Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 289 del 09/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 289 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA
sul ricorso 25720-2010 proposto da:
MINISTERO DELL’ ISTRUZIONE, DELL’ UNIVERSITA’ E DELLA
RICERCA 80185250588, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in
ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– ricorrente –

2013

contro

2741

IODICE

FABIO

DCIFBA49M15H501Z,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio
dell’avvocato ANDREONI AMOS, che lo rappresenta e

Data pubblicazione: 09/01/2014

difende giusta delega in atti;
– controricorrente nonchè contro

DE GREGORIO MICHELE;
– intimato –

MINISTERO DELL’ ISTRUZIONE, DELL’ UNIVERSITA’ E DELLA
RICERCA 80185250588, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in
ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– ricorrente contro

IODICE

FABIO

DCIFBA49M15H501Z,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio
dell’avvocato ANDREONI AMOS, che lo rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– controri corrente nonchè contro

DE GREGORIO MICHELE;
– intimato ,V1 P71

avverso la sentenzaln. 7669/2009 della CORTE D’APPELLO
46- -1-P 4

562

di ROMA, depositata il 16/02/205i -7 avverso la
sentenza n. 5123/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 23/08/2011 r.g.n. 7045/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

sul ricorso 27463-2011 proposto da:

udienza del 01/10/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato STEFANO VARONE;
udito l’Avvocato ANDREONI AMOS;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore

rigetto.

Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per il

SVOGLIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza non definitiva del 16.2.2010, la Corte di Appello di Roma accoglieva per
quanto di ragione il gravame di lodice Fabio e, in parziale riforma della decisione
impugnata, dichiarava il diritto del predetto a svolgere, presso il Ministero appellato,
l’incarico di direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale delle Marche, o altro di livello
equivalente, per la durata corrispondente a quella che residuava sino alla scadenza

esclusione del ristoro del danno già riconosciuto in primo grado. Disponeva la
prosecuzione del giudizio per la delibazione della domanda con riguardo agli ulteriori profili
di danno dedotti. Rilevava la Corte del merito che lo lodice, destinatario, con D.P.C.M.
1.2.2001, di incarico dirigenziale avente durata quinquennale, con scadenza al
31.12.2006, a seguito della entrata in vigore della I. 15 luglio 2002 n. 145, con nota del

,
24.9.2002, era stato dichiarato decaduto dallo stesso e che, in sostituzione dell’originalitO
incarico, gli era stato attribuito quello di studio, con mantenimento del precedente
trattamento economico per carenza di disponibilità di idonei posti di funzione nell’ambito
dello stesso Ministero. Con nota del 25.9.2002, lo stesso incarico era stato, invece,
conferito a De Gregorio Michele ed in pari data era stato proposto il conferimento ad altri
dirigenti di seconda fascia degli incarichi di direzione generale inerenti i restanti uffici
Scolastici Regionali, equivalenti a quello affidato in precedenza allo lodice. Il giudice del
gravame accoglieva la domanda di risarcimento del danno in forma specifica, considerato
l’inadempimento della P. A., la quale non aveva dimostrato l’impossibilità sopravvenuta di
adempiere le proprie obbligazioni, non potendosi a tal fine rilevare né l’attribuzione degli
incarichi di prima fascia ad altri dirigenti, né le successive modificazioni organizzative delle
strutture del Ministero medesimo, che non dimostravano l’impossibilità di conferimento allo
lodice di altro incarico di pari livello. Per effetto dell’intervento della sentenza della Corte
Costituzionale 103/2007, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3,
comma 7, della legge 145/2002 (che prevedeva la cessazione degli incarichi dirigenziali

ante tempus senza garanzie procedimentalì, in attuazione dello spoils system) e della
retroattività della detta pronunzia, doveva ritenersi la reviviscenza ex tunc del vincolo
contrattuale, del quale non era stata dimostrata l’impossibilità di ripristino al momento della
dedotta risoluzione e per il periodo immediatamente successivo. Peraltro, l’art. 14 sexies
comma 1 del d. I. 115/2005, convertito in I. 168/2005, aveva ricondotto la durata degli
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naturale dell’incarico medesimo, e dichiarava il correlativo obbligo dell’appellato, con

incarichi dirigenziali entro il limite minimo di tre anni e massimo di cinque, prevedendo la
possibilità di riconferma a seguito di una valutazione complessiva dell’incarico svolto, in
base a procedure di verifica previste dalla contrattazione collettiva di comparto e, pertanto,
il dirigente, in assenza di valutazioni negative, aveva una aspettativa particolarmente
qualificata ad ottenere il conferimento di un incarico almeno equivalente, nella specie,
attesa l’illegittima privazione, avente la consistenza di un diritto soggettivo in forza del

