Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28923 del 12/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 12/11/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 12/11/2018), n.28923

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18650/2017 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati ELISABETTA LANZETTA e LUCIA POLICASTRO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

A.M.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MARESCIALLO PILSUDSKI 118, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

STANIZZI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIAN PAOLO STANIZZI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 626/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 19/05/2017, R.G.N. 210/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2018 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCIA POLICASTRO;

udito l’Avvocato ELISABETTA LANZETTA;

udito l’Avvocato GIAN PAOLO STANIZZI.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

1. La sentenza attualmente impugnata, in riforma dell’impugnata sentenza n. 36/2014 del Tribunale di Crotone: 1) dichiara l’illegittimità e pertanto l’inefficacia della sanzione disciplinare del rimprovero scritto irrogata all’appellante A.M.T.; 2) condanna l’INPS al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 5.500,00 oltre accessori per il primo grado e in Euro 6.000.00 oltre accessori per il grado d’appello, con distrazione.

La Corte d’appello di Catanzaro, per quel che qui interessa, precisa che:

a) non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione degli artt. 434 e 348 bis c.p.c., in quanto l’appellante ha specificato i passaggi argomentativi meritevoli di censura e indicato il percorso logico alternativo, idoneo a condurre alla riforma della sentenza di primo grado;

b) l’appello è quindi ammissibile e va accolto;

c) in particolare è fondato l’assunto secondo il quale il comportamento addebitato alla ricorrente non ha in alcun modo violato gli obblighi discendenti dal rapporto lavorativo;

e) i fatti sono pacifici: 1) la A., dipendente dell’INPS inquadrata nella categoria C5, ha formulato una richiesta di accesso agli atti, indirizzata alla Direzione centrale risorse umane dell’INPS, per conoscere i requisiti e il percorso professionale della propria dirigente Alessandra Infante, in quanto dal curriculum pubblicato nel sito dell’Istituto si desumeva che la dirigente aveva ricoperto incarichi sia presso il Ministero delle Finanze sia presso l’INPS in seguito ad una procedura di mobilità originata da una prima esperienza di dirigente interno presso il Consorzio tra i Comuni della Provincia di Crotone per la Gestione dei Servizi sociali (Co.Pro.S.S.), ente pubblico economico, cui si accede senza concorso pubblico; 2) non avendo ricevuto risposta la A. ha inviato a mezzo PEC una copia dell’istanza alla segreteria tecnica del collegio dei sindaci dell’INPS e alla segreteria del magistrato della Corte dei conti delegato al controllo sulla gestione dell’Istituto; 3) successivamente ha ricevuto il provvedimento di rigetto dell’istanza del Direttore centrale della Direzione generale risorse umane dell’INPS, motivato dalla ritenuta inesistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale” idoneo a giustificare l’accesso ai dati richiesto; 4) circa un mese dopo le è stata contestata la violazione del principio di correttezza verso l’Amministrazione specialmente per l’invio dell’istanza al collegio dei sindaci dell’INPS e al magistrato della Corte dei conti delegato al controllo sulla gestione dell’Istituto;

f) la questione concernente l’esistenza o meno di un diritto di accesso agli atti nei termini prospettati dall’ A. è di secondaria importanza per il presente giudizio, anche se va ricordato che la L. n. 241 del 1990, art. 22, comma 2, nel testo risultante dalle modifiche del 2005 e del 2009, potrebbe portare a considerare infondato il provvedimento di rigetto dell’istanza dell’ A., visto che sapere se il proprio diretto superiore gerarchico si trovi a ricoprire quel ruolo in conseguenza di atti illeciti potrebbe corrispondere senz’altro ad un interesse concreto, diretto ed attuale del lavoratore, pure presidiato dagli artt. 1,4 e 35 Cost., atto a giustificare l’ostensione dei relativi dati;

g) ma, in questa sede, ciò che conta è stabilire se la trasmissione dell’istanza al collegio dei sindaci e al suindicato magistrato della Corte dei conti possa costituire una violazione del principio di correttezza, evocato dalla norma disciplinare applicata, che rappresenta una specificazione dei più generali principi di buona fede e correttezza contrattuale (di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.), tutti principi che ricevono concreta modulazione nell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., comprendente tutti i comportamenti che possono recare pregiudizio al datore di lavoro, purchè non siano espressione di contrapposti diritti del lavoratore come quello di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e quello di agire in giudizio anche per la repressione di comportamenti datoriali illeciti (art. 24 Cost.);

h) va anche considerato che i pubblici dipendenti devono adempiere alle funzioni loro affidate “con disciplina e onore” (art. 54 Cost., comma 2), come risulta anche dal Codice di comportamento dei pubblici dipendenti e dall’art. 1 del Regolamento di disciplina INPS, il che dimostra come nel lavoro pubblico – a differenza del lavoro privato – il rispetto dei suddetti obblighi non possa mai essere apprezzato con riferimento ai meri interessi datoriali, dovendo sempre essere commisurato all’interesse pubblico che quegli interessi trascende;

