Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28906 del 12/11/2018

Cassazione civile sez. II, 12/11/2018, (ud. 26/09/2018, dep. 12/11/2018), n.28906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16402-2015 proposto da:

F.G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI

2, presso lo studio dell’avvocato GUERINO MASSIMO OSCAR FARES, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA SACCUCCI

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il

11/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/09/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento

del ricorso;

udito l’Avvocato Andrea Saccucci per il ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso depositato il 27 dicembre 2013, F.G.A. chiese alla Corte di Appello di Lecce la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze a corrispondergli l’equa riparazione per il danno non patrimoniale derivatogli dalla irragionevole durata di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Puglia in data 17.10.2001 e definito dal Consiglio di Stato con sentenza del 16.5.2013.

La domanda fu rigettata dal consigliere designato della adita Corte territoriale, con decreto del 18.2.2014.

2. Avverso tale decisione, il F. propose opposizione, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5 ter; ma l’opposizione fu respinta dalla stessa Corte di Appello di Lecce in composizione collegiale con ordinanza dell’11.12.2014. Rilevò la Corte territoriale che, quando era stato proposto il ricorso introduttivo (27.12.2013), la sentenza del Consiglio di Stato non era ancora passata in giudicato, non essendo scaduto il termine per proporre ricorso per cassazione decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza (16.5.2013); conseguentemente, non ricorreva la condizione dell’avvenuta definizione del procedimento presupposto, richiesta dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, ai fini della proponibilità della domanda di equa riparazione. Essendo stata la domanda proposta anzitempo, il ricorso doveva essere rigettato.

3. Per la cassazione del decreto che ha deciso sull’opposizione ricorre F.G.A. sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Economia e delle Finanze.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso, si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di Appello tenuto conto della certificazione rilasciata dalla cancelleria del Consiglio di Stato attestante che la sentenza di appello era passata in giudicato il 27.12.2013, giorno della proposizione del ricorso.

Col secondo motivo, si deduce poi – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, per avere la Corte territoriale ritenuto non accoglibile la domanda di equa riparazione proposta prima del passaggio in giudicato della sentenza che aveva definito il giudizio presupposto; si deduce anche l’illegittimità costituzionale della norma di cui alla detta L. n. 89 del 2001, art. 4, per violazione degli artt. 3,24,11 e 117 Cost., e degli artt. 6 e 13 CEDU, ove interpretata nel senso che essa non consente la proposizione della domanda prima che sia disceso il giudicato sulla sentenza che ha definito il giudizio presupposto.

2. Le censure sono fondate nei termini che seguono.

I giudici di merito hanno esattamente ritenuto che le sentenze del Consiglio di Stato divengono definitive, agli effetti della L. n. 89 del 2001, art. 4 (nel testo introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2102), solo dal momento in cui scadono i termini per proporre ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, rientrando tra tali motivi anche il c.d. eccesso di potere giurisdizionale, vizio che può emergere solo con la pubblicazione della decisione (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 25714 del 21/12/2015, Rv. 638074). E d’altra parte, la conclusione della Corte territoriale, secondo cui quando nella specie fu proposta la domanda di equa riparazione – non erano ancora scaduti i termini per proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato che ha definito il giudizio presupposto, non è stata neppure oggetto di puntuale censura da parte del ricorrente.

Tuttavia il provvedimento impugnato nel ritenere poi che la proponibilità della domanda di equa riparazione fosse esclusa prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio presupposto, si è parimenti conformato alla giurisprudenza di questa Suprema Corte.

Infatti, si era evidenziato che l’originario tessuto normativo della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) aveva subito significative modifiche ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 55, che ha – tra l’altro – sostituito proprio la L. n. 89 del 2001, art. 4., atteso che, mentre l’originario testo di tale ultima disposizione prevedeva che “La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”, – a seguito della riforma del 2012 – l’art. 4 legge Pinto stabilisce che “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.

La giurisprudenza di legittimità era però pervenuta alla esclusione di tale proponibilità a seguito di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore; valorizzando il fatto che la riforma del 2012 ha condizionato l’an e il quantum del diritto all’indennizzo alla definizione del giudizio, prevedendo anche una serie di ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo dipendenti dalla condotta processuale della parte e financo dall’esito del giudizio (condanna del soccombente a norma dell’art. 96 c.p.c.).

Si è così affermato, nella giurisprudenza di questa Corte suprema che costitutiva “diritto vivente”, che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, nel regime introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa dalla pendenza del giudizio presupposto (Sez. 2, Sentenza n. 19479 del 16/09/2014, Rv. 632159), dovendo ritenersi che il dies a quo, da cui computare il termine di sei mesi previsto a pena di decadenza per la proposizione della relativa domanda, è segnato dalla definitività del provvedimento conclusivo del procedimento nell’ambito del quale la violazione si assume consumata, definitività che va collocata al momento della scadenza del termine previsto per proporre l’impugnazione ordinaria (Sez. 6 – 1, Sentenza n. 13324 del 26/07/2012, Rv. 623537; Sez. 6 2, Sentenza n. 21859 del 05/12/2012, Rv. 624426) ovvero al momento del deposito della decisione della Corte di cassazione che rigetta o dichiara l’inammissibilità del ricorso, determinando così il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21863 del 05/12/2012, Rv. 624239).