Cost. 351/2008, veniva, poi, rilevato dalla Corte del merito, che, nel settore pubblico, le
limitazioni al potere di esonerare un dirigente dall’incarico erano previsti a protezione di più
generali interessi collettivi, quali l’imparzialità amministrativa ed il buon andamento,
pregiudicati da un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescindesse dalla
verifica dei risultati conseguiti, sicchè doveva essere emanata un pronunzia di
adempimento in forma specifica, come avallato da Cass., s. u., n. 3677/2009. L’inidoneità
alla esecuzione di una tale pronuncia doveva, poi, essere valutata nella fase esecutiva e
non era ostativa alla pronunzia di reintegra per il periodo non svolto dell’incarico, ossia fino
al compimento del termine di residua durata dello stesso, detratto il periodo già trascorso
dall’originario conferimento alla data di illegittima cessazione. L’accordato risarcimento
per equivalente non era, tuttavia, secondo la Corte d’appello, compatibile con la pronunzia
di risarcimento anche di ulteriore danno, attesa l’inammissibile duplicazione della sanzione
riparatoria, che era stata riconosciuta monetizzando il pregiudizio patrimoniale causato
dallo svolgimento, nel predetto arco temporale, di un incarico di livello inferiore e dal
godimento di un trattamento retributivo meno favorevole. Le ulteriori voci di danno
richieste, relative a perdita di chance, al danno morale/esistenziale, dovevano essere
valutate in sede di ulteriore approfondimento istruttorio.
Con sentenza definitiva resa il 23.8.2011, la stessa Corte d’appello, in ulteriore riforma
della sentenza del Tribunale di Roma del 19.2.2008, condannava il M.I.U.R. a pagare a
lodice Fabio, a titolo di risarcimento del danno subito per effetto dell’illegittima revoca
dell’incarico dirigenziale, una somma pari al 25% delle differenze tra la retribuzione
percepita e quella che gli sarebbe spettata quale dirigente di prima fascia a decorrere
dall’1.2.2006 al 3.2.2010, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, nonchè
l’ulteriore somma di euro 44.000,00 oltre accessori; dichiarava inammissibile la domanda

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contratto di conferimento del 1.2.2001, con scadenza il 31.12.2006. Richiamando Corte

di risarcimento del danno pensionistico e rigettava ogni altra domanda proposta dallo
lodice.
Premesso che l’ambito dalla pronunzia era circoscritta alla liquidazione dei danni sofferti
dal ricorrente per effetto della privazione dell’incarico dirigenziale in precedenza
conferitogli sino al 31.1.2006, avvenuta a far data dall’8.10.02, già ritenuta illegittima dalla
stessa Corte, il giudice del gravame rilevava che la tutela in forma specifica era stata

riferimento ai danni alla professionalità, ivi compresa la perdita di chance, ed a quello
morale/esistenziale, laddove la pretesa dell’appellante non poteva trovare accoglimento
per il risarcimento parametrato alle differenze tra trattamento del dirigente di prima fascia e
quello conseguito per il periodo compreso tra l’illegittima revoca e la naturale scadenza
dell’incarico, ostandovi le statuizioni della decisione non definitiva. Osservava che non era
sufficiente che fosse dimostrata la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale,
incombendo al lavoratore l’onere di fornire la prova del danno in concreto subito e che,
trovando applicazione la norma precedente a quella introdotta dall’art. 14 sexies comma 4
d. I. 115/05 conv. in legge 168/2005, che aveva ridotto a tre anni il termine per il passaggio
alla prima fascia, nella specie la perdita di chance dedotta si era verificata, essendo
venuta meno la possibilità di transitare definitivamente nel primo livello dirigenziale alla
scadenza del quinquennio, ossia dall’1.2.2006, e quella conseguente di ricevere da tale
data altro incarico dirigenziale di primo livello. Tenuto conto del fatto che dal 5.2.2010
all’appellante era stato conferito nuovo incarico dirigenziale di primo livello, con relativo
trattamento economico, il risarcimento era quantificato in via equitativa in misura pari al
25% della differenza tra retribuzione percepita e quella che gli sarebbe spettata quale
dirigente di prima fascia a decorrere dall’1.2.2006 al 5.2.2010. Quanto al pregiudizio
connesso all’impoverimento della capacità professionale acquisita e dalla mancata
acquisizione di maggiori capacità ed esperienze aventi natura patrimoniale, la prova era
desunta in via presuntiva in base ad un ragionamento probabilistico basato su fatti noti,
quali durata della sostanziale inattività, incarico di studio e incarico di dirigente di secondo
livello privi di contenuti teorici ed operativi come dedotto e non contestato ex adverso,
entità del demansionamento, pressoché totale inoperosità, rilevanza delle mansioni di cui
era stato privato, caratterizzate da consistente complessità. Non rilevava, poi, quanto
previsto dall’art. 19 comma D. Igs 165/2001 in relazione all’impossibilità di applicazione
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ritenuta con sentenza non definitiva compatibile con il risarcimento per equivalente con

