Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28787 del 19/10/2021

Cassazione civile sez. trib., 19/10/2021, (ud. 11/05/2021, dep. 19/10/2021), n.28787

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Anna Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21785-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

VETRONAVIGLIO SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE CASTRO

PRETORIO, 122, presso lo studio dell’avvocato MARIO VALENTINI,

rappresentata e difesa dagli avvocati ERMANNO VAGLIO e GABRIELE

BRICCHI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 499/2015 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA,

depositata il 13/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/05/2021 dal Consigliere Dott. SALVATORE SAIJA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

All’esito di controllo automatizzato della dichiarazione presentata da Vetronaviglio s.r.l. per l’anno di imposta 2009, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis, vennero recuperati a tassazione con cartella di pagamento per carenti versamenti IVA, complessivi Euro 350.031,00, oltre interessi e sanzioni.

Proposto ricorso dalla contribuente, la C.T.P. di Milano lo accolse con sentenza n. 440/9/13; la C.T.R. per la Lombardia, con decisione del 13.2.2015, confermò la prima sentenza, rigettando l’appello dell’Ufficio. Osservò in particolare il secondo giudice che il credito in questione era stato oggetto di cessione – nell’ambito del conferimento di ramo d’azienda effettuato il 19.12.2008 da Vetronaviglio s.r.l. (poi Vetronaviglio Holding s.a.p.a.) a Beautypack s.r.l. (poi Vetronaviglio s.r.l.) – proprio in favore dell’odierna controricorrente, sicché la pretesa fiscale era da ritenersi infondata.

L’Agenzia delle Entrate ricorre ora per cassazione, sulla base di cinque motivi, cui resiste la società contribuente con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale condizionato, affidato a due motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Ricorso principale

1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente si duole della totale obliterazione del tenore letterale della clausola di cui all’art. 3 dell’atto di conferimento del 9.12.2008, a mente della quale restavano esclusi dal conferimento stesso tutti i crediti fiscali. L’aver ricostruito la comune volontà delle parti alla luce del solo comportamento fiscale successivo (ossia, la circostanza che la società conferente non avesse utilizzato il credito IVA in discorso, né l’avesse dichiarato) costituisce una violazione delle norme rubricate, perché il riferimento al comportamento successivo ha una valenza meramente sussidiaria.

1.2 – Con il secondo motivo, si lamenta erronea o falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente evidenzia che le circostanze utilizzate dalla C.T.R. a sostegno del preteso non utilizzo del credito da parte della conferente non sono gravi, precise e concordanti.

1.3 – Con il terzo motivo, si lamenta nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La ricorrente lamenta la mera apparenza della motivazione.

1.4 – Con il quarto motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente evidenzia che, poiché il conferimento di un ramo d’azienda determina la cessione del credito, occorre che detta cessione sia notificata all’Amministrazione finanziaria per poter spiegare effetto, accertamento del tutto omesso dal giudice d’appello, con conseguente erroneità della decisione, laddove s’e’ ritenuta sussistente ed efficace la cessione stessa.

1.5 – Con il quinto motivo, si denuncia nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, giacché – venendo in contestazione l’indebito utilizzo di un credito IVA – occorre previamente accertare se detto credito sia o meno sussistente. Ne deriva che la sentenza è nulla nella parte in cui omette ogni valutazione su tale necessario thema decidendum, in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ovvero per totale mancanza di motivazione, ove dovesse ritenersi che una tale valutazione sia stata effettuata per implicito.

Ricorso incidentale

1.6 – Con il primo motivo, la società sì duole della violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo la C.T.R. rigettato l’eccezione d’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle Entrate per difetto di sottoscrizione dell’atto da parte del Direttore Provinciale titolare e per non essere stata prodotta delega di firma, stante l’avvenuta sua contestazione.

1.7 – Con il secondo motivo, si deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la C.T.R. respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello dell’Agenzia, perché totalmente privo di specificità.

2.1 – Devono in primo luogo affrontarsi, per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, il terzo e il quinto motivo del ricorso principale, con cui si denuncia la nullità della sentenza per difetto di motivazione e la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Essi sono infondati.

