Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28918 del 27/12/2011

Cassazione civile sez. II, 27/12/2011, (ud. 22/11/2011, dep. 27/12/2011), n.28918

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. NUZZO Laurenza – rel. Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.B. (OMISSIS) C.V., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MANTEGAZZA 24, presso il Sig. GARDIN MARCO,

rappresentati e difesi dall’avvocato LOPARDI STEFANO;

– ricorrenti –

contro

D.R.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA LORENZO BONINCONTRI 43, presso lo studio dell’avvocato

SURACI VINCENZO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1118/2004 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 29/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2011 dal Consigliere Dott. LAURENZA NUZZO;

udito l’Avvocato LOPARDI Stefano, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato SIRACI Vincenzo, difensore della resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 1 5.4.1 992, B.E., quale proprietaria di un appartamento confinante con quello di D. R.A., assumeva che la stessa aveva ingrandito una piccola luce, sita sulle scale di pertinenza dell’immobile di essa attrice, trasformandola in una veduta; chiedeva, pertanto, la condanna della D.R. al ripristino della luce, munita di grata ed inferriata come per legge.

Si costituiva la convenuta contestando tale assunto sia sotto il profilo della legittimazione attiva che della qualificazione dell’opera come veduta.

Con sentenza in data 29.11.2001 il Tribunale di Sulmona rigettava la domanda.

Avverso tale decisione C.B. e C.V., quali eredi di B.E., proponevano appello cui resisteva l’appellata.

Con sentenza 30.11.2004 la Corte di appello dell’Aquila rigettava l’appello osservando che, correttamente,il primo giudice aveva affermato che l’attrice non aveva fornito la prova di essere proprietaria esclusiva della scala su cui si affacciava la finestra realizzata dalla convenuta e che dalla stessa documentazione prodotta dall’attrice era emerso che la scala, in realtà, era in proprietà comune con la convenuta; “Ciò era stato ammesso dalla B. nel telegramma da essa inviato alla convenuta e prodotto dalla medesima attrice, telegramma con il quale la prima diffidava la seconda dall’eseguire i lavori di ampliamento della finestra su scala condominiale”. Aggiungeva la Corte territoriale che il gravame non poteva essere accolto “sotto il diverso profilo della lesione del diritto dell’attrice quale comproprietaria, posto che tale mutamento della domanda è in contrasto anche il vecchio che con il vecchio testo dell’art. 345 c.p.c.”, integrando una domanda nuova, come tale, inammissibile in appello.

Tale decisione è impugnata con ricorso per cassazione da C. B. e C.V. sulla base di due motivi di ricorso.

Resiste con controricorso D.R.A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorrenti deducono:

1) violazione, falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.;

contraddittorietà ed illogicità della motivazione riguardo alla causa pretendi ed al petitum dell’azione, nonchè in ordine all’istruttoria svolta, circa un punto decisivo della controversia;

evidenziando che, con l’atto di appello, avevano solo lamentato il difetto di prova in ordine alla proprietà esclusiva sulle scale da parte della D.R., sostenendo, “per mero scrupolo difensivo” che un eventuale diritto di comproprietà della controparte sui beni oggetto di causa, non avrebbe facultato la stessa a modificare il bene comune; tanto si desumeva dalla citazione di primo grado e dal tenore della comparsa di costituzione della D.R. che aveva eccepito la carenza di legittimazione attiva della B. in quanto proprietaria esclusiva di tutte le rampe di scale e dei pianerottoli”;

in relazione a tali posizioni delle parti e, non avendo la D. R. contestato la C.T.U. di primo grado, laddove si rilevava che dai documenti e dalle ricerche non poteva desumersi la titolarità del diritto di proprietà esclusiva sulle scale e sul pianerottolo, sarebbe stato onere della D.R. provare il carattere esclusivo della sua proprietà soprattutto sulla seconda rampa di scale e sul secondo pianerottolo, mentre sull’attrice, che agiva in “negatoria servitutis”, incombeva un onere probatorio, quanto al diritto di proprietà esclusiva sui beni oggetto di causa, fondato anche su semplici presunzioni quali il fatto che l’ingresso dell’abitazione della D.R. fosse posto al primo piano e che l’abitazione della B., era stata successivamente edificata, in adiacenza a quello esistente della D.R., per consentire l’accesso al piano di competenza, mediante una secondo rampa di scale ed un ulteriore pianerottolo).