dell’art. 2103 c. c., atteso che l’ambito di esclusione dell’ operatività della norma era da
ritenere circoscritto alle ipotesi di esercizio legittimo dei poteri di conferimento di incarichi
dirigenziali e che la inapplicabilità della stessa non poteva valere a legittimare una forzata
e protratta inattività del dirigente, posto che la P.A. era tenuta al rispetto dei criteri di cui
alle determinazioni negoziali assunte con le capacità ed i poteri del datore di lavoro
privato, improntate ai principi di correttezza e buon fede applicabili alla stregua dei principi

consentivano di riassegnare lo lodice al medesimo incarico al momento dell’illegittima
risoluzione del rapporto, e non aveva ottemperato al disposto di attribuire un incarico di
livello retributivo equivalente, pur nell’accertata presenza (sentenza non definitiva) di
incarichi dirigenziali disponibili. Pertanto, essendosi ingenerato il sospetto nell’ambiente di
lavoro che lo lodice fosse privo delle necessarie capacità professionali, doveva ritenersi
che sussistessero elementi inequivoci idonei a palesare la sussistenza anche del danno
non patrimoniale, onde la liquidazione per i danni alla professionalità e morali poteva
ascendere in via equitativa, all’attualità, ad euro 44.000,00, considerato un importo di euro
500,00 per ciascun mese intercorso tra il 5.2.2010 el’8.10.2002.
Per la cassazione della sentenza non definitiva ricorre, con unico motivo, il M.I.U.R., che
propone ricorso, affidato a sette motivi di impugnazione anche avverso la sentenza
definitiva.
Resiste ad entrambi i ricorsi, con controricorsi, lo lodice, che illustra le proprie difese con
memorie, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. De Gregorio Michele è rimasto intimato in entrambi i
procedimenti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va disposta la riunione al ricorso proposto avverso la sentenza non
definitiva di quello, successivo, proposto avverso la pronuncia definitiva emessa all’esito di
procedimento pendente tra le stesse parti, per la coincidenza delle parti e la connessione
delle questioni che ne costituiscono l’oggetto.
Con il ricorso avverso la sentenza non definitiva, il Ministero si duole della violazione
dell’art. 97 Cost., dell’ art. 14 sexies D. L. 155/2005 conv. in legge 168/2005, dell’ art. 19 d.
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di cui all’art. 97 Cost.. Peraltro, l’amministrazione non aveva provato le ragioni che non

Igs. 165/2001, dell’art. 11, co. 4, d. Igs. 29/93, Dpr 319/03, degli artt. 1218, 1236 e 2058 c.
c., nonché della motivazione insufficiente e contraddittoria, invocando il principio generale
della limitazione temporale degli incarichi, desumibile dalla disciplina dello stato giuridico
dei dirigenti, che trova fondamento nell’art. 97 Cost., ed osservando che tale principio sia
stato disatteso laddove non è stata conferita rilevanza alla circostanza che la durata
dell’incarico originario era da tempo scaduta e che nel periodo temporale tra il 2001 ed il

impossibilità di dare per acquisita l’idoneità dello lodice a conseguire obiettivi
completamente diversi da quelli originari, donde la impossibilità di risarcimento in forma
specifica. Rileva che, quand’anche non avesse mai avuto vigore l’art. 3, comma 7, I.
145/2002, l’incarico dirigenziale generale conferito sarebbe comunque cessato per effetto
dell’entrata in vigore del nuovo regolamento che aveva ridisegnato l’assetto organizzativo
dei preesistenti Ministeri (DPR 319/2003) con largo anticipo rispetto alla scadenza
originaria.
Il ricorso va respinto.
La legge 145/02 disciplina, tra l’altro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali,
attribuendo all’atto di conferimento la funzione di indicare in modo specifico l’oggetto, gli
obiettivi e la durata dell’incarico. Nella normativa in questione risulta accentuata la natura
pubblicistica dell’atto di conferimento e il contratto che vi accede diviene mero strumento
determinativo del trattamento economico. Vengono, peraltro, ridefiniti i limiti massimi di
durata dell’incarico, fissati in tre anni per i dirigenti generali e in cinque anni per gli altri
dirigenti, eliminandosi la previsione di un termine minimo, con accentuazione del carattere
fiduciario della nomina dei dirigenti e della loro dipendenza dall’organo di vertice politico.
La cessazione dall’incarico si determina automaticamente,