i) nella presente vicenda la dipendente ha manifestato ai propri superiori il dubbio che la propria dirigente non avesse mai superato un pubblico concorso per accedere ai ruoli dirigenziali pubblici;

l) si trattava di una questione di indubbia rilevanza per l’INPS e per i cittadini che rispondeva quindi ad un pubblico interesse, visto che l’eventuale mobilità, in caso di risposta affermativa, sarebbe stata da considerare illecita;

m) l’istanza era stata formulata senza violazione dei principi di continenza formale;

n) per accertane la rispondenza al principio di verità, almeno soggettiva, è stata disposta l’acquisizione della documentazione prodotta dall’appellante il 18 febbraio 2016 costituita da: l’interrogazione parlamentare in data 21 ottobre 2015 inviata al Ministro dell’Economia e delle Finanze (MEF) e dall’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone diretta alla Procura della Repubblica dalle quali si è trovata conferma del fatto che l’Infante è transitata, con procedura di mobilità ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, dal Co.Pro.S.S., ente pubblico economico, al MEF e poi da questo Ministero all’INPS;

o) al di là degli aspetti squisitamente penalistici, quel che è certo è che la vicenda si caratterizza per la presenza di notevoli profili di illiceità che l’ A. con la sua istanza di accesso agli atti voleva chiarire, mentre il rigetto dell’istanza e l’irrogazione della sanzione disciplinare risultano oggettivamente finalizzati ad occultare l’accaduto;

p) pertanto si disporrà l’invio degli atti alla magistratura contabile, mentre si conclude nel senso che il comportamento addebitato all’ A. non presenta alcun profilo di rilevanza disciplinare e anzi appare espressione dei generali doveri di cura del pubblico interesse cui i lavoratori pubblici dovrebbero sempre conformarsi;

q) le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate secondo lo scaglione di prima fascia delle cause di valore indeterminato.

2. Il ricorso dell’INPS domanda la cassazione della sentenza per undici motivi; A.M.T. resiste, con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Il ricorso è articolato in undici motivi.

1.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello, violando il divieto di “nova” in appello, esaminato la domanda “nuova” dell’ A. volta al riconoscimento di un proprio interesse legittimo – e non semplicemente di un generico interesse ad esercitare il controllo sul funzionamento dei pubblici poteri, come affermato in primo grado – ad accedere agli atti onde conoscere e segnalare l’illegale assunzione di I.A., diretto dirigente sovraordinato della sede provinciale di (OMISSIS), chiedendo la trasmissione degli atti agli organi competenti per la valutazione di eventuali responsabilità penali ex art. 331 c.p., comma 4.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 437,429 e 345 c.p.c., per avere la Corte territoriale, alla prima udienza di comparizione delle parti, autorizzato l’ A. a depositare memoria difensiva (alla quale erano allegati nuovi documenti del 2012 non stralciati) per controdedurre ai rilievi formulati dall’INPS nella memoria di costituzione in appello, quando nel rito del lavoro l’appellante può essere autorizzato soltanto a depositare note scritte in prossimità dell’udienza di discussione. Tale deposito ha allargato il thema decidendum alla legittimità o meno del passaggio in mobilità dell’ I. nei ruoli dell’INPS, mentre l’oggetto del contendere era solo l’accertamento della legittimità o meno della sanzione del rimprovero scritto irrogata all’ A.. Si chiede, pertanto, di espungere dagli atti processuali la suindicata memoria con i documenti ad essa allegati.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 87 disp. att. c.p.c., e dell’art. 126c.p.c., per avere la Corte d’appello, con l’opposizione dell’INPS, autorizzato l’ A., all’udienza del 18 febbraio 2016, a produrre documentazione successiva al ricorso riguardante la questione cui si riferivano le proprie richieste di accesso agli atti, senza che a verbale fosse stato indicato di quali documenti si trattasse. Nella sentenza si fa riferimento ad una interrogazione parlamentare del 21 ottobre 2015 e si menziona genericamente anche l’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone del 14 settembre 2016, ma non si indica quando tale ultimo documento è stato acquisito al giudizio. L’INPS chiede quindi che questa Corte “espunga” anche tali documenti dagli atti del processo.

