Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28827 del 09/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 09/11/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 09/11/2018), n.28827

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2974/2016 proposto da:

AZIENDA SOCIO – SANITARIA TERRITORIALE Dl LODI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIULIANELLO, 26, presso lo studio dell’avvocato GIORGIA MINOZZI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO BOTTANI;

– ricorrente –

contro

S.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIUSEPPE BERSANI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 445/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

pubblicata il 22/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/10/2018 dal Consigliere Relatore Dott. ADRIANA

DORONZO.

Fatto

RILEVATO

che:

S.M. ha impugnato dinanzi al Tribunale di Lodi il licenziamento intimatole dalla Azienda ospedaliera della Provincia di Lodi in data 5 marzo 2010 per superamento del periodo di comporto;

il Tribunale ha accolto la domanda, dichiarando illegittimo il licenziamento, sul presupposto che la malattia che aveva dato origine alle assenze era riconducibile al comportamento illegittimo e vessatorio dell’Azienda ospedaliera, sicchè le stesse, in quanto imputabili a responsabilità del datore di lavoro, non erano computabili nel periodo di comporto di cui all’art. 2110 c.c.;

la sentenza è stata appellata dinanzi alla Corte d’appello di Milano dalla Azienda Ospedaliera la quale, con l’unico motivo, ha censurato la decisione del Tribunale di rigetto dell’eccezione di pregiudizialità – e quindi dell’istanza di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. -, ravvisabile tra il presente giudizio, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, e l’altro, pure deciso dal Tribunale e pendente dinanzi alla stessa Corte d’appello, avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro per mobbing e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni;

la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello rilevando che l’Azienda non aveva proposto alcun motivo di gravame contro la sentenza, ma si era limitata a riproporre la questione della sussistenza del rapporto di pregiudizialità o di litispendenza tra i due giudizi, quest’ultima da escludersi in considerazione della diversità delle causae petendi e dei petita nelle due controversie;

contro la sentenza la Azienda socio sanitaria territoriale di Lodi, quale succeditrice della Azienda ospedaliera della Provincia di Lodi, propone ricorso per cassazione, sostenuto da due motivi;

resiste con controricorso la S.;

la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata;

la ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso la Azienda denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 39 e 434 c.p.c., artt. 2,3 e 24 Cost. e censura la sentenza impugnata che, da un lato, ha ritenuto sussistente un rapporto di pregiudizialità tra i due giudizi e, dall’altro, non lo ha ritenuto sufficiente a riformare la sentenza di primo grado, con la conseguenza che, in tal modo, la parte è rimasta senza rimedi impugnatori, in violazione dei precetti costituzionali; nella restante parte del motivo la ricorrente si diffonde nell’argomentare in ordine alla sussistenza del rapporto di pregiudizialità necessaria tra i due giudizi, criticando la sentenza del tribunale che tale rapporto aveva invece escluso;

con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1223 e 2110 c.c. e censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto non proposti i motivi d’impugnazione sul merito della controversia: al riguardo richiama le conclusioni dell’atto di appello nonchè le censure svolte in ordine all’accertamento del nesso causale tra la malattia e la condotta asseritamente vessatoria della datrice di lavoro, compiuto dal CTU e fatto proprio dal Tribunale, e a tal fine richiama le pagine 8-10-14 dell’atto di appello;

il primo motivo è infondato;

la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione del principio di diritto secondo cui l’atto di appello che si limiti a dedurre vizi di nullità o errores in procedendo diversi da quelli previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., senza, contestualmente, denunziare l’ingiustizia della decisione, è inammissibile per mancanza di interesse (Cass. 11/04/2011, n. 8159; Cass. 29/01/2010, n. 2053; Cass. 15/03/2007, n. 6031; Cass. 9/12/2005, n. 27296; Cass. Sez. Un., 14/12/1998, n. 12541; cfr. da ultimo, Cass. 10/05/2018, n. 11299, e Cass. 03/12/2015, n. 24612);

il principio non confligge con le norme costituzionali invocate, ove si consideri che il diritto di difesa è garantito dalla previsione del potere dovere del giudice d’appello di decidere la causa nel merito ove un’istanza in tal senso sia ritualmente proposta, che la regola del doppio grado di giurisdizione non ha garanzia costituzionale e che, infine, il principio di uguaglianza non preclude al legislatore di dettare norme differenti per regolare situazioni ritenute diverse (Cass. 13/12/2005, n. 27411);