ex lege, salva possibilità di

conferma entro un certo periodo di tempo, ma la cessazione non ha alcuna possibilità di
controllo giurisdizionale, non richiedendo la legge alcun obbligo di motivazione, né alcun
contraddittorio con l’interessato. La cessazione dall’incarico, infatti, non avviene in
relazione alla valutazione oggettiva dei risultati ottenuti dal dirigente, ma solo in ragione
della determinazione politica di “svuotare” i ruoli dirigenziali esistenti per provvedere alla
nomina di nuovi dirigenti. La legge 145/2002 (recante disposizioni per il riordino della
dirigenza statale) prevede (art. 3, comma 7) che gli incarichi di funzione dirigenziale
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2010 si era determinato un totale mutamento degli obiettivi da conseguire, con

generale cessano il 60° giorno dall’entrata in vigore della legge ed introduce in tal modo un
effetto di “precarizzazione” della funzione dirigenziale pubblica.
Con sentenza n. 103/2007, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 7, della I. 15 luglio 2002, n. 145, nella parte in cui dispone che gli
incarichi dirigenziali cessino il sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della stessa
legge. Secondo la Corte la norma impugnata, prevedendo per gli incarichi dirigenziali di

termine stabilito, si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, violando il
principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello del
buon andamento dell’azione stessa. La Corte ricorda che il rispetto del canone
dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa implica una valutazione fondata sui
risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico.
Invece, la previsione di un’anticipata cessazione ex

lege dell’incarico dirigenziale

deresponsabilizza il dirigente dall’assunzione dei risultati amministrativi e rende arbitraria
l’adozione di poteri di rimozione causalmente giustificabili soltanto nell’ottica della
rispondenza ad un pubblico superiore interesse e non certo alla circostanza transeunte del
mutamento dell’organo investito del potere di nomina.
La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può, dunque, essere
conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di
determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente
disciplinato; viceversa, l’ipotesi di risoluzione automatica consentirebbe di fatto al solo
Governo in carica di provvedere alla nomina di personale di propria fiducia da collocare al
vertice di tutti gli uffici.
Per la Corte costituzionale l’attuale assetto della dirigenza pubblica pone in relazione il
buon andamento della pubblica amministrazione con l’efficacia e l’efficienza dell’azione
amministrativa: il buon andamento, tuttavia, non può prescindere dall’imparzialità
dell’amministrazione pubblica e dei suoi organi, che è alla base della distinzione tra attività
politica e attività amministrativa.
La Corte di appello di Roma correttamente ha rilevato come la declaratoria di
incostituzionalità della norma citata abbia privato di ogni fondamento i consequenziali atti
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livello generale una interruzione automatica del rapporto di ufficio prima dello spirare del

di gestione del rapporto di lavoro adottati proprio sul presupposto della vigenza dell’art. 3
comma 7 I. 145/2002, con riviviscenza dell’originario rapporto contrattuale con
l’Amministrazione, che riprendeva a produrre i suoi effetti sinallagmatici sino alla prevista
data di sua scadenza naturale Ha, poi, evidenziato come nel caso in esame non si fosse
di fronte ad un caso di passaggio da un incarico dirigenziale ad un altro, ma ad una
ipotesi di illegittima privazione di uno specifico incarico già attribuito, rispetto al quale

