Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28906 del 17/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/12/2020, (ud. 17/11/2020, dep. 17/12/2020), n.28906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18087-2019 proposto da:

U.R., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE DELLE MILIZIE

38, presso lo studio dell’avvocato PARAVANI STEFANIA, rappresentato

e difeso dall’avvocato NANULA VALENTINA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 208/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata l’01/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dei 17/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. IOFRIDA

GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 208/2019, depositata l’1/2/2019, ha respinto la richiesta di U.R., cittadino del Pakistan, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria o umanitaria.

In particolare, la Corte d’appello, premesso che il Tribunale aveva ritenuto il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese d’origine, ritenendosi perseguitato per ragioni politiche, avendo ricevuto minacce dopo avere partecipato ad una manifestazione organizzata dal partito Mlq) non verosimile e non integrante i presupposti per il riconoscimento protezione sussidiaria, anche D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), ha rilevato che l’unico motivo di appello ineriva alla mancata considerazione delle circostanze allegate in relazione al Paese di transito, la Libia, in cui il richiedente non aveva inizialmente neppure dedotto di essere transitato, essendo venuto in Italia por un volo aereo, affermando che, nello specifico, non rilevava la situazione della Libia, essendo oltretutto coperta da giudicato la statuizione espressa in primo grado sulla non attendibilità del racconto del richiedente; con riguardo poi al Paese d’origine ed alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), il Pakistan, anche alla luce degli accreditati Report consultati (Ecoi del 2017), non era interessato da violenza indiscriminata; neppure ricorrevano i presupposti per

oLez’ umanitaria, in difetto di situazioni di personale vulnerabilità e non essendo sufficiente la sola integrazione in Italia e le soie condizioni di vita, ivi, più vantaggiose.

Avverso la suddetta pronuncia, U.R. propone ricorso per cassazione, notificato via PEC, affidato a due motivi, nei conftoriti dei Ministero dell’Interno (che non svolge difese).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti. Il ricorrente ha depositato memoria, con documenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, non avendo la Corte di merito assolto all’onere di cooperazione istruttoria previsto nella materia, avendo proceduto ad un esame sommario e superficiale; con il secondo motivo, si lamenta poi, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 TUI, comma 6, in relazione al mancato riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, malgrado il serio percorso di integrazione avviato in Italia.

2. Preliminarmente, risulta inammissibile la produzione documentale, effettuata dal ricorrente unitamente alla memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.. Invero, come già affermato da questa Corte (Cass.2431/1995; Cass.6656/2004; Cass.7515/2011), “nel giudizio innanzi alla Corte di cassazione, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c. non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero nullità inficianti direttamente la sentenza impugnata, nel quale caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., con la conseguenza che ne è inammissibile la produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c.”.

3. La prima censura è inammissibile, esaurendosi nella prospettazione di censure di merito avverso le puntuali motivazioni esposte nel provvedimento impugnato.

Deve osservarsi che la Corte d’appello, da un lato, ha specificato le ragioni – anche sulla base di dati tratti dalle fonti di informazione consultate – per le quali non ritiene sussistenti in Pakistan le condizioni estreme previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e, dall’altro lato, ha chiarito – con valutazione di merito insindacabile in sede di verifica di legittimità – che la narrazione della vicenda personale espressa dal richiedente era inattendibile.

In materia di protezione internazionale questa Corte ha da tempo chiarito che la valutazione in ordine alla credibilità soggettiva del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve stimare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, in forza della griglia valutativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c). L’apprezzamento, di fatto, risulta censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 05/02/2019 n. 3340; in tema, cfr. anche Cass. 27503/2018).

In relazione poi alla mancata attivazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, la Corte di merito ha ritenuto del tutto generico ed inattendibile il rischio allegato, sia ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato sia ai fini della protezione sussidiaria, valutato anche il contesto attuale del paese d’origine, il Pakistan.

Vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534); ma il Tribunale ha attivato il potere di indagine nel senso indicato.

Vengono qui richiamati i principi di diritto sul tema già espressi da questa Corte (Cass. 27593/2018; Cass. 27503/2018; Cass.29358/2018; Cass. 17069/2018; Cass. 29358/20183.

La doglianza è inammissibile perchè censura la valutazione delle prove contro il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito.

4. In relazione poi al diniego di protezione umanitaria, oggetto del secondo motivo, deve rilevarsi che la Corte di merito ha ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali, essendo state evocate mere difficoltà economiche. La pronuncia risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Ora, il ricorrente non ha dedotto alcunchè quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi ad un riferimento generico alla situazione di instabilità e violazione dei diritti umani del Pakistan e a un richiamo, altrettanto laconico, al rischio di subire nuove violenze (profilo, quest’ultimo, rispetto al quale risulterebbe comunque insuperabile l’accertamento dei giudici di merito, i quali hanno motivatamente escluso la credibilità della narrazione del richiedente).

Il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz’altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente: tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante, perchè altrimenti s finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 2007, art. 5, comma 6, che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei “seri motivi” attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, mali, ad esempio” le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare i suddetti fattori di vulnerabilità (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Inoltre, l’accertata – da parte del giudice di merito – situazione sostanzialmente stabile, dal punto di vista della violenza e degli scontri armati, nella regione di provenienza dell’istante, e che ha indotto la Corte di merito a denegare la protezione sussidiaria, non impedirebbe di certo al medesimo, stante la sua giovane età e le sue buone condizioni di salute, il reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine ai “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile ii ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2020

 

 

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