Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28914 del 27/12/2011

Cassazione civile sez. II, 27/12/2011, (ud. 10/11/2011, dep. 27/12/2011), n.28914

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.M. (C.F.: (OMISSIS)); SU.MA. (C.F.:

(OMISSIS)), quali coeredi per quota indivisa di S.

R., rappresentati e difesi, in forza di procura speciale a margine

del ricorso, dall’Avv. Cortellessa Adriana ed elettivamente

domiciliati in Roma, alla via Trionfale, n. 7032, presso lo studio

dell’Avv. Dimitri Goggiamani;

– ricorrenti –

contro

A.G., rappresentato e difeso, in virtù di procura

speciale autenticata per notar Andrea Martini (rep. 148513 del 24

ottobre 2011), riportata in calce alla comparsa di costituzione

depositata il 28 ottobre 2011, in sostituzione del precedente

difensore rinunciante Avv. Piccolo Roberto, dagli Avv.ti Cappelli

Dario e Stefano Gattamelata ed elettivamente domiciliato presso lo

studio del secondo, in Roma, v. di Monte Fiore, n. 22 – via Della

Luce, n. 56;

– controricorrente –

e

SU.MA. (C.F.: (OMISSIS)), quale coerede per la

quota indivisa di 1/3 di S.R.;

– intimata –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 1373/2005,

depositata il 3 ottobre 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10

novembre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

uditi gli Avv.ti Dimitri Goggiamani, per delega, nell’interesse dei

ricorrenti, e Renzo Cuonzo, per delega, per il controricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 13 febbraio 1997, il sig. A. G. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Arezzo, i sigg. B.L. e S.R., chiedendo che, previo accertamento della dedotta violazione dei limiti legali ex art. 913 c.c. da parte di essi convenuti, i medesimi fossero condannati alla rimozione delle opere realizzate sui terreni di loro rispettiva proprietà e posti a monte del proprio fondo, che avevano determinato – secondo la sua prospettazione – un innaturale deflusso delle acque sull’immobile di esso attore. Nella costituzione dei predetti convenuti, il Tribunale adito, all’esito dell’esperita istruzione probatoria, rigettava la domanda attrice siccome infondata e condannava l’attore alla rifusione delle spese di lite.

A seguito di rituale appello interposto da A.G., la Corte di appello di Firenze, nella resistenza degli appellati B.L. e S.R. (che, a loro volta, formulavano anche appello incidentale), con sentenza n. 1373 del 2005 (depositata il 3 ottobre 2005), adottava le seguenti statuizioni: – confermava la sentenza impugnata nella parte in cui rigettava la domanda attrice nei confronti del B.L.; in accoglimento dell’appello incidentale dello stesso B. e in parziale riforma della gravata sentenza, liquidava le spese del giudizio di primo grado nel maggiore importo indicato in motivazione, condannando l’ A. al rimborso, in favore dello stesso B. ed a tale titolo, della maggior somma di Euro 3.067,93, oltre accessori; – condannava l’ A.G. al rimborso, sempre in favore del B., delle spese ulteriori del giudizio; – in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava il S.R. ad eseguire le opere di eliminazione dello spartiacque indicate nella relazione del c.t.u.

in data 9 luglio 2000; condannava il S. a rimborsare al G. le spese dei due gradi di giudizio, liquidandole separatamente.

A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale rilevava, innanzitutto, l’infondatezza dell’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dell’appello per supposto difetto di specificità dei motivi (che, invece, dal contesto complessivo dell’atto processuale erano comunque desumibili e idonei a comportare la contestazione della valutazione delle risultanze processuali svolta dal giudice di prima istanza); nel merito, ravvisava l’infondatezza della pretesa nei riguardi del B. alla luce delle emergenze della c.t.u., nonchè la fondatezza dell’appello incidentale dallo stesso B. avanzato in ordine al “quantum” delle spese giudiziali liquidate all’esito del giudizio di primo grado; inoltre, riteneva fondato l’appello principale nei confronti del S. che si era reso responsabile della condotta illecita consistita nella realizzazione del prolungamento di un fosso sul terreno che, attraversando lo spartiacque, aveva fatto confluire le acque verso il fondo A. concorrendo a determinarne l’allagamento.

Avverso la suddetta sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione S.M. e Su.Ma. (quali coeredi “pro indiviso” di S.R.), articolato in sei motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato A.G., mentre gli altri due intimati non risultano essersi costituiti in questa fase. I difensori di entrambe le parti costituite hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo I ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per supposta violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè per insufficienza e/o illogicità e/o contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione al rigetto de motivo inerente la dedotta assenza della specificità delle doglianze formulate in sede di gravame.

