Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28811 del 16/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 16/12/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 16/12/2020), n.28811

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2168-2016 proposto da:

ACQUATEC – LAVAGGIO E NOLEGGIO BIANCHERIA DI A.S.

DITTA, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata

in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCO NARDELLI;

– ricorrente –

contro

V.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCO MOSER;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 66/2015 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 13/11/2015 r.g.n. 29/15;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO.

 

Fatto

RILEVATO

che V.A. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Rovereto, la ditta Acquatec-Lavaggio e Noleggio Biancheria di A.S. – alle dipendenze della quale prestava servizio dal 19.10.2000, con la qualifica di operaio specializzato e mansioni di autista -, chiedendone la condanna al versamento, in suo favore, della somma complessiva di Euro 17.006,34 (corrispondente alla retribuzione di 1320 ore di lavoro, pari a 165 giorni lavorativi), “illegittimamente trattenuta in busta paga”, nel periodo intercorrente tra il mese di ottobre 2009 ed il mese di settembre 2010, “sotto la causale “ore non lavorate””;

che il Tribunale, con la sentenza n. 67/2014, resa il 25.11.2014, respingeva la domanda, condannando il V. al pagamento delle spese del giudizio;

che la Corte di Appello di Trento, con sentenza pubblicata in data 13.11.2015, accogliendo il gravame interposto dal V., avverso la pronunzia del primo giudice, ed in riforma della stessa, condannava la datrice di lavoro al pagamento, in favore del dipendente, della somma di Euro 17.006,34, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal di del dovuto al saldo, ed altresì delle spese di lite dei gradi di merito;

che la Corte di merito, per quanto ancora in questa sede rileva, ha reputato fondata la doglianza formulata nell’atto di appello ai sensi dell’art. 2113 c.c., per non avere il giudice di prima istanza attribuito natura transattiva all’accordo con cui, da un lato, il datore di lavoro aveva acconsentito a non irrogare sanzioni disciplinari nei confronti del V., una volta accertato che lo stesso aveva conteggiato in eccesso, ai fini retributivi, le ore lavorate, e, dall’altro, il dipendente, riconoscendo la sua colpa, si era impegnato a rinunziare mensilmente ad una parte della retribuzione sino al soddisfacimento del danno arrecato alla ditta;

che, pertanto, trattandosi di una vera e propria transazione, tale accordo avrebbe dovuto essere provato per iscritto (e non per presunzioni o testimonianze) ed “essere annullato dal primo giudice in quanto in contrasto con la disciplina di cui all’art. 2113 c.c., in virtù del quale le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge (come nella fattispecie) sono invalide”;

che per la cassazione della sentenza ricorre la ditta Acquatec-Lavaggio e Noleggio Biancheria di A.S., articolando due motivi, cui V.A. resiste con controricorso;

che sono state depositate memorie nell’interesse della parte ricorrente;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione o falsa applicazione dell’art. 1967 c.c. in relazione all’art. 2113 c.c.”, e si lamenta che la Corte distrettuale non abbia considerato che “il ricorrente ha soltanto negato” che l’accordo di cui si è detto in narrativa fosse stato raggiunto e che, “in subordine, ha sostenuto che lo stesso sarebbe stato invalido per violazione dell’art. 2113 c.c.”, ed altresì, che, soltanto nel primo motivo del ricorso in appello – e, dunque, tardivamente -, il V. “ha eccepito la mancanza di prova scritta del citato accordo, in violazione dell’art. 1967 c.c., lamentando correlativamente l’inammissibilità dell’assunta prova per testimoni e delle presunzioni poste dal Tribunale a fondamento della propria decisione”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., per avere i giudici di seconda istanza affermato “in maniera del tutto apodittica che il riconoscimento da parte del V. dell’addebito mossogli dalla datrice di lavoro ed il relativo proprio impegno di rimborso rateale delle somme indebitamente percepite costituiscono atto impugnabile ex art. 2113 c.c.”, senza, peraltro, considerare che “l’accordo in questione si è mosso nell’ambito del riconoscimento di un debito del lavoratore, riguardante l’ammontare di un risarcimento danni convenzionalmente determinato e le modalità di pagamento del predetto ammontare, in aperta contraddizione con la decisione assunta che risulta così aver violato il principio di diritto riguardante il campo di applicabilità dell’art. 2113 c.c.”;

