Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28797 del 30/11/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 30/11/2017, (ud. 11/07/2017, dep.30/11/2017),  n. 28797

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Torino ha respinto il reclamo proposto ex L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58 da T.D. avverso la sentenza del locale Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stato rigettato il ricorso proposto nei confronti della Croce Rossa Italiana, volto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato il 17 luglio 2014 e la condanna dell’ente alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno.

2. La Corte territoriale ha premesso che al T., assunto con contratto a tempo indeterminato come impiegato tecnico di area B, era stato contestato di avere in costanza di rapporto sottoscritto un contratto di chiamata intermittente con la Torino Limousine di Te.Ro. per lo svolgimento dell’attività di autista, alla quale si erano affiancate altre prestazioni, tutte menzionate nella missiva del 2 settembre 2013 inviata dal T. alla Te. per richiedere il pagamento dei servizi resi e la restituzione delle somme anticipate per conto della ditta. Nella lettera di contestazione, inoltre, la Croce Rossa aveva fatto riferimento anche all’attività resa in favore della Student House Torino Limousine e, quanto alla rilevanza disciplinare delle condotte, aveva richiamato le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, al D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60, alla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 57 e segg., all’art. 26, commi 1 e 3, lett. a) e g) del CCNL 5.7.1995 per il personale non dirigenziale del comparto enti pubblici non economici.

3. In diritto la Corte territoriale ha osservato che non rilevava ai fini della legittimità del licenziamento il richiamo, contenuto nella lettera di recesso e non nella contestazione, all’art. 16, comma 8, lett. d) CCNL 2003, perchè sussisteva un rapporto di genere/specie fra le disposizioni contrattuali citate e comunque perchè la determina del 17 luglio 2014 nella motivazione richiamava le condotte e le fonti normative indicate nell’atto di avvio del procedimento disciplinare.

4. Il giudice di appello ha, poi, ritenuto provati i fatti contestati ed ha escluso la asserita inattendibilità della teste Te. la quale aveva sì dichiarato di non avere corrisposto compensi al T., ma aveva anche riferito circostanze dalle quali emergeva che quest’ultimo aveva agito non come mero collaboratore, bensì come effettivo gestore dell’attività, al punto da avere occultato alla titolare l’andamento degli affari e i conti dell’impresa.

5. Infine la Corte territoriale ha evidenziato che lo svolgimento dell’attività emergeva dalla produzione documentale ed era stato ammesso dal T. nella lettera del 2.9.2013, non essendo credibile quanto sostenuto dal reclamante circa la non veridicità delle circostanze ivi evidenziate.

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso T.D. sulla base di tre motivi. La Croce Rossa Italiana ha resistito con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 Con il primo motivo di ricorso T.D. denuncia “violazione e falsa applicazione dei principi di previa contestazione dell’addebito in sede disciplinare, giusto procedimento, tipicità e tassatività degli illeciti e delle sanzioni disciplinari. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, commi 1 e 3 lett. g) del CCNL 5.7.1995”. Il ricorrente evidenzia che nella contestazione la Croce Rossa aveva richiamato la disposizione contrattuale indicata in rubrica, che fa divieto al dipendente di attendere “durante l’orario di lavoro” a occupazioni estranee al servizio, sicchè andava considerato che nello svolgimento della prestazione lavorativa il suo comportamento era stato sempre improntato alla massima diligenza. La sanzione era stata irrogata ai sensi dell’art. 16, comma 8, del CCNL 9.10.2003, non menzionato nella contestazione, ed in tal modo l’ente aveva violato il principio della immutabilità della contestazione, avendo giustificato il recesso in relazione ad un addebito diverso da quello contestato. Aggiunge il T. che il CCNL 5 luglio 1995 non prevedeva il licenziamento senza preavviso per la violazione dell’art. 26, sicchè anche sotto tale profilo il recesso doveva essere ritenuto illegittimo, avendo il datore di lavoro violato il principio della tassatività delle sanzioni.