La Corte di merito aveva omesso di motivare sulle prove e sulle presunzioni probatorie indicate dalle parti ed aveva, inoltre, erroneamente ravvisato la novità della domanda nel giudizio di appello, con riferimento anche ad un eventuale titolo di comproprietà dell’attrice; il primo giudice aveva, infatti, rigettato la domanda originaria avanzata dalla B., affermando che “l’accertata comunione della seconda rampa di scale fa venir meno l’obbligo in capo alla convenuta dell’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c. in tema di luci, in quanto la predetta norma è ispirata alla esigenza di riservatezza della proprietà esclusiva limitrofa”; il thema decidendum era stato, quindi, ampliato dal primo giudice con riferimento alla comproprietà desunta dalla C.T.U.;

senza che fosse stata individuata la proprietà esclusiva;

2) violazione e falsa applicazione degli art. 949 c.c., e art. 1102 c.c.; contraddittorietà, illogicità ed omessa valutazione di prove presuntive e carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia;

il giudice di appello, nel ravvisare una ipotesi di domanda nuova ex art. 1102 c.c., aveva omesso di applicare l’art. 949 c.c., in ordine all’onere probatorie relativo all’actio negatoria servitutis, nel senso indicato nel motivo sub 1), interpretando in modo illogico e contraddittorio il thema decidendum, “allargato” apoditticamente dal primo giudice sulla base della C.T.U., in assenza di motivazione sulla legittimazione degli appellanti e sulla mancanza di prova relativa al diritto dominicale esclusivo della appellata. Il ricorso è infondato.

In ordine al primo motivo si osserva che l’actio negatoria servitutis, proposta da parte attrice in primo grado, comportava l’onere della stessa di provare, anche a mezzo di presunzioni, la proprietà o comproprietà con terzi estranei alla lite(Cass. n. 4803/92; n. 3835/85) del fondo che si asseriva essere libero da pesi, restando ininfluente il modo di acquisto della proprietà dedotto in giudizio, trattandosi di diritti autodeterminati. La sentenza impugnata, al riguardo, ha evidenziato che “dalla stessa documentazione prodotta dall’attrice è emerso che la scala, che nell’atto introduttivo del giudizio è definita come appartenente esclusivamente ad essa attrice, in realtà è in proprietà comune con la convenuta”. Correttamente la Corte territoriale ha, poi, ravvisato una domanda nuova, rispetto all’aedo negatoria, in quella rivolta a negare l’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c., sulla base di un titolo di comproprietà, domanda inammissibile in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c. Sul punto va ribadito che, secondo la giurisprudenza di questa Corte(Cass. n. 8717/97) la deduzione, per la prima volta in sede di gravame, di un titolo di acquisto diverso da quello inizialmente dedotto, ovvero della esistenza di un diritto di comproprietà, in luogo della piena proprietà originariamente vantata in primo grado, comporta, nella ipotesi, ricorrente nella specie, in cui tale diritto di comproprietà( della scala) venga riferito non già a terzi estranei, ma all’appellato, l’introduzione nel giudizio “di un tema di indagine completamente nuovo e perciò stesso inammissibile in sede di gravame”. Nè può verificarsi che tale domanda sia stata già proposta in primo grado, difettando, sul punto, il requisito dell’autosufficienza del ricorso.

Del pari infondato è il secondo motivo di ricorso che ripropone, sostanzialmente, il tema dell’onere probatorio nell’ambito della negatoria servitutis, già preso in esame in ordine alla precedente censura. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato. Consegue, secondo il criterio della soccombenza, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per spese oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2011

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