Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28875 del 17/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/12/2020, (ud. 27/10/2020, dep. 17/12/2020), n.28875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18762-2019 proposto da:

A.E. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA

32, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO GREGORACE, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS) COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO, in persona

del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 27/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. SCOTTI

UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA e RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte, rilevato che:

con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008 ex art. 35 bis A.E., cittadino della Nigeria, ha adito il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria;

il ricorrente aveva riferito di essere nato a Benin City nell’Edo State, di religione cristiano pentecostale e di etnia benin; di essere laureato in ingegneria elettronica; che la madre aveva un negozio di alimentari e il padre, professore di biologia, era stato ucciso nel dicembre 2015 da una setta religiosa in cui l’aveva introdotto il nonno; di aver lavorato come parrucchiere; di essere stato minacciato, insieme al padre, prima della sua uccisione, dai componenti della setta; di essere scappato perciò dalla Nigeria nel dicembre 2015, andando dapprima in Libia e dal maggio 2016 in Italia; di temere in caso di rimpatrio di essere ucciso dai membri della setta;

con decreto del 20/3/2019 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria;

avverso il predetto decreto comunicato il 9/5/2019 ha proposto ricorso A.E., con atto notificato il 8/6/2019, svolgendo quattro motivi; l’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita;

è stata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. la trattazione in camera di consiglio non partecipata;

ritenuto che:

con il primo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge in relazione alla direttiva 2004/82/CE recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007 in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e al mancato supporto probatorio;

il motivo, che attiene al giudizio di credibilità intrinseca del racconto del richiedente asilo non appare specificamente pertinente alla ratio decidendi e sconfina ampiamente nel merito;

certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez.6, 25/07/2018, n. 19716);

il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n. 5224);

il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati;

il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202);

beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016);

inoltre questa Corte ha ritenuto che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01);

al riguardo il Tribunale, alle pagine 7 e 8 del provvedimento impugnato, con motivazione che soddisfa ampiamente lo standard del c.d. “minimo costituzionale”, ha chiarito le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente erano state ritenute inattendibili, evidenziando specifiche lacune, incongruenze e genericità del racconto in cui egli era incorso (ignoranza totale delle attività della setta a cui apparterrebbero per tradizione i membri maschi della sua famiglia; inverosimiglianza delle indicazioni circa le modalità di ingresso nella setta; mancata identificazione della setta e degli autori delle minacce; mancata specifica contestualizzazione degli eventi e delle minacce che egli pure, insieme al padre, assume di aver ricevuto);

con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti con riferimento alle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione Territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del Paese di origine del richiedente asilo;

la censura si risolve in una inammissibile critica di merito delle valutazioni espresse dal Tribunale sia in ordine alla credibilità della vicenda personale riferita, sia in ordine alle attuali condizioni socio politiche della Nigeria, per giunta in assenza di rituale individuazione del fatto storico non esaminato (Sez. un., 07/04/2014, n. 8053; Sez. un., 22/09/2014, n. 19881; Sez. un., 22/06/2017, n. 15486);

con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, e alla mancata concessione della protezione sussidiaria che gli sarebbe spettata in ragione delle attuali condizioni socio politiche del Paese di origine;

anche tale censura si limita a esternare un dissenso nel merito circa la valutazione del Tribunale, fondata sulle informazioni attinte da plurime fonti internazionali (EASO, Refworld, Amnesty International, Human Rights Watch), opportunamente riassunte e citate alle pagine 10 e 11 del decreto impugnato;

con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, errata applicazione della direttiva 2004/82/CE recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007 nonchè violazione e falsa applicazione di legge in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e al mancato supporto probatorio;

anche con il quarto motivo inerente la protezione umanitaria il ricorrente si limita ad esternare un dissenso nel merito circa la valutazione del Tribunale, compiuta con l’articolazione del giudizio comparativo secondo le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte;

secondo le sentenze delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29459 e 29460, che hanno aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, in tema di protezione umanitaria, ha affermato il principio secondo cui l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza;

secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, del subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili;

la condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa;

al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio;

nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari: da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale; dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6;

il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine: tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza;

nella fattispecie il Tribunale, pur riconoscendo un qualche grado di integrazione in Italia del richiedente asilo (conseguimento del livello PRE Al di lingua italiana; stage lavorativo presso Ges.Car), peraltro ritenuto insufficiente a configurare “una situazione personale e familiare rilevante ai sensi dell’art. 8 CEDU”, ha ascritto decisivo rilievo alla comparazione con la verosimile situazione in caso di rientro nel Paese di origine tenuto conto dei dati personali noti (laurea, svolgimento di una attività lavorativa, legami familiari con madre e sorella);

il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, senza pronuncia sulle spese in difetto di costituzione della parte intimata.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2020

 

 

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