Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28859 del 12/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 12/11/2018, (ud. 16/10/2018, dep. 12/11/2018), n.28859

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6283-2018 proposto da:

J.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARCO GIORGETTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto n. R.G. 5800/2017 del TRIBUNALE di ANCONA,

depositato il 06/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/10/2018 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

TERRUSI.

Fatto

RILEVATO

che:

J.M., cittadino gambiano, ha proposto ricorso per cassazione, in cinque motivi, nei confronti del decreto del tribunale di Ancona che ne ha respinto il gravame avverso il provvedimento di diniego del riconoscimento della protezione internazionale; il ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione di legge anche in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, e il vizio logico della motivazione, assumendo di non esser cristiano nè di esser stato mai coinvolto in questioni settarie interetniche o religiose, con conseguente inconferenza della motivazione spiegata a tal riguardo dal tribunale di Ancona; il motivo è inammissibile poichè ambisce a una mera negativa valutazione della motivazione esibita dal tribunale in parte qua, senza tuttavia specifiche conseguenze sul tenore della decisione finale;

col secondo motivo è dedotta la nullità della sentenza per carenza assoluta della motivazione: il ricorrente assume di aver riferito la domanda di protezione internazionale a persecuzioni poste in essere dalla sua comunità per l’appartenenza a un gruppo sociale di origine senegalese, e lamenta che il giudice a quo non abbia esplicitato alcun percorso logico-argomentativo su tale punto;

il motivo è inammissibile e in ogni caso infondato;

il profilo al quale la domanda di protezione era stata asseritamente correlata non risulta dal tenore del provvedimento impugnato, nè altrimenti si apprezza in base al ricorso, nel quale le ragioni di quella domanda, in violazione del canone di autosufficienza, non sono state puntualmente riportate;

a ogni modo il tribunale ha sottolineato che le dichiarazioni del ricorrente in merito alle motivazioni che lo avevano indotto a lasciare il proprio paese (il Gambia) erano relative a vicende di vita privata e familiare, senza elementi idonei ad attivare poteri di indagine suppletiva d’ufficio; ne ha quindi messo in evidenza lo status di soggetto privo di documenti e non in grado di giustificarne la perdita, nonostante l’allontanamento dal paese di origine non improvviso ma programmato;

su tali profili, il provvedimento non appare censurato;

il tribunale ha poi sottolineato, con riferimenti in fatto insindacabili in questa sede, che la situazione del paese di provenienza dell’interessato (il Gambia) era risultata (da report internazionali puntualmente citati) avviata alla normalità a seguito dell’assunzione delle funzioni del nuovo governo, con conseguente inesistenza, rispetto agli accadimenti riferiti dal ricorrente, di un rischio di sottoposizione a pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti;

da questo punto di vista non può dirsi che la motivazione sia carente nel senso sostenuto nel secondo motivo di ricorso;

col terzo mezzo l’impugnante, denunziando l’omesso esame di fatto decisivo, lamenta che il tribunale non abbia proceduto alla sua audizione, ma si sia limitato a verificare la capacità di parlare in italiano e la conferma delle dichiarazioni rese dinanzi alla commissione territoriale, senza sottoporre a vaglio la vicenda narrata e le persecuzioni paventate;

il motivo è inammissibile, in quanto la mancata audizione non è dedotta a sostegno di una eventuale lesione del diritto di difesa, mentre la motivazione del tribunale, sopra riferita, è indice del fatto che la vicenda narrata dal ricorrente sia stata vagliata, sebbene con risultati diversi da quelli da lui sperati;

col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), il ricorrente denunzia una eguale carenza a proposito della richiesta di protezione sussidiaria, in particolare osservando che nessuna motivazione sarebbe stata esplicitata dal tribunale in ordine all’ipotesi di cui alla lett. c) della disposizione suddetta;

il motivo è inammissibile;

l’art. 14, lett. b) e c), rispettivamente considera danni gravi, ai fini della protezione sussidiaria, “b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine”; “c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”;

contrariamente a quanto sostenuto, il tribunale ha esaminato la domanda sotto entrambi i profili, escludendone il fondamento sulla base di una valutazione in fatto della specifica situazione del Gambia, avviato – si dice – verso una stabilizzazione politica;

di tale valutazione il ricorrente pretende una revisione critica, evocando a sostegno altri precedenti di merito sempre relativi al Gambia; ma in tal modo egli trascura di considerare i limiti cognitivi propri del giudizio di legittimità, che non consente di estendere la critica motivazionale al risultato della valutazione in fatto;

infine, quanto alla domanda di protezione umanitaria, il ricorrente deduce, nel quinto mezzo, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11,poichè il tribunale avrebbe menzionato un’attività lavorativa (presso un albergo) in verità mai addotta e non avrebbe invece logicamente considerato la rilevanza dell’attività di lavoro di volantinaggio in effetti intrapresa ai fini dell’inclusione sociale;

anche il suddetto motivo è inammissibile e in parte è anche infondato;

in disparte invero il D.L. n. 113 del 2018, in corso di conversione, è da mettere in evidenza il principio, da questa Corte recentemente affermato, per cui il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza; in applicazione del principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto giustappunto a un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine (Cass. n. 4455-18);

nella concreta fattispecie, elemento essenziale della valutazione sarebbe, a dire del ricorrente, il grado di integrazione sociale conseguente all’esercizio dell’attività di lavoro;

sennonchè il tribunale ha affermato l’insussistenza di situazioni di lesione di diritti umani nel paese di origine e, del pari, l’insussistenza della condizione di vulnerabilità soggettiva di J.M.; e in proposito ha osservato che l’attività di volantinaggio, da lui dedotta come sinonimo di intrapresa attività lavorativa in Italia, non era tale da garantirgli una retribuzione sufficiente e dignitosa;

tale sottolineatura va intesa come diretta a escludere che il ricorrente abbia infine ottenuto un livello minimale di inclusione sociale in Italia, suscettibile di fondare una perdita di diritti umani per il caso del rimpatrio;

essa sostanzia una valutazione in fatto plausibilmente motivata e – ancora una volta – insindacabile in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2018

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