In coerenza con quanto affermato da Cass. 16.6.2009 n. 3677, ha, poi, rilevato come
l’attribuzione del solo risarcimento non avrebbe costituito effettivo rimedio, nel settore
pubblico, sul piano degli strumenti di tutela, neanche degli interessi collettivi lesi da atti
illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi (principio della imparzialità amministrativa,
con cui secondo Corte Cost. n. 104/2007, contrasta un regime di automatica cessazione
dell’incarico che non rispetti il giusto procedimento; principio del buon andamento, che
risulta pregiudicato da un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescinda
dall’accertamento dei risultati conseguiti). Non coglie nel segno, pertanto, il motivo di
ricorso teso ad evidenziare l’inapplicabilità della tutela in forma specifica ex art. 2058 c. c.
e l’insussistenza di una situazione di fatto che consentisse la riassegnazione del
dipendente allo stesso incarico dirigenziale a distanza di più anni dalla scadenza naturale
dell’incarico cessato anticipatamente. Al riguardo, invero, questa Corte, nella pronunzia
3677/09 citata, ha evidenziato che l’impedimento di fatto non assume rilevanza “giacché
una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità
ad essere eseguito in forma specifica” e che vengono in causa i consueti limiti che
incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla
fase esecutiva, in cui, peraltro, non può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del
datore — verificatosi, peraltro, nella specie, come desumibile dalla richiesta, avanzata
all’odierna udienza, di declaratoria di cessazione della materia del contendere -. Ogni
altro profilo di erroneità della sentenza denunziato in ricorso risulta pertanto non
ravvisabile in base ai principi richiamati, evidenziandosi come neanche sia pertinente il
rilievo secondo il quale, anche ove non avesse mai avuto vigore l’art. 3, comma 7, I.
145/2002, in ogni caso l’incarico dirigenziale sarebbe cessato comunque per effetto
dell’entrata in vigore del nuovo regolamento che aveva ridisegnato l’assetto organizzativo
dei preesistenti Ministeri. Ed invero, non risulta chiarito in quali termini tale riassetto
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l’interesse dello lodice aveva ormai acquisito lo spessore di un diritto soggettivo.

organizzativo avrebbe in concreto inciso sull’incarico conferito e sulla durata dello stesso,
la cui anticipata risoluzione, per effetto del richiamo ai principi su esposti, ha comportato il
corretto riconoscimento del diritto dello lodice alla riassegnazione dell’ incarico
illegittimamente dichiarato cessato, o di assegnazione di altro equivalente, ex art. 13, 4°
comma, coni per i Dirigenti di Ministeri ed aziende per il restante e non svolto periodo di
durata dello stesso, ossia per cinque anni (conferimento in data 1.2.2001 — scadenza

illegittima cessazione in data 7.10.2002.
Con il secondo ricorso, proposto avverso la sentenza definitiva, il Ministero deduce, con il
primo motivo, violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c. c. e dell’art. 19 d. 1gs.
165/2001 in riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., rilevando l’inapplicabilità, in materia di
lavoro pubblico dirigenziale, dell’art. 2103 c. c., in ragione della possibilità di mutamento di
mansioni affidate con incarico a termine, in relazione al nuovo assetto legislativo
preclusivo dell’applicabilità della norma codicistica ai conferimenti di incarichi ed al
passaggio ad incarico diverso. Assume, inoltre, il ricorrente, che lo lodice non era rimasto
inattivo, ma era stato impegnato in incarichi di natura dirigenziale e che la P. A. aveva
congruamente motivato la propria scelta rispetto ad incarico cessato ex lege .
Con il secondo motivo, l’amministrazione denunzia violazione e falsa applicazione dell’ art.
115 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c. c., all’art. 432 c.p.c. e dell’ 1226 c.c., in riferimento
all’art. 360, n. 3, c.p.c., richiamando Cass. n. 6572/2006 per sostenere che la pronunzia
impugnata sia contraria ai principi affermati dalla sentenza di legittimità invocata, laddove,
in mancanza di allegazioni sulla natura e caratteristiche del danno esistenziale, ha
determinato il danno in via equitativa, ritenendo il danno alla reputazione personale e
professionale connesso all’immotivato mancato reincarico ed all’eco sulla stampa delle
dichiarazioni circa lo stesso. Assume che le allegazioni della parte al riguardo difettassero
integralmente, non potendo verificarsi da quali elementi del processo il giudice avesse
tratto il suo convincimento. Deduce, altresì, che non possa adottarsi il criterio equitativo in
mancanza di un valido riconoscimento della relativa pretesa.
Con il terzo motivo, il Ministero lamenta violazione e falsa applicazione dell’ art. 115 c.p.c.,
in relazione agli artt. 1218, 2697, 2727, 2729, 1223 e 1226 c.c., in riferimento all’art. 360,
n. 3, c.p.c. rilevando che, quanto alla perdita di chance collegata alla anticipata risoluzione
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31.1.2006), detratto il periodo già trascorso dal conferimento dell’incarico alla data di