1.4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 170 e 136 c.p.c., dell’art. 45disp. att. c.p.c., del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, convertito dalla legge… degli artt. 345 e 437,126 c.p.c., per essere stata la suddetta l’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone del 14 settembre 2016 prodotta per via telematica senza che fosse stata autorizzata dalla Corte d’appello tale produzione e senza che la cancelleria abbia dato avviso via PEC dell’avvenuto deposito fuori udienza alla difesa dell’INPS. Da essa la Corte d’appello – fuori thema decidendum – ha tratto la conclusione della illegittimità del passaggio in mobilità della I. dal Consorzio dei Comuni al Ministero e poi all’INPS, mentre l’informativa citata non poteva nè doveva essere presa in considerazione.

1.5. Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c.; vizio di ultrapetizione, perchè la Corte territoriale, ampliando l’oggetto della domanda proposta in appello dall’ A., si è pronunciata sull’illegittimità dell’assunzione dell’ I. nella Pubblica Amministrazione e del suo passaggio in mobilità al Ministero e poi all’INPS, elementi che non avevano neppure costituito oggetto del contraddittorio fra le parti.

1.6. Con il sesto motivo si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 1, per carenza di giurisdizione del giudice ordinario in materia di accertamento della legittimità dell’esercizio del diritto di accesso agli atti. Si sostiene che l’ A. avrebbe dovuto impugnare il diniego dell’istanza di accesso agli atti opposto dalla Direzione centrale risorse umane dell’INPS, davanti al giudice amministrativo (che ha giurisdizione esclusiva in materia) e in quella sede avrebbe potuto dolersi della relativa illegittimità, mentre la Corte d’appello – pur muovendo dalla corretta premessa della secondaria importanza per il giudizio della questione dell’accesso agli atti – a tuttavia considerato infondato il suddetto provvedimento di rigetto.

1.7. Con il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, artt. 22 e 24, contestandosi le argomentazioni svolte nella sentenza in merito al diritto di accesso agli atti, per il cui esercizio sarebbe necessaria la titolarità di uno specifico interesse mentre non è ammesso che l’istanza di accesso sia formulata per sciogliere dubbi o supposizioni relativi a fatti e circostanze. Si aggiunge che, nella specie, sia il diniego dell’accesso sia l’impugnata sanzione disciplinare sono stati adottati dall’INPS per ragioni totalmente diverse dalla proposizione di denuncia penale nei confronti del datore di lavoro (sicchè Cass. n. 8077 del 2014, richiamata nella sentenza impugnata, sarebbe del tutto ultronea).

1.8. Con l’ottavo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 357 c.p.p., art. 115 disp. att. c.p.p., art. 2700 c.c., in quanto l’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone del 14 settembre 2016 non costituisce “prova” nè nel giudizio civile nè in quello penale, mentre da essa la Corte d’appello trae la convinzione che il Consorzio fosse un ente pubblico economico e che nella vicenda sono emersi rilevanti profili di illiceità.

1.9. Con il nono motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c., per avere la Corte territoriale tratto elementi di convincimento dalla sola citata l’informativa di PG, senza verificare, d’ufficio, l’intera problematica accertando l’esito dell’indagine penale cui si riferiva l’annotazione, rappresentato dalla richiesta di archiviazione del PM di Crotone.

1.10. Con il decimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, (nel testo antecedente al 21 giugno 2017) e dell’art. 1362 in relazione agli artt. 1 e 2 del Regolamento di disciplina INPS 26 novembre 2009, sostenendosi che la “motivazione” che sorregge la decisione di illegittimità della sanzione non avrebbe nulla a che vedere con le suindicate norme regolamentari e con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, in quanto la Corte d’appello avrebbe valutato il comportamento dell’ A., tenendo conto anche di elementi del tutto estranei alle norme dettate dal Regolamento di disciplina INPS.

1.11. Con l’undicesimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 91e 92 c.p.c., della L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 6, dei parametri indicati nel D.M. della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, sostenendosi che la quantificazione delle spese poste a carico dell’Istituto sarebbe “macroscopicamente sproporzionata ed esorbitante” non potendo ritenersi sussistente una piena soccombenza dell’appellato, che era stato vittorioso in primo grado. Pertanto le spese avrebbero dovuto essere compensate.

II – Esame delle censure.

2. L’esame complessivo di tutti i motivi di censura porta alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso in quanto – al di là del formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella intestazioni di tutti i motivi – nella sostanza le censure con esso proposte si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti posti a base dell’intera vicenda processuale.

Si tratta, quindi, di censure che, nel loro insieme, finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dalla Corte d’appello, che come tale è di per sè inammissibile.

3. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

4. Peraltro, per quel che riguarda i singoli motivi, le ragioni di inammissibilità si manifestano e si puntualizzano nel seguente modo.

