Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28789 del 16/12/2020

Cassazione civile sez. I, 16/12/2020, (ud. 25/11/2020, dep. 16/12/2020), n.28789

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 17688/2019 proposto da:

I.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Di Meo, giusta

procura in calce al ricorso per cassazione ed elettivamente

domiciliato presso lo Studio Legale e Commerciale Sorrentino in Roma

alla via Emo, n. 144;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di NAPOLI n. 5966/2018,

pubblicata il 21 dicembre 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con sentenza del 21 dicembre 2018, la Corte di appello di Napoli ha rigettato il ricorso proposto da I.A., cittadino del (OMISSIS), avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli del 10 marzo 2017, che aveva rigettato la domanda di protezione internazionale ed umanitaria.

2. Il ricorrente ha dichiarato di essere cristiano e di appartenere all’etnia (OMISSIS) e di essere fuggito per le azioni persecutorie di natura etnica posto in essere da cittadini cinesi che si erano appropriati del terreno della famiglia, coltivato a cacao, per svolgere l’attività di estrazione mineraria illegale, dai quali era stato attaccato e che erano protetti dalla Polizia.

3. La Corte di appello di Napoli ha affermato che la vicenda narrata, risalente al (OMISSIS), aveva una connotazione prettamente economica e non di contrapposizione o discriminazione etnica e che non era credibile che la polizia avesse appoggiato i cinesi per la loro etnia, contro i ghanesi autoctoni, connazionali dei poliziotti e che non era sufficiente al riconoscimento della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), il riferimento al sistema carcerario ghanese; nè sussisteva un conflitto armato come si ricavava dalle fonti internazionali aggiornate al 2016/2017; non erano neppure configurabili situazioni cosiddette vulnerabili, nè l’inserimento familiare, sociale, culturale e lavorativo in Italia, soltanto adombrato nell’atto di appello.

4. I.A., avverso detta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.

5. Il Ministero dell’Interno ha deposito controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5, 7, 8, e 11 e del D.Lgs. n. 25 del 2000, art. 8, nonchè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 111Cost. e art. 101 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione di legge, nullità della sentenza per vizio di motivazione apparente e/o contraddittoria, per omesso esame circa un fatto decisivo della controversia prospettato dalla parte e comunque rilevabile d’ufficio ed inoltre per mancata audizione del richiedente e violazione del contraddittorio e violazione del dovere di cooperazione.

Ad avviso del ricorrente la Corte di appello con una motivazione apparente non aveva riconosciuto le tutele richieste e non aveva svolto alcuna indagine sulle effettive condizioni del Paese e non ha neppure disposto il chiesto interpello della parte ed aveva omesso il fatto riguardante la problematica di ordine etnico e di appartenenza di gruppo non considerando gli scontri con i soggetti cinesi attivi nello sfruttamento minerario, nonchè l’intervento strumentale della Polizia attuato in maniera discriminatorio con il tentativo di arresto del richiedente.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 4 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione di legge, nullità della sentenza per vizio di motivazione apparente e/o contraddittoria e per omesso esame circa un fatto decisivo della controversia prospettato dalla parte e comunque rilevabile d’ufficio e per violazione del dovere di cooperazione.

Ad avviso del ricorrente la Corte territoriale aveva omesso di considerare il fatto dedotto e provato del tentativo di assoggettamento ad azione repressiva da parte della Polizia e non aveva accertato le condizioni attuali del sistema giudiziario del Ghana, nè aveva accertato le condizioni generali del Paese ai fini di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. c).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, artt. 2 e 10 Cost., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione di legge, nullità della sentenza per vizio di motivazione apparente e/o contraddittoria e per omesso esame di un fatto decisivo della controversia prospettato dalla parte e comunque rilevabile d’ufficio e per mancata audizione del richiedente e violazione del contraddittorio, per violazione del dovere di cooperazione.