deve aggiungersi, per completezza di motivazione, che, salvi “i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 c.p.c.: il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, invero, qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado;

il secondo giudizio non deve di necessità essere sospeso, in attesa che nel primo, ovvero sulla causa pregiudiziale, si formi la cosa giudicata, ma può esserlo, ai sensi dell’art. 337 c.p.c., se il giudice del secondo giudizio non intenda riconoscere l’autorità dell’altra decisione (in tal senso, ed in un caso assai simile a quello in esame, Cass. 10/08/2015, n. 16664, che richiama Cass. Sez. Un. 19/06/2012, n. 10027 e Cass. ord. 19/09/2013, n. 21505);

nella specie, da quanto è dato di evincere dalla sentenza di appello (v. pag. 5, in cui si dà atto che l’altro giudizio si è concluso favorevolmente per la lavoratrice con sentenza n. 608/2014 della stessa Corte d’appello di Milano) e dal ricorso per cassazione (pag. 12 e 13), la sentenza del Tribunale non ha affatto escluso l’autorità dell’altra sentenza (pregiudicante), ma ne ha piuttosto fatto applicazione (Cass. 18/03/2014, n. 6207; Cass. 24/05/2013, n. 13035), con la conseguenza che non possono ritenersi sussistenti i presupposti per l’applicazione dell’art. 337 c.p.c.;

il secondo motivo è invece inammissibile;

la parte non trascrive neppure per stralcio le parti dell’appello in cui avrebbe sollevato censure di merito contro la sentenza del tribunale, limitandosi ad un generico rinvio e ad una sintesi dei motivi – che avrebbe prospettato, peraltro tutti sostanzialmente afferenti all’erronea esclusione del rapporto di pregiudizialità o litispendenza tra i due giudizi;

il motivo non è pertanto correttamente formulato, giacchè, secondo l’insegnamento di questa Corte, anche quando vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità, diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass. Sez. Un. 22/5/2012, n. 8077; Cass. 29/09/2017, n. 22880; Cass. 02/02/2017, n. 2771; Cass. 08/06/2016, n. 11738; Cass. 04/07/2014, n. 15367; Cass. 20/07/2012, n. 12664);

con specifico riferimento alla denuncia di violazione dell’art. 112 c.c., per omessa pronuncia su uno o più motivi di appello, è necessario ai fini dell’autosufficienza del ricorso, che il motivo o i motivi siano riportati puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente, ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione (Cass. Sez. U, 28/07/2005, n. 15781; Cass. 07/03/2006, n. 4840);

si rivela così insufficiente la trascrizione delle conclusioni rassegnate nel ricorso in appello, riportate a pagina 7 del ricorso per cassazione, in cui si legge solo la laconica espressione “in ogni caso accertare e dichiarare la legittimità del recesso dal contratto di lavoro nei confronti della ricorrente…”: per ritenere, infatti, proposto un valido motivo di censura contro la sentenza del tribunale, il ricorrente avrebbe dovuto riportare nel ricorso per cassazione le deduzioni attraverso cui era stato circoscritto, in modo chiaro ed esauriente, il “quantum appellatum”, con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata ed ai relativi passaggi argomentativi censurati, nonchè esplicitare sotto il profilo qualitativo le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice; tali omissioni impediscono di ritenere idoneamente formulato uno specifico motivo di appello e, conseguentemente impediscono di ravvisare la violazione, da parte della Corte territoriale, dell’art. 112 c.p.c.;

deve altresì aggiungersi che la parte non deposita unitamente al ricorso per cassazione l’atto di appello, nè offre puntuali indicazioni per un suo facile reperimento nei fascicoli di parte o d’ufficio delle precedenti fasi del processo, con ciò violando gli oneri previsti, a pena di inammissibilità del ricorso, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (v. Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass., 7 febbraio 2011, n. 2966);

il ricorso deve pertanto essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura indicata in dispositivo;

poichè il ricorso risulta notificato in data successiva al 30 gennaio 2013, ricorrono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, di una somma pari all’importo del contributo unificato già versato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali forfetarie, e altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2018

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