4.1. Nel primo motivo la denunciata violazione del divieto di “nova” in appello – per avere la Corte territoriale esaminato la domanda dell’ A. diretta alla qualificazione del proprio interesse ad accedere agli atti come legittimo e non come generico interesse ad esercitare il controllo sul funzionamento dei pubblici poteri, come affermato in primo grado – è inammissibile in quanto, per costante giurisprudenza di questa Corte non introduce una domanda nuova, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., l’appellante che in sede di gravame deduca che il diritto fatto valere debba essere qualificato in modo diverso rispetto a quanto affermato dal primo giudice. Infatti, quella indicata, è una argomentazione difensiva inidonea ad inserire un nuovo tema di indagine nel giudizio e volta unicamente a prospettare una corretta qualificazione giuridica del diritto della stessa parte impugnante, che come tale non è soggetta al divieto di “nova” in appello. non immutando l’originario thema decidendum (Cass. 29 aprile 2009, n. 10038; Cass. 27 settembre 2017, n. 22669).

L’inapplicabilità della normativa invocata rende la censura inammissibile.

4.2. Nel secondo motivo si denuncia un presunto allargamento del thema decidendum – riguardante principalmente la questione della legittimità o meno del passaggio in mobilità dell’ I. nei ruoli dell’INPS – che sarebbe stato reso possibile dall’irrituale deposito da parte dell’ A. di una memoria difensiva (per controdedurre ai rilievi formulati dall’INPS nella memoria di costituzione in appello), cui erano allegati i seguenti quattro documenti, formatisi in data anteriore al deposito sia del ricorso in appello dell’ A. sia della sentenza di primo grado: a) nota in data 23 gennaio 2012 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ispettorato della Funzione Pubblica di richiesta di informazioni al MEF e all’INPS circa la mobilità dell’ I. dal Co.Pro.S.S. alle suddette Amministrazioni; b) parere del 27 febbraio 2012 reso dal Dipartimento della Funzione Pubblica nei confronti dell’Ispettorato della Funzione Pubblica e dell’INPS; c) Statuto del Co.Pro.S.S.; d) estratto della pagina internet della Provincia di Crotone relativa al Co.Pro.S.S..

4.2.1. In base a costanti indirizzi di questa Corte, nel rito del lavoro il divieto di “nova” in appello, ex art. 437 c.p.c., non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle contestazioni nuove cioè non esplicitate in primo grado – ed anche alle nuove allegazioni. Ma, in entrambi i casi, deve trattarsi di elementi nuovi idonei a modificare i temi di indagine (trasformando il giudizio di appello da “revisio prioris instantiae” in “judicium novum”, estraneo al vigente ordinamento processuale) e quindi ad alterare la parità delle parti, esponendo l’altra parte all’impossibilità di chiedere l’assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato, confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell’avversario (Cass. 16 novembre 2012, n. 20157; Cass. 28 febbraio 2014, n. 4854; Cass. 1 febbraio 2018, n. 2529).

Infatti, il rigoroso sistema di preclusioni previsto per il rito del lavoro trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato tale rito, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa; poteri, peraitro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Cass. SU 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. 5 luglio 2007, n. 15228; Cass. 6 ottobre 2016, n. 20055).

Ne consegue che la decadenza relativa alla produzione in appello di nuovi documenti è esclusa, in base al criterio ricavabile dall’art. 420 c.p.c., comma 5, con riguardo ai documenti sopravvenuti – o anche anteriori – la cui produzione sia giustificata dallo sviluppo della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria depositati in appello (Cass. 14 agosto 2004, n. 15912; Cass. 16 marzo 2018, n. 6597).

4.2.2. Spetta al giudice del merito la relativa valutazione che ha la sua base – al pari del vizio di ultrapetizione, anch’esso denunciato con il presente motivo – nell’interpretazione della domanda effettuata dallo stesso giudice, il quale non incorre in tale vizio nè in quello del divieto di “nova” in appello se, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, ponga a fondamento della decisione proprie argomentazioni, derivanti dalla valorizzazione delle circostanze di fatto acquisite al processo anche attraverso eventuali nuovi documenti (nei limiti suddetti), rientrando tale compito nella funzione del giudice del merito (vedi, per tutte: Cass. 19 settembre 2005, n. 18458).

4.2.3. Del resto, la violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., si verifica solo quando il giudice attribuisca, o neghi, ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda.

Mentre essa non ricorre quando il giudice non interferisca nel potere dispositivo delle parti e non alteri nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, pur dando, espressamente o implicitamente, al rapporto controverso o ai fatti che siano stati allegati quali causa petendi dell’esperita azione, una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti (Cass. 17 gennaio 2018, n. 906; Cass. 10 maggio 2018, n. 11289).

