendosi in contrasto con il principio di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) e di specificità (art. 366 c.p.c., in specie n. 4 e 6), in realtà prospetta una diversa rivisitazione delle valutazioni di merito, ancora inammissibile in sede di legittimità.

Ciò senza contare che di tali aspetti neppure è chiarita la decisività (l’apocrifia delle firme sulle convenzioni non toglie, ad esempio, che l’intera vicenda, come accertato dalla Corte di merito, fosse stata condotta dal D.M. nella sua veste dirigenziale; il trattarsi di atti iure privatorum non esclude ed anzi avvalora il fatto che il D.M. non potesse consentire che essi avessero corso coinvolgendo in alcun modo la P.A.) in ipotesi necessaria anche per una valutazione favorevole ex art. 360 c.p.c., n. 5.

4. Del tutto inutili sono infine le “ulteriori difese e considerazioni” che il ricorrente espone “per completezza espositiva del ricorso per cassazione” e “quali repliche a talune eccezioni sollevate nel giudizio dall’Avvocatura dello Stato e disattese dai giudici del Tribunale e delle Corte d’Appello”.

Si tratta di difese che, a tutto concedere, potrebbero acquisire rilievo ove il giudizio fosse riaperto attraverso la cassazione della sentenza in accoglimento dei precedenti motivi.

Il rigetto di tali motivi rende viceversa del tutto ininfluenti i profili su cui i giudici di merito avevano in ipotesi aderito a ricostruzioni proposte dal ricorrente ma risultate poi non decisive per l’accoglimento delle di lui pretese.

5. Al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre spes’ prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

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