1.2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 60, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53,commi 6 e 7, e della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 57 e ss.”. Il ricorrente sostiene che l’incompatibilità è stata affermata dal legislatore solo in relazione agli incarichi retribuiti, per cui andava esclusa nel caso di specie perchè era stato documentalmente provato che nessuna somma era mai stata corrisposta al T. a titolo di corrispettivo per la presunta attività lavorativa svolta sulla base del contratto di lavoro intermittente. Aggiunge che la Corte territoriale, per superare la questione, aveva evidenziato che, in realtà, il reclamante nell’azienda si era occupato dell’andamento degli affari e dei conti dell’impresa, della quale era stato l’effettivo gestore. In tal modo, peraltro, il giudice di appello aveva finito per contraddirsi perchè, una volta ipotizzata una prestazione autonoma, la prova dello stessa non poteva essere tratta dal contratto di lavoro intermittente nè dalla lettera del 2.9.2013. Infine il ricorrente evidenzia che la deposizione resa dalla teste Te. non poteva essere ritenuta attendibile, sia per la ostilità manifestata da quest’ultima, la quale era stata firmataria dell’esposto che aveva dato avvio al procedimento disciplinare, sia perchè le dichiarazioni presentavano aspetti di contraddittorietà.

1.3. Il terzo motivo denuncia l’omesso esame di fatto storico avente carattere decisivo perchè la Corte territoriale, nell’esprimere il giudizio sulla gravità della condotta, avrebbe dovuto considerare “la mancata interferenza fra incarico istituzionale ed incarico extra officio asseritamente svolto dal ricorrente”.

2. Il ricorso è infondato.

Il principio della immutabilità della contestazione, ossia della necessaria corrispondenza tra contestazione degli addebiti e fatti sanzionati nel provvedimento punitivo finale, tutela il diritto di difesa dell’incolpato, che sarebbe irrimediabilmente compromesso qualora il provvedimento disciplinare venisse adottato in relazione a condotte, omissive o commissive, sulle quali non si sia svolto il contraddittorio.

La immutabilità, quindi, così come accade nel processo penale (art. 521 c.p.p.), attiene al fatto e non alla qualificazione giuridica dello stesso, sicchè è consentito al datore di lavoro ricondurre l’addebito ad una diversa ipotesi disciplinare, atteso che, in tal caso, non si verifica una modificazione del fatto, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso (Cass. 22.3. 2011 n. 6499 e Cass. S.U. 20.5.2014 n. 11024).

Per ciò solo il motivo di reclamo doveva essere respinto dalla Corte territoriale, posto che anche in quella sede la pretesa violazione del diritto di difesa era stata fatta valere non in relazione a modifiche interessanti la condotta nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, bensì con riferimento al richiamo nella lettera di licenziamento di una disposizione contrattuale non citata nell’atto di avvio del procedimento.

2.1. Alle considerazioni che precedono, già assorbenti, si deve aggiungere che il motivo muove da una lettura non corretta delle norme contrattuali rilevanti nella fattispecie, che questa Corte può direttamente conoscere e interpretare per i principi affermati da Cass. S.U. n. 23329 del 2009.

L’art. 26 del CCNL 6.7.1995, come modificato dall’art. 14 del CCNL 9.10.2003, per il comparto degli enti pubblici non economici, stabilisce le regole di condotta e, dopo aver previsto al comma 1 che “il dipendente conforma la propria condotta al dovere di contribuire alla gestione della pubblica con impegno e responsabilità, nel rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, anteponendo l’osservanza della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri o altrui”, al comma 3 detta prescrizioni specifiche e prescrive, tra l’altro, alla lettera g) di “non attendere, durante l’orario di lavoro, a occupazioni estranee al servizio e rispettare i principi di incompatibilità previsti dalla legge e dai regolamenti e, nei periodi di assenza per malattia o infortunio, non attendere ad attività che possano ritardare il recupero psico fisico”.

L’art. 16 del CCNL 2003 detta la disciplina delle sanzioni: prevedendo, in via generale, i criteri ai quali l’amministrazione deve attenersi nella scelta del tipo e dell’entità (commi da 1 e 3); elencando le diverse sanzioni e le ipotesi nelle quali le stesse devono essere inflitte (commi da 4 a 8); stabilendo, poi, con norma di chiusura, che “Le mancanze non espressamente previste nei commi da 4 a 8 sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 26 del CCNL 6 luglio 1995, come modificato dal presente CCNL, e facendosi riferimento, quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti”.

La Corte territoriale, pertanto, ha correttamente evidenziato la stretta correlazione esistente fra le due disposizioni contrattuali, perchè l’una individua i doveri del dipendente che assumono rilevanza disciplinare ove violati, l’altra stabilisce le sanzioni che possono derivare dalla violazione delle norme comportamentali.