4.2.4. Nella specie la questione della legittimità o meno del passaggio in mobilità dell’ I. nei ruoli dell’INPS non poteva certamente considerarsi “nuova” nel giudizio di appello nè estranea al thema decidendum, visto che è pacifico che tutta la presente vicenda ha avuto inizio con la richiesta indirizzata dalla A. alla Direzione centrale risorse umane dell’INPS di accesso agli atti per conoscere i requisiti e il percorso professionale della propria dirigente I.A., in quanto dal curriculum pubblicato nel sito dell’Istituto si desumeva che la dirigente aveva ricoperto incarichi sia presso il Ministero delle Finanze sia presso l’INPS in seguito ad una procedura di mobilità originata da una prima esperienza di dirigente interno presso il Consorzio tra i Comuni della Provincia di Crotone per la Gestione dei Servizi sociali (Co.Pro.S.S.), ente pubblico economico, cui si accede senza concorso pubblico.

4.2.5. D’altra parte, i documenti di cui si contesta l’acquisizione al processo non possono essere considerati “nuovi in senso tecnico”, avendo essi piuttosto il mero scopo di rafforzare le prove già raccolte in primo grado senza aprire un nuovo fronte di indagine (Cass. 29 maggio 2013, n. 13432). Infatti i primi due documenti provengono da enti pubblici (rispettivamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ispettorato della Funzione Pubblica e dal Dipartimento della Funzione Pubblica) ed erano indirizzati, fra l’altro, all’INPS, mentre gli altri due documenti (Statuto del Co.Pro.S.S. ed estratto della pagina internet della Provincia di Crotone relativa al Co.Pro.S.S.) essendo pubblicati nel sito internet della Provincia di Crotone e dello stesso Co.Pro.S.S. sono direttamente esaminabili da tutti. Inoltre, quando tali documenti sono stati acquisiti al processo, il relativo contenuto era di pubblico dominio, data la notorietà assunta dalla vicenda.

Comunque, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte i dati tratti dai siti internet istituzionali degli enti pubblici – se non comportano, come accade nella specie, l’apertura di un nuovo fronte d’indagine – hanno soltanto una funzione rafforzativa delle prove raccolte e sono da considerare appartenenti al processo in base al principio di acquisizione probatoria. Essi pertanto, non possono essere considerati documenti nuovi in senso tecnico, tanto più che, in conformità con il principio del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., va riconosciuto al giudice il potere di ricavare d’ufficio elementi utili di giudizio, attraverso fonti di conoscenza di carattere ufficiale, quali i siti internet istituzionali degli enti pubblici (vedi, per tutte: Cass. 28 agosto 2014, n. 18418; Cass. 4 marzo 2016, n. 4296; Cass. 2 dicembre 2011, n. 25813).

4.2.6. Da quanto si è detto si desume che, diversamente da quanto si sostiene nel presente motivo, mancano gli estremi per la stessa configurabilità del denunciato allargamento del thema decidendum e quindi per la stessa applicabilità delle norme processuali rispetto alle quali, ad avviso del ricorrente, si sarebbe verificato il supposto error in procedendo.

Di qui l’inammissibilità del secondo motivo, che oltretutto si conclude con la richiesta a questa Corte di espungere dagli atti processuali la memoria contestata con i documenti ad essa allegati, quando una simile operazione si pone, ictu oculi, fuori dal perimetro del giudizio di cassazione.

4.3. Con il terzo motivo e il quarto motivo si contesta, per diversi profili, la scelta di disporre l’acquisizione della documentazione prodotta dall’appellante il 18 febbraio 2016 costituita da: l’interrogazione parlamentare in data 21 ottobre 2015 inviata al Ministro dell’Economia e delle Finanze (MEF) e dall’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone diretta alla Procura della Repubblica, entrambi atti pubblici.

Dalla sentenza impugnata risulta espressamente (v. pp. 7-8) che tale scelta è stata effettuata dalla Corte d’appello per accertare la rispondenza al “principio di verità, seppure inteso in senso soggettivo”, dell’avvenuto transito dell’ I., con procedura di mobilità ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, dal Co.Pro.S.S, al MEF e poi da questo Ministero all’INPS.

Con la suddetta censura l’INPS pone in discussione tale scelta e quindi il governo delle prove, fondato sul principio del libero convincimento, che opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito e che è di per sè insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia di eventuali violazioni al riguardo, da parte del giudice del merito, non configurano un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – cui, invece, si fa qui riferimento – bensì eventualmente un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).

Ne consegue che il terzo e il quarto motivo risultano inammissibili nella forma e nella sostanza. E del pari inammissibile, per quanto si è detto, è la richiesta di espungere anche tali documenti dagli atti del processo, pure in questo caso formulata alla fine del terzo motivo.

4.4. Con il quinto motivo si denuncia vizio di ultrapetizione, perchè la Corte territoriale si sarebbe pronunciata sull’illegittimità dell’assunzione dell’ I. nella Pubblica Amministrazione e del suo passaggio in mobilità al Ministero e poi all’INPS, elementi che non avevano neppure costituito oggetto del contraddittorio fra le parti.