3. Questa Corte, nell’ambito del presente procedimento ha però sollevato la questione di legittimità costituzionale con ordinanza n. 26402/2016, rilevando che, sebbene la conclusione secondo cui la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa durante la pendenza del giudizio nel cui ambito la violazione della ragionevole durata del processo si assume essersi verificata fosse stata condivisa dalla Corte costituzionale con la sentenza 25 febbraio 2014 n. 30, tuttavia il giudice delle leggi, nel vagliare la questione di legittimità costituzionale del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), (convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1) in riferimento all’art. 3 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, aveva ritenuto sussistente il denunciato vulnus delle norme costituzionali, come integrate dalle norme della CEDU in forza del parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost. (nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali), ritenendo che il differimento della esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività anche alla stregua del parametro di cui all’art. 13 CEDU.

In tale occasione aveva però ritenuto che l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non fosse ammissibile, “sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perchè la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo”.

La Corte costituzionale aveva pertanto invitato il legislatore ad intervenire per risolvere, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete, il vulnus costituzionale riscontrato, concludendo tuttavia che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia”.

Con la citata ordinanza si è però osservato che la legge n. 208 del 2015, intervenuta nelle more, non avesse risolto il problema oggetto del monito rivoltogli dalla Corte costituzionale, e ciò in quanto il sistema di rimedi preventivi introdotto dalla stessa, non sfiorava il problema della effettività della tutela indennitaria una volta che l’irragionevole durata del procedimento si sia verificata, come è evidenziato dal fatto che la nuova normativa ha lasciato inalterato il testo della L. n. 89 del 2001, art. 4, (come sostituito del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d)), che detta i termini di proponibilità della domanda di equa riparazione.

In particolare, il Collegio ha ritenuto che, anche a seguito della L. n. 208 del 2015, fosse rimasto irrisolto il problema del differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento presupposto; problema che presenta perduranti profili di illegittimità costituzionale del vigente testo della L. n. 89 del 2001, art. 4 – in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, – nel momento in cui si risolve nella definitiva inammissibilità della domanda proposta durante la pendenza del procedimento presupposto, pur quando, nelle more, il provvedimento che ha definito quest’ultimo sia passato in cosa giudicata.

Per l’effetto è stata dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, e art. 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848.

4. La Corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 26 aprile 2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 4 nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

Il giudice delle leggi, dopo avere richiamato quanto in precedenza affermato con la propria sentenza n. 30/2014, ha condiviso la valutazione di questa Corte circa il fatto che i rimedi preventivi introdotti dalla L. n. 208 del 2015 si rivelavano inadeguati, e ciò sia in ragione della loro inapplicabilità alle vicende nelle quali era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale (tra cui anche il presente procedimento) nei quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo aveva superato la soglia della ragionevolezza, sia in ragione della carenza del requisito della effettività.

In tal senso richiamava la giurisprudenza della Corte EDU che “ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente” (Corte Europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

Piuttosto, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall’altro, per espressa previsione normativa, “(r)estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti” (art. 1-ter, comma 7 Legge Pinto come modificata), considerazioni queste che inducevano a ritenere che ne fosse pregiudicata la concreta efficacia acceleratoria, come peraltro affermato anche dalla Corte EDU nella sentenza del 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia, quanto alla previsione in ordine all’istanza di prelievo alla cui formulazione il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo amministrativo.

Tale istanza, individuata come archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività.

Pertanto, la Corte Costituzionale è pervenuta alla conclusione per cui, nonostante l’invito rivolto con la sentenza n. 30/2014, il legislatore non aveva rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, la L. n. 89 del 2001, art. 4 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).

Ha inoltre precisato che l’invocata pronuncia additiva non poteva essere impedita dalle peculiarità con cui la Legge Pintoconforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato (sentenza n. 30 del 2014), atteso che, “(p)osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (…) omette di prevedere. (…) Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione” (sentenza n. 113 del 2011).

5. Alla luce dell’intervento di incostituzionalità del giudice delle leggi, il ricorso deve quindi essere accolto, atteso che il rigetto della domanda indennitaria cui sono pervenuti i giudici di merito è conseguenza dell’applicazione della norma dichiarata illegittima, non sussistendo quindi impedimenti alla possibilità per la parte che si assume pregiudicata dalla durata irragionevole del processo, di poter richiedere l’indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001 anche in pendenza del giudizio presupposto.

L’ordinanza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

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