Ne discende l’infondatezza del motivo anche nella parte in cui invoca il principio della tipicità degli illeciti disciplinari e delle sanzioni, perchè l’ente, dopo avere contestato la condotta e ravvisato nella stessa la violazione dell’art. 26 lett. g) in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, ha individuato, all’esito del procedimento, la sanzione fra quelle tipizzate dall’art. 16 e, trattandosi di mancanza non contemplata espressamente nei commi da 4 a 8, si è attenuto, nel rispetto di quanto previsto dal comma 9, ai criteri generali dettati dal comma 1 ed ha ritenuto il fatto di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sì da giustificare la risoluzione immediata del rapporto.

2.3. E’, poi, da escludere che l’art. 26 lett. g) si riferisca solo a condotte tenute durante l’orario di servizio perchè, come si desume con chiarezza dal tenore letterale della disposizione contrattuale sopra trascritta, le parti collettive hanno previsto tre diverse tipologie di comportamenti vietati: attendere durante l’orario di lavoro ad occupazioni estranee al servizio; non rispettare i principi in tema di incompatibilità previsti dalla legge e dai regolamenti (ipotesi che qui rileva); espletare, durante il periodo di assenza per malattia, attività che possano ritardare il recupero psico- fisico.

3. Il secondo motivo è infondato nella parte in cui denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 e del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 ed è inammissibile per il resto.

Va premesso che il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni è caratterizzato dall’obbligo di esclusività, che trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale il legislatore costituente, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività.

Su detto obbligo non ha inciso, e non poteva farlo, la contrattualizzazione del rapporto di impiego, e la materia, sottratta all’intervento delle parti collettive, è rimasta disciplinata innanzitutto dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 e segg., in forza del richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1.

L’art. 60 è assolutamente chiaro nell’individuare le ipotesi di incompatibilità assoluta lì dove fa divieto all’impiegato di esercitare il commercio o l’industria e di assumere “impieghi alle dipendenze di privati”.

L’instaurazione di un rapporto di lavoro intermittente, che lo stesso ricorrente riconosce essere documentalmente provato, è senz’altro riconducibile all’assunzione di impiego alle dipendenze di terzi e non può certo assumere alcun rilievo che le prestazioni, rese a titolo oneroso, non siano state di fatto retribuite per l’inadempimento del datore.

La gratuità dell’incarico, che può eventualmente escludere la incompatibilità, è ravvisabile solo in presenza di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa, ossia per una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, e non va confusa con la mancata riscossione da parte del dipendente delle somme allo stesso dovute in forza di pattuizioni contrattuali, sottoscritte in violazione dell’obbligo di esclusività.

3.1. Nel caso di specie, poi, la Corte territoriale ha evidenziato che le risultanze istruttorie inducevano a ritenere che il T. avesse agito “non tanto come semplice collaboratore ma come vero e proprio gestore ed imprenditore, occultando alla formale titolare l’andamento degli affari e i conti dell’impresa”.

Detto accertamento di fatto, incensurabile in questa sede, priva di ogni spessore l’argomento fondato sull’assenza di rimesse di denaro da parte della ditta Torino Limousine, atteso che l’avere assunto di fatto la gestione della stessa è senz’altro riconducibile al divieto di svolgere attività imprenditoriale sancito dal richiamato art. 60.

3.2. Tutte le censure che si leggono nel motivo inerenti la carenza di prova documentale e la asserita inattendibilità della teste Te. sono inammissibili perchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (fra le più recenti Cass. 2.8.2016 n. 16056).

4. Il terzo motivo è inammissibile.

La Corte territoriale ha rilevato in motivazione (pag. 18/19) che nessuna censura era stata prospettata dal reclamante “con riferimento ai requisiti di congruità e proporzionalità del provvedimento di licenziamento” ed ha aggiunto che, in ogni caso, andavano integralmente condivise e “richiamate le argomentazioni delle decisioni del primo grado”.

Il ricorrente, nel lamentare l’omessa considerazione, ai fini del giudizio di gravità, della “mancata interferenza fra incarico istituzionale ed incarico extra officio” prescinde del tutto dalla duplice ratio decidendi della sentenza impugnata, ed è, quindi, privo della necessaria specificità.

Hanno affermato le Sezioni Unite di questa Corte che “ove la sentenza di appello sia motivata per relationem alla pronuncia di primo grado, al fine di ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali” (Cass. S.U. 20.3.2017 n. 7074).

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2017

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