Il motivo è inammissibile, in primo luogo, perchè – come si è detto sopra al punto 4.2.4 – la suddetta questione era compresa nel thema decidendum fin dal primo grado.

Peraltro, come afferma anche l’INPS, l’oggetto del contendere era l’accertamento della legittimità o meno della sanzione del rimprovero scritto irrogata all’ A. e tale sanzione, pacificamente, è stata inflitta per la trasmissione da parte della dipendente della propria istanza di accesso agli atti alla segreteria tecnica del collegio dei sindaci dell’INPS e alla segreteria del magistrato della Corte dei conti delegato al controllo sulla gestione dell’Istituto.

E’, quindi, del tutto evidente che, per la verifica della legittimità e congruità della sanzione, la Corte d’appello era chiamata ad accertare tutte le modalità del caso concreto.

Pertanto, dopo aver escluso che l’istanza dell’ A. sia stata formulata con violazione dei principi di continenza formale (elemento rilevante per la ricostruzione della fattispecie: Cass. 26 settembre 2017, n. 22375) era necessario che la Corte territoriale stabilisse se fosse o meno rispondente a verità, almeno dal punto di vista dell’interessata, la supposta irregolarità della procedura di mobilità con la quale l’ I. è passata dal Co.Pro.S.S. al MEF e poi da questo Ministero all’INPS, visto che ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, il passaggio diretto di personale deve avvenire tra Pubbliche Amministrazioni diverse, mentre il Co.Pro.S.S. non è una PA.

Del resto, è noto che, sia ai fini penali sia ai fini disciplinari, la verità della notizia potenzialmente lesiva dell’immagine del datore di lavoro divulgata dal lavoratore ha un suo peso, nella ricostruzione della fattispecie, anche al fine dell’eventuale configurazione di un legittimo diritto di critica (Cass. 7 aprile 2014, n. 8077; Cass. 26 settembre 2017, n. 22375; Cass. 16 febbraio 2000, n. 1749).

Questo vale, a maggior ragione, nella specie per determinare se vi sia stata o meno violazione del principio di correttezza, visto che, per costante indirizzo di questa Corte l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. e quelli, ad esso collegati, di correttezza e buona fede, cui è tenuto il dipendente nell’esecuzione del contratto di lavoro devono essere riferiti esclusivamente ad attività “lecite” – da tutti i punti di vista: penale, civile, amministrativo, tanto più nel lavoro pubblico – del datore di lavoro, non potendosi certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell’ambito del dovere di collaborazione con il datore di lavoro anche quando quest’ultimo intenda perseguire interessi che non siano leciti, nel senso suddetto (Cass. 16 gennaio 2001, n. 519; Cass. 26 settembre 2017, n. 22375; Cass. 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. 16 febbraio 2017, n. 4125).

Peraltro, nella specie, la Corte d’appello sul punto ha correttamente limitato la propria pronuncia alla suindicata indagine, pervenendo alla conclusione della presenza di “notevoli profili di illiceità” nella presente vicenda, conclusione facilmente desumibile confrontando il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, con i dati risultanti nei siti istituzionali del Comune di Crotone e della Provincia di Crotone a proposito del Co.Pro.S.S..

Anche, in questo caso, mancano gli estremi per la stessa configurabilità del denunciato allargamento del thema decidendum e quindi per la stessa applicabilità delle norme processuali rispetto alle quali, ad avviso del ricorrente, si sarebbe verificato il supposto error in procedendo.

Di qui l’inammissibilità del quinto motivo.

4.5. Con il sesto motivo si denuncia una pretesa violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 1, per carenza di giurisdizione del giudice ordinario in materia di accertamento della legittimità dell’esercizio del diritto di accesso agli atti.

Si tratta di una censura che – a parte ogni altra considerazione in ordine alla sua tempestività – non ha alcuna rilevanza nel presente giudizio il cui thema decidendum è rappresentato solo dall’accertamento della legittimità o meno della sanzione del rimprovero scritto irrogata all’ A., come afferma anche l’INPS e come è precisato pure nella sentenza impugnata.

In questa situazione le osservazioni svolte nella sentenza a proposito della possibile ricomprensione nell’ambito applicativo della L. n. 241 del 1990, art. 22, comma 2, nel testo risultante dalle modifiche del 2005 e del 2009, del diritto di accesso agli atti nei termini prospettati dall’ A. sono da considerare eccedenti rispetto alla necessità logico-giuridica della decisione e certamente non equivalgono ad un “accertamento” nei termini denunciati.