del rapporto, non sono stati forniti elementi istruttori atti a dimostrare, anche in via
presuntiva, la sussistenza di una rilevante probabilità che le circostanze dedotte si
concretizzassero, essendosi la sentenza basata su illazioni imprevedibili e putative.
Assume che sia stata violata la disciplina in tema di liquidazione del danno, anche in
relazione al requisito del nesso di causalità tra l’illecito ed il danno di cui si chiede il ristoro.
Con il quarto motivo, il ricorrente si duole dell’insufficiente e contraddittoria motivazione

denunciando l’erroneità della sentenza per avere individuato il presupposto della
condanna risarcitoria non sulla base delle allegazioni della parte, la cui prova avrebbe
potuto fornire anche in via presuntiva, ma sulla base di illazioni, senza che sussistessero
elementi sulla cui base procedere al doveroso giudizio prognostico. Assume che in realtà
l’amministrazione è stata chiamata a rispondere dell’illecito consistente nell’anticipata
cessazione dell’incarico di dirigenza generale, pure avendo affermato il giudice del
gravame che l’ambito della pronunzia era circoscritta alla liquidazione dei danni sofferti per
effetto della privazione dell’incarico, già ritenuta illegittima dalla Corte con sentenza non
definitiva, sanzionata con la reviviscenza dell’originario rapporto contrattuale.
Con il quinto motivo, ascrive alla sentenza impugnata violazione e falsa applicazione
dell’art. 2058 c. c., in riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c. quanto alla liquidazione del danno
da perdita di chance, cui il giudicante è pervenuto, secondo il Ministero, in contrasto con il
principio della cd. priorità logico-giuridica del risarcimento in forma specifica rispetto a
quello per equivalente desumibile dall’art. 2058 c. c. e consentendo una iperprotezione del
danneggiato, già ampiamente soddisfatto dal rimedio in forma specifica.
Con il sesto motivo, il M.I.U.R. allega violazione e falsa applicazione dell’ artt. 115 c.p.c. in
relazione agli artt. 1218, 2727, 2729, 1223 e 1226 c. c., in riferimento all’art. 360, n. 3,
c.p.c., asserendo che la Corte del merito non poteva pervenire alla decisione assunta in
ordine al danno alla professionalità, avente carattere patrimoniale, considerando solo la
durata del periodo di inattività e la sostanziale ritenuta inoperosità dello lodice preclusiva
dell’acquisizione di ulteriore esperienza professionale, atteso che il predetto non era
rimasto inattivo e che dalla differenza della natura degli incarichi non poteva dedursi tout

court l’esistenza di un danno da demansionamento. Rileva che l’art. 19 del decreto
legislativo n. 165/2001 prevede che ai dirigenti cui non sia riattribuito l’incarico in
9

circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360, n. 5, c.p.c.,

precedenza svolto è conferito un incarico di pari livello retributivo e, ove ciò non sia
possibile, un incarico di studio con il mantenimento del trattamento economico.
Infine, con il settimo motivo, denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360, n. 5, c.p.c.,
osservando che lo svolgimento di un incarico di studio porta a ritenere non tanto un danno
alla professionalità, quanto lo svolgimento di un’attività qualificata, per la quale è stata

della P. A. era stato posto in essere in ossequio a quanto disposto dall’art. 3 comma 7 I.
145/2002 e che peraltro la Corte ha dedotto l’esistenza del danno non dalla risoluzione
anticipata dell’incarico di dirigente generale sofferta dalla lodice (così come delimitato
l’ambito della controversia dal giudice del gravame) ossia dalla condotta illecita di cui è
chiamato a rispondere il M.I.U.R., ma da altra e diversa situazione, ossia dalla mancata
attribuzione al predetto dell’incarico di cui è stato privato o di incarico equivalente
I primi sei motivi sono destituiti di giuridico fondamento.
Quanto al primo di essi è sufficiente osservare che nella specie si tratta di incarico del
quale era stata disposta la cessazione prima della sua scadenza naturale, sicchè non
vengono in rilievo i principi richiamabili in sede di conferimento di nuovo incarico alla
scadenza del precedente, in base ai quali deve escludersi che la disciplina del lavoro
pubblico sia compatibile con il precetto dettato dall’art. 2103 c. c. sia nella parte in cui
attribuisce al prestatore di lavoro il diritto di essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto, sia in quella che impedisce la destinazione a compiti non equivalenti agli ultimi
espletati e vieta in ogni caso diminuzioni della retribuzione, sia, infine, in quella che
preclude al datore di lavoro di assegnare compiti i quali, pure equivalenti per livello di
importanza, di posizione funzionale e di retribuzione, risultino totalmente estranei al
patrimonio professionale posseduto dal dipendente. Vero è che la qualifica, nel sistema
disegnato dalle norme di cui al D. Igs. 165/2001, non esprime più una posizione
lavorativa inserita nell’ambito di una “carriera” e caratterizzata dallo svolgimento di
determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente che
tale qualifica ha conseguito (cfr. Cass. 22.12.2004 n. 23760; Cass. 19.12.2008 n. 29817) e
che, nel lavoro pubblico, vige il principio generale secondo cui alla qualifica dirigenziale
corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di
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percepita la retribuzione di risultato. Non era stato, poi, considerato che il comportamento