1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il requisito della specificità dei motivi di appello, prescritto dall’art. 342 c.p.c., non può essere definito in via generale ed assoluta, ma deve essere correlato alla motivazione della sentenza impugnata, nel senso che la manifestazione volitiva dell’appellante deve essere formulata in modo da consentire d’individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione, e deve, quindi, contenere l’indicazione, sia pure in forma succinta, degli “errores” attribuiti alla sentenza censurata, i quali vanno correlati alla motivazione di quest’ultima, in modo da incrinarne il fondamento logico-giuridico, con la conseguente inammissibilità dell’individuazione dei motivi operata mediante il generico richiamo alle deduzioni, eccezioni e conclusioni della comparsa depositata in primo grado. E’ stato, altresì, chiarito che, in tema di impugnazioni, il requisito della “sommaria esposizione dei fatti “richiesto dal citato art. 342 c.p.c. non esige una parte espositiva formalmente autonoma ed unitaria ma, in quanto funzionale alla individuazione delle censure mosse dall’appellante, può ritenersi soddisfatto anche qualora tale individuazione sia consentita, indirettamente e per sommi capi, dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, laddove altra e diversa doglianza è, invece, quella concernente la corrispondenza al vero dei fatti dedotti, che, sostanziandosi in una critica al modo di esposizione dei fatti, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito.

Ciò posto, nel caso di specie, la Corte territoriale, con motivazione logica ed adeguata e basandosi sulla richiamata giurisprudenza di questa Corte, ha dato conto che nell’atto di appello dell’ A., ancorchè le censure non fossero state distintamente elencate, le stesse, tuttavia, erano univocamente percepibili e sufficientemente prospettate (e tali sono state ritenute dallo stesso giudice di secondo grado) perchè con esse l’appellante aveva inteso confutare la valutazione delle risultanze probatorie acquisite in primo grado sia con riferimento alla prova testimoniale che in ordine alle emergenze scaturite dalla c.t.u., in tal senso instando per l’accoglimento della sua domanda e, quindi, per la riforma, per quanto di ragione, della decisione impugnata.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti ha dedotto la violazione degli artt. 163, 164, 183, 345 c.p.c. e art. 24 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) unitamente alla violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c. e alla violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 61 c.p.c., e segg., degli artt. 112, 115, 116, 156, 157, 191 e 194 c.p.c. (sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), avuto riguardo alla prospetta illegittimità della dichiarata insussistenza della necessità dell’accettazione del contraddittorio da parte del S.R. in ordine alla domanda ulteriore di eliminazione del fosso.

2.1. Anche questa doglianza è priva di pregio e va respinta.

Ad avviso della consolidata giurisprudenza di questa Corte (v., ad es. Cass. n. 3192 del 2003 e Cass. n. 3089 del 2007), a cui si è conformata la Corte territoriale nella sentenza impugnata, la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti “autodeterminati”, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto così come rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto, con la conseguenza che la “causa petendi” delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo – contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc – che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, essendo, viceversa, necessario ai soli fini della prova. Pertanto, se non viola il divieto dello “ius novorum” in appello la deduzione da parte dell’attore (o, addirittura, il rilievo “ex officio iudicis”) di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio, a maggior ragione – come verificatosi nella specie – non può parlarsi di domanda nuova con riferimento alla prospettazione operata dall’ A., nell’atto di appello, che aveva dedotto come la concausa degli allagamenti potesse individuarsi nel fosso insistente nel fondo del S.R., avendo, comunque, inteso tutelare, con riguardo alla previsione dell’art. 913 c.c., la sua proprietà nei confronti del predetto proprietario soprastante.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato la supposta violazione degli artt. 913, 949 e 1158 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) con riferimento alla reiezione, da parte della Corte territoriale, dell’eccezione di prescrizione di ogni diritto a ripristino in capo all’ A. in ordine alla disciplina prevista dal citato art. 913 c.c..

3.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento dal momento che – come esattamente ritenuto dalla Corte fiorentina (richiamandosi alla conferente Cass. n. 13301 del 2002) – la soggezione del proprietario del fondo inferiore a ricevere le acque reflue provenienti dal fondo superiore, stabilita dall’art. 913 c.c., riguarda una limitazione legale della proprietà e non una servitù prediale, con la conseguenza che la relativa azione, proprio perchè fondata su tale presupposto, è da ritenersi imprescrittibile (cfr., per riferimenti, in generale, anche la recente Cass. n. 19289 del 2009).

