Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2882 del 03/02/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 03/02/2017, (ud. 09/01/2017, dep.03/02/2017),  n. 2882

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 12184/12, proposto da:

Agenzia delle entrate in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi 12,

presso l’Avvocatura dello Stato, che la rappresenta e difende come

per legge;

– ricorrente –

Contro

Cesas s.r.l., in persona del legale rappres. p.t., rappres. e difesa

dagli avv.ti Michele Tiengo, Marcello Poggioli e Francesco d’Ayala

Valva, elett.te domic. in Roma, al viale Parioli n. 43, presso

quest’ultimo, con procura a margine del controricorso;

– cointroricorrente –

avverso la sentenza n. 127/2011 della Commissione tributaria

regionale del Veneto, depositata l’8/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/1/2017 dal consigliere dott. Rosario Caiazzo;

udito l’avv. Tiengo per la parte controricorrente;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Cesas srl impugnò la cartella esattoriale notificata il 19.4.2010, riguardante il recupero di un credito IVA, per l’anno d’imposta 2006, eccedente quello spettante alla stessa società, cui l’ufficio aveva ascritto l’indebita l’utilizzazione del medesimo credito in compensazione del debito del contribuente a titolo di secondo acconto IRES per il 2006 e ritenute alla fonte.

La CTP di Treviso respinse il ricorso, argomentando che l’erroneo versamento del maggior saldo Ires, pur dimostrando la buona fede del contribuente, non fosse idoneo in ogni caso a trasformare l’errore commesso dal contribuente da sostanziale a formale, risultando applicabili al caso concreto le norme di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10-bis e quater.

La Cesas srl propose appello avverso la suddetta sentenza, accolto dalla CTR, esponendo che: il maggior credito iva, pur riportato negli anni successivi, non sarebbe stato di fatto utilizzato, nè chiesto a rimborso (nè ciò avrebbe potuto verificarsi); era stato violato la L. n. 212 del 2000, art. 10 poichè l’ufficio fiscale non aveva accolto l’istanza in autotutela di annullamento della cartella; era erroneo il richiamo al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-quater in quanto afferente alla diversa fattispecie del mancato versamento di imposte per effetto della compensazione con crediti inesistenti o non spettanti, laddove, nel caso concreto, il contribuente era effettivamente titolare di un credito iva e non vi era stato alcun omesso versamento d’imposte.

Avverso tale sentenza l’agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, formulando tre motivi.

Con il primo, l’agenzia ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 del D.P.R. n. 435 del 2001, art. 17 e del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Al riguardo, parte ricorrente ha rilevato che la condotta del contribuente, consistita nell’aver riportato nella dichiarazione del 2006 e in quelle successive il credito iva per somma superiore a quella spettante (dopo l’utilizzazione dello stesso credito al fine della compensazione con debiti tributari), configurava non un errore formale, ma una fattispecie di evasione fiscale relativa a quell’anno d’imposta, con esclusione della possibilità di compensazione con un debito del contribuente, considerando altresì che il preteso credito iva, non dichiarato, era superiore al maggior saldo Ires non dovuto.

Con il secondo motivo è stata prospettata l’omessa motivazione su un punto decisivo e controverso del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine alla questione del maggior importo del credito iva compensato rispetto al credito Ires.

Con il terzo motivo, l’agenzia delle entrate ha lamentato violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, e del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto era da escludere l’errore formale del contribuente, configurabile solo nel caso in cui quest’ultimo avesse provveduto a rimuovere la contestata irregolarità in occasione della dichiarazione successiva.

Resisteva la Cesas srl. mediante il deposito del controricorso, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del primo e terzo motivo, nonchè l’infondatezza del secondo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Preliminarmente, va respinta l’eccezione d’inammissibilità del primo motivo, secondo cui le varie violazioni di legge lamentate non sarebbero inerenti alla fattispecie in esame.

Al riguardo, va osservato che l’agenzia delle entrate ha addotto, in particolare, la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, rispettivamente in ordine all’erroneo calcolo della compensazione del credito iva, come effettuata dal contribuente, e all’omessa richiesta di rimborso del credito d’imposta in conformità della procedura di legge.

La prospettazione di tali violazioni di legge è, pertanto, del tutto chiara ed inerente alla fattispecie oggetto del giudizio.

Parimenti da rigettare è l’istanza d’inammissibilità del terzo motivo, afferente alla prospettata violazione delle norme sopra richiamate, considerata la genericità della stessa eccezione, neppure motivata (parte controricorrente ha fatto un generico riferimento ad un’asserita e non meglio precisata carenza d’interesse specifico).

Premesso ciò, i primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, considerato che essi riguardano questioni connesse.