qualunque tipo, che non consente perciò – anche in presenza dell’espressa previsione di
cui all’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilita per le amministrazioni statali – di ritenere
applicabile l’art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche
professionalità acquisite non compatibile con lo status del dirigente pubblico, con la sola
eccezione della dirigenza tecnica (cfr. Cass. 15.2.2010 n. 3451). Tuttavia, come sopra
osservato, non si verte nell’ipotesi di conferimento di nuovo incarico, bensì in quella di

peraltro, l’assunto secondo il quale lo lodice non era rimasto inattivo, ma assegnato a
compiti diversi in base a motivazioni congrue, attiene a valutazioni di merito che non
possono trovare ingresso nella presente sede di legittimità, dal momento che nell’ambito di
detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma
solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame
e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del
proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e
concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i
fatti in discussione (cfr. in tal senso, tra le tante, Cass. 18.3.2011 n. 6288, Cass., ord. sez.
6°, 6.4.2011 n. 7921, Cass. 31.12.2009 n. 27162, Cass. 15693/2004, 11936/2003).
La Corte del merito ha al riguardo rilevato che lo lodice era stato costretto in una
condizione di pressoché totale inattività, senza che l’amministrazione avesse esplicitato e
provato, come era suo onere, le ragioni che non consentivano di riassegnarlo allo stesso
incarico, cui invece era stato assegnato il De Gregorio, o di disporne l’assegnazione ad
incarico equivalente, risultato disponibile nell’amministrazione di appartenenza.
La seconda censura si rivela generica e smentita dall’indicazione di vari elementi posti a
fondamento dell’esame in ordine alla sussistenza del danno alla professionalità
(inoperosità protratta connessa agli incarichi solo formalmente attribuiti, mancata
assegnazione di strumenti di lavoro e ufficio, etc.), sicchè la pronuncia sull’an debeatur,
preliminare rispetto alla applicazione del criterio equitativo, erroneamente è stata indicata
come assunta in contrasto con i principi di Cass. 6572/2006 . Ed invero, secondo quanto
affermato in tale pronunzia, assume precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità,
conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione,
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illegittima declaratoria di anticipata cessazione di incarico di durata quinquennale e,

frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali
reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione
dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) è
consentito, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto,
ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle
nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento

condotto l’esame svolto dalla Corte di merito, valorizzando il coacervo di elementi utili alla
individuazione del danno.
Infondato è anche il motivo che rileva l’erroneo sviluppo del ragionamento presuntivo in
ordine all’accertamento del danno da perdita di chance. Ed invero, per l’illegittima disposta
cessazione dell’incarico di prima fascia il dirigente ha perso la possibilità di transitare
definitivamente nel primo livello dirigenziale alla scadenza naturale del contratto, cui
sarebbe conseguita la obbligatoria attribuzione di incarichi dirigenziali corrispondenti in
epoca di gran lunga antecedente rispetto a quella del conseguimento effettivo, avvenuto
soltanto nel 2011.
Con il quarto motivo non si censura adeguatamente la pronunzia, poiché non si assume
né la presenza di vizi motivazionali aventi carattere di decisività, idonei a scalfire l’impianto
argomentativo della decisione, e si prospetta una duplicazione del danno laddove il
giudice del gravame ha espressamente escluso la possibilità di riconoscere all’appellante,
in aggiunta alla reintegrazione del danno in forma specifica, anche il risarcimento del danno per equivalente consistente nella monetizzazione del pregiudizio patrimoniale
causato dallo svolgimento, nell’arco temporale dall’8.10.2002 al 31.1.2006 , di un incarico
dirigenziale di livello inferiore e dal godimento di un corrispondete trattamento retributivo
meno favorevole.
Il quinto motivo, sia pure nella differente articolazione di una deduzione di vizio di
violazione di legge, si ricollega al precedente, nel prospettare una duplicazione risarcitoria
in relazione al danno consistente nella illegittima privazione dell’incarico dirigenziale per
effetto della sua illegittima anticipata cessazione, laddove, per quanto già detto, il danno
da perdita di chance è individuabile nel mancato conseguimento della fascia di primo
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presuntivo e nella valutazione delle prove. In tal prospettiva di valutazione è stato