4. Con la quarta doglianza i ricorrenti prospettano la violazione o falsa applicazione dell’art. 913 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) congiuntamente all’insufficienza e/o illogicità e/o contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5) avuto riguardo al rigetto della dedotta inapplicabilità del disposto di cui all’art. 913 c.c., atteso che le cause dei lamentati danni si sarebbero dovute ricondurre agli interventi eseguiti nel terreno di proprietà dello stesso sig. A.G..

5. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in uno al vizio di insufficienza e/o illogicità e/o contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), con particolare riferimento all’avvenuto accertamento della realizzazione del supposto prolungamento del fosso nel fondo del S.R..

6. Con il sesto motivo i ricorrenti hanno dedotto l’insufficienza e/o illogicità e/o contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) avuto riguardo all’individuazione dell’effettività delle modifiche dello stato dei luoghi di proprietà del S.R. e dell’imputazione della loro eventuale esecuzione.

6.1. Questi ultimi tre motivi – che possono essere esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi – sono ugualmente infondati e vanno, quindi, respinti. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e fondato su plurimi argomenti logici supportati dall’idonea valorizzazione dei riscontri probatori maggiormente conferenti e convincenti, la Corte territoriale ha appurato che la realizzazione del prolungamento del fosso sul terreno del S.R., il quale attraversando lo spartiacque aveva fatto confluire le acque verso il fondo dell’ A., si era venuta a configurare come una concausa degli incontestati allagamenti che si erano verificati in danno del fondo dell’appellante, ravvisando, in senso congruamente logico, come l’intubazione eseguita dallo stesso A. a valle della sua proprietà (e, quindi, valorizzando razionalmente la conformazione morfologica dei luoghi) non poteva aver avuto un’efficienza causale esclusiva nella determinazione dei predetti allagamenti che, peraltro, si erano realizzati in modo anche gravoso in occasione di fenomeni meteorologici particolarmente intensi. Sotto questo profilo bisogna ricordare che, se è vero che l’art. 913 c.c., in tema di scolo delle acque, ponendo a carico del proprietario sia del fondo inferiore che superiore l’obbligo di non alterare la configurazione naturale del terreno, non vieta tutte le possibili modificazioni incidenti sul deflusso naturale delle acque, ma soltanto quelle che alterino apprezzabilmente tale deflusso, rendendo più gravosa la condizione dell’uno o dell’altro fondo, occorre, tuttavia, evidenziare che tale circostanza costituisce oggetto di accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato sotto il profilo logico e giuridico (come avvenuto nella specie), non è censurabile in sede di legittimità (v., ancora, Cass. n. 13301 del 2002 e, per riferimenti, da ultimo, Cass. n. 13097 del 2011). Del resto, è risaputo che, ai fini dell’adeguata motivazione della sentenza, secondo le indicazioni desumibili dal combinato disposto dall’art. 132 c.c., comma 2, n. 4, artt. 115 e 116 c.p.c., è necessario che il raggiunto convincimento del giudice risulti da un esame logico e coerente di quelle che, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, mentre non si deve dar conto dell’esito dell’esame di tutte le prove prospettate o, comunque, acquisite. Oltretutto, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere, altresì, che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Infine, anche la circostanza della riconducibilità dell’esecuzione illegittima (e, quindi, della individuazione, quale destinatario, delle correlate conseguente negative) del prolungamento del fosso sul terreno del S.R. a quest’ultimo è adeguatamente motivata in base alle emergenze istruttorie maggiormente attendibili; peraltro, essendo pacifica la titolarità petitoria del fondo soprastante rispetto a quello dell’ A. in capo allo stesso S.R., è indubbio che egli, in tale qualità, alla stregua del dato letterale e della stessa “ratio” evincibili dal citato art. 913 c.c., comma 2, avesse lo specifico obbligo di evitare un deflusso delle acque più gravoso verso il fondo inferiore e di evitare che venissero eseguite opere sul proprio fondo tali da alterarne il deflusso ordinario, anche eventualmente ad opera di terzi, incombendo su di lui un correlato obbligo di vigilanza al fine di impedire interferenze di estranei sulla sua proprietà con l’adozione di condotte (eventualmente mediante l’esecuzione di interventi illegittimi) tali da comportare la violazione della menzionata norma.

7. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2A Sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 10 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2011

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