Di ciò si ha conferma: a) nelle parole usate dalla Corte d’appello sul punto, secondo cui “la questione concernente l’esistenza o meno di un diritto di accesso agli atti” nei termini suddetti è stata considerata “di secondaria importanza” per il presente giudizio; b) nella delineazione della sussistenza di tale diritto come meramente eventuale (come si desume dall’uso del condizionale “potrebbe”).

Le suddette osservazioni sono quindi “obiter dicta”, come tali non vincolanti, improduttivi di effetti giuridici e che quindi, non sono suscettibili di gravame, nè di censura in sede di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815).

4.6. Con il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, artt. 22 e 24, contestandosi le argomentazioni svolte nella sentenza in merito al diritto di accesso agli atti.

Il motivo è inammissibile perchè, come si è detto a proposito del sesto motivo, ha ad oggetto una parte della sentenza priva di decisività.

A ciò va aggiunto che, anche dal punto di vista della formulazione, il motivo è inammissibile perchè in esso vengono ricondotte sotto l’archetipo della violazione di legge censure che, invece, attengono alla qualificazione e valutazione giuridica dei fatti e quindi concernono parti della motivazione in diritto, sulla quale in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – il sindacato di questa Corte è stato ridotto al “minimo costituzionale”.

Peraltro, nella sostanza, con tali censure si esprime un mero dissenso rispetto alle osservazioni della Corte d’appello sul punto indicato che come tale è di per sè inammissibile.

Anche in questo caso, quindi, il motivo è inammissibile nella sostanza e nella forma.

4.7. Pure l’ottavo e il nono motivo risultano inammissibili sia nella sostanza sia nella forma.

Dal punto di vista della formulazione si rinvengono nei presenti motivi le stesse criticità proprie del settimo motivo (si rinvia quindi al punto 4.6).

Dal punto di vista del contenuto, le censure muovono da un presupposto erroneo, secondo cui l’informativa di PG della compagnia della Guardia di Finanza di Crotone del 14 settembre 2016 sarebbe stata utilizzata dalla Corte territoriale come “prova” della natura del Co.Pro.S.S., come ente pubblico economico.

Tale assunto non trova rispondenza nella sentenza, da cui risulta che la suddetta informativa è stata acquisita agli atti, insieme con l’interrogazione parlamentare in data 21 ottobre 2015 inviata al Ministro dell’Economia e delle Finanze (MEF), esclusivamente al fine di stabilire se fosse o meno rispondente a verità, almeno dal punto di vista soggettivo, la supposta irregolarità della procedura di mobilità in oggetto, elemento come si è detto importante per l’accertamento sulla legittimità della sanzione (vedi sopra: 4.4).

Peraltro, come anche si è detto, per conoscere la natura del Consorzio era – ed è – sufficiente consultare i siti internet istituzionali del Comune di Crotone e della Provincia di Crotone, accessibili a tutti.

In ogni caso, gli aspetti squisitamente penalistici della vicenda non sono stati espressamente toccati dalla Corte d’appello, che si è limitata a rilevare la presenza di notevoli profili di illiceità – per i quali ha preannunciato l’invio degli atti alla magistratura contabile – ma unicamente allo scopo di delineare l’intento dell’ A. e di concludere nel senso dell’assenza di profili di rilevanza disciplinare nel comportamento della dipendente, considerato anzi espressione dei generali doveri di cura del pubblico interesse cui i lavoratori pubblici dovrebbero sempre conformarsi.

A ciò va aggiunto che, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c. – preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova – non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non dimostri di aver investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso dando conto delle ricadute che il denunciato mancato esercizio abbia prodotto sulla decisione (Cass. 12 marzo 2009, n. 6023; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22534).

Nella specie la suddetta denuncia – formulata con il nono motivo – non solo è priva delle suindicate indicazioni, ma riferendosi agli aspetti penalistici della vicenda riguarda questioni non esaminate nella sentenza impugnata.

4.8. Anche il decimo motivo è inammissibile per molteplici ragioni.

In primo luogo, la denuncia di violazione del Regolamento di disciplina dell’INPS non è formulata in modo corretto perchè ci si limita a richiamare l’art. 1362 c.c. e ss., senza specificare i canoni ermeneutici che sarebbero stati violati dalla Corte d’appello, mentre il ricorrente per cassazione non può contestare (‘esegesi effettuata dal giudice del merito degli atti negoziali (quale è il Regolamento in oggetto) limitandosi a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative rispetto a quelle proposte dal giudice del merito medesimo, come accade nella specie (Cass. 4 aprile 2008, n. 8808).

Le altre censure sono inammissibili, in quanto come dimostra il riferimento testuale alla “motivazione della sentenza” – che viene censurata principalmente perchè la Corte d’appello avrebbe valutato il comportamento dell’ A., tenendo conto anche di elementi del tutto estranei alle norme dettate dal Regolamento di disciplina INPS – nel motivo vengono ricondotte sotto l’archetipo della violazione di legge censure che, invece, attengono alla qualificazione e valutazione giuridica dei fatti e quindi concernono parti della motivazione in diritto, sulla quale in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis – il sindacato di questa Corte è stato ridotto al “minimo costituzionale”.