livello dirigenziale alla scadenza del quinquennio dal conferimento del precedente e quindi
è riferito ad un periodo non coperto dalla reintegrazione in forma specifica.
Quanto al sesto motivo, attinente al riconoscimento del danno alla professionalità, lo
stesso si sostanzia in una critica alle valutazioni di merito compiute dal giudice del
gravame, non prospettabile nei termini generici in cui è stata formulata nella presente
sede, a fronte di una compiuta disamina da parte della Corte d’appello della portata

al rispetto dei criteri di massima in essa indicata, anche per il tramite delle clausole
generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c. c.) applicabili alla stregua dei
principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. ed indicative della
necessità di idonea giustificazione della scelta di altri dirigenti ritenuti maggiormente idonei
rispetto allo stesso incarico (De Gregorio Michele), ovvero meritevoli di nomina in incarichi
dirigenziali di prima fascia equivalenti.
Il rilievo della contraddittorietà della decisione evidenziato nel settimo motivo in relazione
alla ravvisata contrarietà del comportamento della P. A. a buona fede e correttezza in
base al contenuto dell’art. 3 co. 7 I. 145/02, norma dichiarata incostituzionale non al
momento della commissione del fatto, ma solo successivamente, deve, invece, ritenersi
fondato. Al riguardo è sufficiente richiamare il principio da ultimo affermato da questa
Corte, in base al quale la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda
l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili neanche ai rapporti pregressi, non
ancora “esauriti”, ma non consente di configurare retroattivamente, quanto fittiziamente, la
“colpa” del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia “conformato” il
proprio comportamento alle norme, solo successivamente, investite da quella declaratoria
(cfr. Cass. 9.1.2013, n. 355). Ne deriva che, in caso di illegittima risoluzione anticipata di
incarico dirigenziale disposta da norma di legge poi dichiarata illegittima, nella specie dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 103/2007, spetta al dirigente il risarcimento del
danno derivato dall’anticipata risoluzione del rapporto, ma tale danno, considerato che
nella fattispecie la colpa dell’agente è elemento essenziale dell’illecito, è risarcibile solo dal
giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale e non dalla
data di cessazione del rapporto o da data antecedente alla indicata pubblicazione.

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dell’art. 19, comma 1, del d. Igs 165/2001, che obbliga l’amministrazione datrice di lavoro

In tal senso deve, pertanto, ritenersi erronea la decisione laddove ha proceduto alla
determinazione dei danni da perdita di chance ed alla professionalità con riferimento al
periodo decorrente dalla data di cessazione naturale dell’incarico per il primo e dalla
disposta anticipata risoluzione del rapporto (8.10.2002) per il secondo e per i danni morali,
laddove doveva aversi riguardo unicamente al periodo intercorrente tra la data di
pubblicazione della pronunzia di illegittimità costituzionale (28.3.2007) e quella del

della data del 28.3.2007.
La sentenza definitiva della Corte di appello impugnata deve essere cassata in relazione
all’accoglimento del motivo da ultimo esaminato, e nei termini derivanti dall’applicazione
del principio sopra richiamato dovrà, pertanto, essere condotto il nuovo esame ai fini della
corretta liquidazione dei danni riconosciuti in favore dello lodice. La causa va, in
conseguenza di tali rilievi, rimessa al giudice del gravame in diversa composizione, anche
per le statuizioni sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce al ricorso n. 25720/2010 quello recante il numero di R. G. 27463/2011,
rigetta il ricorso contrassegnato dal numero di R. G. 25720/2010 ed accoglie, nei limiti di
cui in motivazione, il ricorso n. 27463/2011, cassa la sentenza definitiva impugnata e
rinvia, anche per il regolamento delle spese del giudizio, alla Corte di Appello di Roma, in
diversa composizione.
Così deciso in Roma, il1 . 10.2013

5.2.2010, non essendo imputabili a colpa dell’amministrazione i danni prodottisi prima

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