Infatti, la C.T.R., seppur con motivazione succinta, ha dato sufficientemente conto dell’iter logico-giuridico posto a base della decisione, avendo affermato che il credito IVA per cui è processo era da ritenersi ricompreso nel conferimento d’azienda (e quindi con essa pervenuto alla società conferitaria), occorrendo riferirsi alle risultanze oggettivamente rilevabili dal comportamento fiscale delle parti contrattuali. Ha così evidenziato che la riprova che il credito in discorso fosse stato effettivamente conferito (e quindi che la odierna controricorrente ne fosse divenuta titolare) poteva riscontrarsi nella circostanza che detto credito, evincibile dalle liquidazioni IVA 2008 della conferente, non fosse stato utilizzato in compensazione, e che nel 2009 non risultava essere stato riportato a nuovo.

Si tratta, dunque, di motivazione certamente rispondente al “minimo costituzionale” (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014), anche in relazione all’accertamento circa la sussistenza del credito stesso, specie ove si consideri che le contestazioni mosse al riguardo dall’Agenzia delle Entrate – da quanto consta dagli atti – concernono la sola titolarità del credito e non anche la sua esistenza, mai messa in dubbio.

3.1 – Il primo motivo è inammissibile.

Infatti, è noto che “La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 28319/2017), il che è quanto, in definitiva, è avvenuto con la proposizione della censura in esame.

D’altra parte, contrariamente all’assunto della ricorrente, nell’interpretare la clausola in questione la C.T.R. non ha affatto obliterato il suo significato letterale, ma ha ritenuto di dover procedere alla scansione di ulteriori criteri interpretativi, con tipico apprezzamento di merito, non censurabile in questa sede se non sotto il profilo motivazionale (censura che tuttavia – come s’e’ visto poc’anzi – è da considerarsi comunque infondata, per come proposta). E’ stato infatti condivisibilmente affermato che “Costituisce questione di merito, rimessa al giudice competente, valutare il grado di chiarezza della clausola contrattuale, ai fini dell’impiego articolato dei vari criteri ermeneutici; deve escludersi, quindi, che nel giudizio di cassazione possa procedersi a una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di merito al canone ermeneutico del comportamento successivo delle parti” (Cass. n. 5624/2005).

Infine, non va sottaciuto che – al contrario di quanto sostenuto dall’Agenzia – il criterio del riferimento al comportamento successivo tenuto dalle parti dopo la conclusione del contratto non ha affatto natura sussidiaria; si è infatti ritenuto, con valutazione che il Collegio pienamente condivide, che “Nell’interpretazione del contratto, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti” (Cass. n. 20294/2019; Cass. n. 13595/2020).

4.1 – Il secondo motivo è anch’esso inammissibile.

Ancora di recente (Cass. n. 9059/2018) è stato ribadito che “In tema di prova per presunzioni, il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”.

Orbene, premesso che la ricorrente neanche articola qualsivoglia argomento a sostegno della pur denunciata violazione o falsa applicazione della regola sul riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.), donde l’inammissibilità della relativa censura in re ipsa, si osserva che quanto ai criteri legali di valutazione della prova presuntiva, che anch’essi sarebbero stati violati dalla C.T.R., l’Agenzia stessa omette di censurare – e di spiegarne adeguatamente le ragioni – in cosa il giudice d’appello avrebbe errato nell’effettuare la doverosa valutazione di sintesi degli elementi indiziari; come si deduce dall’insegnamento sopra richiamato, al fine di censurare efficacemente in sede di legittimità la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. non è infatti sufficiente la mera deduzione della carenza, in ciascun elemento indiziario, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ciò non potendo di per sé escludere che essi (cumulativamente considerati) costituiscano idoneo sostegno al libero convincimento riservato al giudice di merito. Da quanto precede discende, dunque, l’inammissibilità del motivo per difetto di specificità.

5.1 – Infine, il quarto motivo è inammissibile per novità, ed è comunque infondato.

Da quanto evincibile dagli atti, il problema della presunta necessità di notificare la cessione del credito fiscale (in quanto ricompreso nel conferimento del ramo d’azienda), ai sensi del disposto del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 1, non risulta mai affrontato nel giudizio di merito, e non consiste in una mera questione di diritto, implicando un accertamento in linea di fatto; deve pertanto applicarsi il principio secondo cui “Qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa” (Cass. n. 32804/2019).