che i due motivi – da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione – non sono meritevoli di accoglimento: ed invero premesso che il secondo motivo è inammissibile relativamente alla doglianza sollevata come violazione di legge, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e che, nella sostanza, censura un vizio di motivazione, in quanto si lamenta una “motivazione contraddittoria” o “omessa”:

formulazione, peraltro, non più consona con le modifiche introdotte all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, applicabile, ratione temporis, al caso di specie, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 13.11.2015 -, la questione prospettata attiene alla natura da attribuire all’accordo intervenuto tra il datore di lavoro ed il V., così come descritto in narrativa e se vi sia stata, o meno, una “rinunzia” (finalizzata ad una “transazione”), da parte di quest’ultimo, ad una parte della retribuzione sino al soddisfacimento del danno arrecato al primo, il quale, a sua volta, ha rinunziato ad assumere provvedimenti disciplinari nei confronti del dipendente. E la soluzione non può che essere favorevole alla conclusione alla quale, sulla scorta degli elementi delibatori addotti dalle parti, è giunta la Corte di merito, attraverso un percorso motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici, per le considerazioni che seguono;

che non può non dirsi, invero, iuxta alligata ed avendo riguardo al contenuto ed al tenore delle dichiarazioni e delle proposizioni adoperate e rilasciate dalle parti, secondo la ricostruzione operata dai giudici di seconda istanza, che queste abbiano senz’altro agito con il deliberato proposito di porre in essere una precisa manifestazione di volontà negoziale, con cui hanno disposto delle situazioni giuridiche che le riguardavano, e che abbiano agito quindi – attraverso la rappresentazione delle reciproche rinunzie e concessioni (datum et retentum) – con l’intento di porre fine alla res controversa e di prevenire ed evitare qualsiasi eventuale lite apud iudicem;

che, come correttamente osservato dalla Corte di merito, si desume altresì, ex actis, che le parti abbiano operato con la consapevolezza degli specifici diritti che in esso si subiettivavano, in contrasto, peraltro, con quanto disposto dall’art. 2113 c.c., ai sensi del quale, le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge non sono valide (v., tra le altre, Cass. n. 2734/12004). Ed al riguardo è sintomatico che il V., nella prima difesa utile (verbale di udienza dell’1.4.2014, come sottolineato nell’ultima pagina della sentenza impugnata), si sia dato cura di cautelarsi tempestivamente, impugnando la dichiarazione de voluntate ai sensi dell’art. 2113 c.c., ritenuta viziata anche per mancanza del requisito della forma scritta, come eccepito dal lavoratore nelle note conclusive (v., ancora, l’ultima pagina della sentenza);

che, alla stregua di quanto precede, può quindi affermarsi che non vi è dubbio che alle volizioni negoziali de quibus, poste in essere dagli attuali contendenti, debba essere riconosciuta natura e portata transattiva-abdicativa; e ciò, non soltanto, come si è già detto, in forza della dichiarazione esteriorizzata, ma in considerazione, inoltre, della evidente correlazione tra la situazione di reciproco vantaggio, a fronte della derelictio di altre reciproche pretese che avrebbero eventualmente potuto essere avanzate;

che, infine, la parte ricorrente non ha neppure prodotto, (e neppure indicato tra i documenti offerti in comunicazione elencati nel ricorso per cassazione), nè trascritto, a sostegno dei propri assunti, il verbale di udienza dell’1.4.2014, o le note conclusive, relativamente alle quali ha eccepito la tardività delle eccezioni formulate dal dipendente ai sensi dell’art. 2113 c.c.; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte (ai sensi del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., tra le molte, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013);

che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va respinto;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020

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