Ad avviso del ricorrente la Corte territoriale aveva omesso ogni valutazione della dedotta condizione di difficoltà soggettiva del richiedente sia in relazione alla vicenda determinante l’espatrio, che alla situazione di pregiudizio per lo stato di esule; aveva omesso, altresì, di valutare la condizione di vulnerabilità secondo canoni di attualità e non aveva svolto alcun approfondimento istruttorio in merito, non valutando il valido inserimento del richiedente in Italia e la legittima aspettativa di quest’ultimo ad una permanenza definitiva sul territorio nazionale e il pregiudizio derivante dal rimpatrio per la perdita della stabilità socio-psicologica raggiunta e per la regressione a condizioni di vita deteriori.

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1 Questa Corte ha evidenziato che “In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse” (Cass., 13 dicembre 2019, n. 32952; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24901; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26874).

4.2 Ciò senza prescindere dalla circostanza che il cumulo di siffatte critiche, circostanze diversamente prospettate e differenti valutazioni, sembra risolversi in una mera non condivisione del convincimento cui è giunto il giudice di merito, secondo un apprezzamento di fatto insindacabile nella presente sede (Cass., 25 settembre 2018, n. 22598; Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

4.3 Nel caso di specie, non sussiste il vizio di nullità della sentenza per motivazione apparente che in base alla costante giurisprudenza di legittimità, ricorre allorchè la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).

4.4 Ed invero l’impugnata decisione ha respinto la domanda di protezione internazionale, affermando che la vicenda narrata, risalente al (OMISSIS), aveva una connotazione prettamente economica e non di contrapposizione o discriminazione etnica e che non era credibile che la polizia avesse appoggiato i cinesi per la loro etnia, contro i ghanesi autoctoni, connazionali dei poliziotti e che non era sufficiente al riconoscimento della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), il riferimento al sistema carcerario ghanese; nè sussisteva un conflitto armato come si ricavava dalle fonti internazionali aggiornate al 2016/2017.

In particolare, la motivazione contenuta nella sentenza impugnata, con la quale peraltro il ricorrente non si è specificamente confrontato, sia per quel che riguarda il mancato riconoscimento dello status di rifugiato, sia per quanto si riferisce al rigetto della protezione sussidiaria, risulta dotata della concisa esposizione sia delle ragioni di fatto della decisione, sia delle ragioni di diritto poste a fondamento della stessa decisione e di una esposizione logica e adeguata al caso di specie che consente di cogliere il percorso logico – argomentativo che ha portato la Corte decidente a rigettare le tesi dell’odierno ricorrente.

4.5 Anche la censura sull’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile, per il mancato rispetto delle prescrizioni delle modalità di deduzione del vizio in esame, che secondo la giurisprudenza di questa Corte richiede che debba essere indicato il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale o extratestuale da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

4.6 In merito all’audizione del richiedente, questa Corte, di recente, ha affermato che “Nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (Cass., 7 ottobre 2020, n. 21584).

Tanto premesso, nel caso in esame, il ricorrente non ha indicato le specifiche circostanze fattuali su cui avrebbe voluto essere sentito, nè l’incidenza di tali fatti nella fattispecie in esame, con la conseguenza che la censura si appalesa del tutto generica e, per conseguenza, priva di decisività.

4.7 Con specifico riferimento alla domanda di protezione umanitaria, i giudici di secondo grado, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, hanno evidenziato che gli elementi emersi non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità del ricorrente e che non assumeva valore decisivo l’inserimento familiare, sociale, culturale e lavorativo in Italia, soltanto adombrato nell’atto di appello.

Il ricorrente, peraltro, anche in questa sede si è limitato ad una critica sterile indirizzata alla motivazione della sentenza, senza nulla aggiungere, in concreto, con riferimento alla posizione personale e ad una qualche situazione di vulnerabilità in grado di giustificare le ragioni umanitarie richieste per il permesso di soggiorno.

4.8 Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

La condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459). 5. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile.

Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento, secondo il principio della soccombenza, e liquidate come in dispositivo, nonchè al raddoppio del contributo unificato, pure indicato in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020

 

 

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