In ogni caso, la censura è comunque destituita di fondamento. Sulla questione dell’efficacia della cessione dell’azienda (o di un suo ramo) riguardo al credito IVA, è stato in verità di recente affermato da questa stessa Sezione che “In caso di cessione dell’azienda, il credito IVA relativo all’azienda ceduta può essere escluso dalla cessione del compendio aziendale, essendo la disciplina prevista dagli artt. 2558,2559 c.c. derogabile per volontà delle parti, salva la notifica, ai fini della opponibilità della cessione all’amministrazione finanziaria, della cessione del credito IVA a termini del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 1, in deroga al disposto di cui all’art. 2559 c.c. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui il credito IVA sia stato escluso dalla cessione dell’azienda, il cedente è legittimato a richiederne il rimborso, ove ne sussistano presupposti” (Cass. n. 33965/2019).

Ritiene al riguardo la Corte che, quanto agli effetti della cessione d’azienda nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, detto principio costituisca in realtà un obiter dictum, eccedente la necessità logico-giuridica della decisione e come tale non vincolante (Cass. n. 11160/2004; Cass. n. 23635/2010; Cass. n. 1815/2012; Cass., Sez. Un., n. 23397/2016). Infatti, nella specie il giudice di merito aveva accertato che il credito IVA richiesto a rimborso dal cedente dell’azienda non era stato ricompreso nella cessione, ritenendo dunque la sua legittimazione e argomentando ad abundantiam che – a riprova della sua esclusione – non risultava neanche che la cessione dello stesso credito IVA fosse stata notificata all’Amministrazione, R.D. n. 2440 del 1923, ex art. 69; pertanto, nell’economia della decisione in discorso, la questione della notifica all’Amministrazione era del tutto avulsa dalla materia del contendere, essendosi nel resto ritenuto (del tutto condivisibilmente) che, nell’ambito della cessione d’azienda, le parti possano convenzionalmente escludere uno o più cespiti aziendali, compreso il credito IVA, con conseguente piena legittimazione del cedente rispetto alla richiesta di rimborso.

Ciò posto, ritiene la Corte come, in caso di conferimento di azienda o di ramo d’azienda, trovi piena applicazione – anche riguardo al credito IVA – la regola generale sulla cessione d’azienda di cui all’art. 2559 c.c., secondo cui la cessione dei crediti inerenti all’azienda ceduta (o al suo ramo) ha effetto nei confronti del debitore, pur in mancanza di accettazione o di notifica, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel R.I.; pertanto, trattandosi nella specie di conferimento di ramo aziendale successivo all’entrata a regime del R.I. (1 gennaio 2004), e non essendovi questione sull’adempimento pubblicitario in discorso, la cessione del credito IVA per cui è processo non era comunque soggetta ad alcuna notifica nelle forme del Regolamento di contabilità dello Stato (in senso conforme, di recente, Cass. n. 20415/2018, in fattispecie anteriore alla stessa attuazione del R.I., in continuità con Cass. n. 6578/2008 e Cass. n. 8644/2009). Atomizzare gli adempimenti conseguenti alla cessione dell’azienda, distinguendoli a seconda della natura dei cespiti, finirebbe infatti con lo svilire l’unitarietà della fattispecie negoziale, caratterizzata dal lato oggettivo, per costante giurisprudenza, dall’essere l’azienda una universalità di beni ex art. 816 c.c. (v., ex multis, Cass. 20191/2007). Non occorre dunque – il che vale, a maggior ragione, dopo l’attuazione del R.I. – notificare all’Amministrazione nelle forme di cui all’art. 69 cit. un separato atto ricognitivo di un effetto (la cessione del credito) che interviene ope legis (art. 2559 c.c.), ove il credito fiscale sia inerente all’azienda o al ramo aziendale oggetto della cessione o del conferimento.

Può dunque affermarsi il seguente principio di diritto: “Il conferimento di un’azienda (o di un suo ramo) in una società costituisce una cessione d’azienda, che comporta per legge – salvo patto contrario – la cessione dei crediti relativi al suo esercizio, compresi i crediti d’imposta vantati dal cedente nei confronti dell’erario, sicché, ai fini dell’efficacia nei confronti di quest’ultimo, non occorre procedere alla notifica ai sensi del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, discendendo i relativi effetti dall’adempimento delle formalità pubblicitarie presso il registro delle imprese, secondo quanto disposto in via generale dall’art. 2559 c.c.”.

6.1 – Il ricorso incidentale resta conseguentemente assorbito.

7.1 – In definitiva, il ricorso principale è rigettato, l’incidentale è assorbito. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito l’incidentale. Condanna l’Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese di lite, che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario in misura del 15%, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2021

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