Peraltro, nella sostanza, con tali censure si esprime un mero dissenso rispetto alle osservazioni della Corte d’appello sul punto indicato che come tale è di per sè inammissibile.

4.9. Infine, è inammissibile anche l’undicesimo motivo con il quale si contesta la quantificazione delle spese poste a carico dell’Istituto, definita “macroscopicamente sproporzionata ed esorbitante”, sostenendosi che le spese avrebbero dovuto essere compensate non potendo ritenersi sussistente una piena soccombenza dell’Istituto, che era stato vittorioso in primo grado.

Si ricorda, al riguardo, che in linea generale la valutazione operata dal giudice del merito in materia di spese processuali è censurabile in cassazione solo ove sia violato il principio per il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa oppure allorchè la motivazione posta a fondamento della statuizione di compensazione risulti palesemente illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per la sua inconsistenza o evidente erroneità, il processo decisionale del giudice (vedi, per tutte: Cass. SU 30 luglio 2008, n. 20598; Cass. 17 ottobre 2017, n. 24502; Cass. 12 aprile 2018, n. 9064).

4.9.1. Come affermato dalla Corte costituzionale, anche di recente, la regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce e, in quanto tale, è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). La liquidazione delle spese giudiziali in favore della parte vittoriosa è, infatti, il “normale complemento” dell’accoglimento della domanda (Corte cost., sentenze n. 303 del 1986 e n. 77 del 2018).

La compensazione delle spese rappresenta una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa e, pertanto, deve essere governata dal principio di causalità, in quanto, come si è detto, anche la condanna alle spese del soccombente concorre al come soddisfacimento effettivo del diritto fatto valere in giudizio, in conformità con l’art.24 Cost. (Cass. SU 30 luglio 2008, n. 20598).

4.9.2. Tale carattere derogatorio è stato accentuato per effetto degli interventi legislativi avutisi a partire dal 2005, nell’idea che il riscontrato, larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali fosse un incentivo alla lite. Così: a) con la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, si è stabilito che i “giusti motivi”, posti a base della compensazione delle spese di lite (art. 92 c.p.c.), dovessero essere “esplicitamente indicati nella motivazione” della sentenza; b) con la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, si sono sostituiti i “giusti motivi” con le “gravi ed eccezionali ragioni”, onde restringere la portata della clausola generale; c) con il D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito dalla L. n. 162 del 2014, è stata eliminata la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” e, al suo posto, sono state previste ipotesi nominate per l’applicazione della compensazione, cioè oltre a quella della soccombenza reciproca (che non è mai mutata), l’assoluta novità della questione trattata e il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. A tali ipotesi la recente sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018 ha aggiunto quella della sussistenza di “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

In questa situazione è del tutto evidente che nel presente giudizio l’esito opposto rispettivamente del giudizi di primo grado e di quello di appello non poteva certamente configurare una “grave ed eccezionale ragione” (quale richiesta dalla disciplina applicabile ratione temporis) per ipotizzare una compensazione delle spese di lite.

4.9.3. D’altra parte, per quel che concerne la liquidazione delle spese processuali, si ricorda che in base al D.M. del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 – da applicare nella specie – il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, essendo tenuto ad apposita e specifica motivazione sul punto, con indicazione dei parametri utilizzati, soltanto in caso di apprezzabile scostamento – al di sotto dei minimi (fermo restando il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione) oppure al di sopra dei limiti massimi – dai valori medi indicati nella tabella allegata al suddetto D.M. (Cass. 15 dicembre 2017, n. 30286; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2386; Cass. 14 maggio 2018).

La Corte d’appello di Catanzaro si è attenuta alla tabella, specificando altresì (pur se non era necessario) di fare riferimento allo scaglione di prima fascia delle cause di valore indeterminato, applicando per la liquidazione il consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui la “valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale” che il giudice del merito è chiamato ad adottare tenendo conto delle caratteristiche della fattispecie sub judice e dell’esito complessivo della lite, senza alcun automatismo; tanto che viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (Cass. 18 marzo 2014, 6259; Cass. 11 giugno 2008, n. 15483).

Ne consegue che anche l’undicesimo motivo è inammissibile perchè le censure in esso proposte denunciano – sia per la compensazione sia per la liquidazione delle spese – la violazione di norme di legge di cui mancano i presupposti per la relativa applicabilità nella specie.

III – Conclusioni.

5. In sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna l’Istituto ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (cento/00) per esborsi, Euro 8000,00 (ottomila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

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