L’agenzia delle entrate ha lamentato che la sentenza impugnata avrebbe violato le norme richiamate, in quanto il contribuente avrebbe dovuto correggere, in occasione della dichiarazione successiva, per l’anno d’imposta 2007, l’errore in cui era incorso nella dichiarazione per l’anno 2006 (non dichiarando il minor credito iva, ridotto per avvenuta compensazione a seguito dell’utilizzo avvenuto per l’anno d’imposta 2006); invece, è accaduto che il contribuente ha continuato ad esporre, nelle dichiarazioni relative agli anni successivi, un credito maggiore di quello spettante.

La parte ricorrente ha altresì dedotto da tale argomentazione che la condotta omissiva del contribuente non potrebbe essere qualificata in senso formale, ma sarebbe bensì da ritenere sostanziale, alla stregua di una condotta foriera di determinare un’evasione fiscale, con possibile sottrazione di liquidità a danno dell’erario nel caso di ulteriori indebite compensazioni.

Pertanto, la ricorrente ha argomentato dalla legittimità della cartella esattoriale attraverso cui fu recuperata a tassazione, per l’anno d’imposta 2006, la somma pari al credito iva eccedente quello ritenuto effettivamente spettante, considerato che, appunto, nella dichiarazione per lo stesso anno e in quelle relative agli anni successivi, la Cesas s.r.l. aveva riportato un importo superiore del medesimo credito, pur dopo l’avvenuta utilizzazione al fine di compensazione con il debito tributario afferente al secondo acconto Ires 2006 ed a ritenute alla fonte.

In ordine a tale argomentazione, l’agenzia ricorrente ha addotto anche il difetto di motivazione della sentenza impugnata.

Orbene, va osservato che in coerenza con il principio di neutralità che ispira il sistema IVA, qualora venga definita l’obbligazione tributaria mediante il pagamento delle somme richieste dall’ufficio e il credito, ancorchè non dichiarato, risulti effettivamente spettante, il contribuente ha diritto di essere ammesso al rimborso dell’eccedenza medesima, oppure di scomputare direttamente quest’ultima dalla somma spettante al fisco.

Al riguardo, è principio affermato da questa Corte quello per cui il diritto alla detrazione dell’eccedenza iva deve essere tutelato in modo sostanziale ed effettivo, e va riconosciuto a fronte di una reale operazione sottostante, essendo a tal fine poco rilevante l’osservanza di obblighi dichiarativi (Cass., S.U., n. 17757/2016).

Da tali principi è dato desumere che nel caso, come quello in esame, in cui il contribuente abbia dichiarato un credito iva superiore a quello effettivamente spettante – a seguito di un’utilizzazione parziale a fini compensativi – non è possibile configurare una violazione equiparabile sostanzialmente a quella afferente all’indebito o fraudolento uso del medesimo credito.

Invero, non può essere condiviso il rilievo espresso dalla parte ricorrente secondo cui aver riportato un credito iva superiore a quello spettante comporterebbe la possibilità di utilizzarlo ulteriormente, con la conseguenza giuridica dell’equiparazione di tale condotta ad una concreta attività d’evasione fiscale.

Tale configurazione della dichiarazione del maggior credito iva non è conforme al quadro normativo in tema d’iva, in quanto la condotta ascritta al contribuente, seppure formalmente non corretta, non ha integrato alcun illecito fiscale, nè ha cagionato un pur temporaneo ammanco di liquidità nelle casse erariali.

Pertanto, la mera irregolarità relativa alla dichiarazione del credito iva non può concretizzare un effettivo illecito avente ad oggetto il mancato versamento di imposte, occorrendo che esso sussista effettivamente e che abbia causato un concreto danno erariale.

Nè può ipotizzarsi un tentativo di illecito fiscale (amministrativo), considerato che non è dubbia la condotta in buona fede del contribuente che ha utilizzato un reale credito iva al fine di compensarlo con un debito tributario, non essendo altresì emerso il compimento di atti diretti ad utilizzare il maggior credito, erroneamente annotato nelle dichiarazioni successive a quella del 2006, come rilevato dal giudice d’appello.

Per quanto esposto, va respinto anche il secondo motivo, avente ad oggetto un vizio relativo all’omessa motivazione.

Il terzo motivo è da ritenere parimenti infondato, non essendo ravvisabile la violazione delle norme richiamate dalla parte ricorrente.

In particolare, come correttamente motivato dal giudice d’appello, non sussiste violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10-quater in quanto è certo che il contribuente non ha omesso alcun versamento d’imposte, nè ha utilizzato in compensazione crediti non spettanti o inesistenti.

Inoltre, non viene in rilievo il D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 6 poichè, data l’insussistenza di illeciti fiscali non sono configurabili cause di non punibilità. Tenuto conto della particolarità della fattispecie, essendo essa connessa alla dibattuta e non sopita questione della compensabilità dei crediti iva, sussistono i presupposti per compensare le spese del grado di giudizio.

PQM

rigetta il ricorso, compensando le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2017

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