Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28779 del 09/11/2018

Cassazione civile sez. II, 09/11/2018, (ud. 08/05/2018, dep. 09/11/2018), n.28779

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guidi – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13179/201A R.G. proposto da:

W.G.M.H., rappresentato e difeso, in forza di

procura in calce al ricorso, dall’avv. Antonio Tigani Sava, con

domicilio eletto in Roma, via Adelaide Ristori 9, presso lo studio

del difensore;

– ricorrente –

contro

P.A.A.M., P.A.C.M.,

rappresentati e difesi, in forza di procura in calce al

controricorso, dall’avv. Giuseppe Egidio Zaccaria e dall’avv. Rosa

Zaccaria, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini 131, presso lo

studio dei difensori;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2961, depositata

21 maggio 2013, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’8 2018 dal Consigliere Giuseppe Tedesco.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Con ricorso al Tribunale di Roma ex art. 28 della Legge n. 79 del 1942, gli avvocati P.A.A.M. e P.A.C.M., deducendo di avere svolto attività professionale in favore di W.G.M.H. (redazione e presentazione di quattro istanze di ammissione di crediti del cliente al passivo del fallimento di altrettante società), chiedevano la liquidazione delle spese, competenze e onorari ammontanti a complessive 19.354,86, oltre interessi.

Il convenuto, costituendosi, eccepiva di avere pagato in contanti ai professionisti (che avevano curato nell’interesse suo e di suoi familiari una pluralità di questioni) la somma di Lire 388.700.000 in cui era compreso anche l’importo oggetto della domanda.

In considerazione della posizione difensiva assunta dal convenuto, il tribunale disponeva il mutamento del rito e rimetteva la causa dinanzi al giudice monocratico.

Quindi il tribunale accoglieva la domanda, condannando il cliente al pagamento della somma richiesta in favore dei due professionisti.

La sentenza, impugnata dal cliente, era confermata dalla Corte d’appello di Roma.

La corte di merito, in risposta al rilievo del cliente che i professionisti non avevano contestato di avere ricevuto il maggiore importo, rilevava che ciò non era vero e, in ogni caso, che l’importo indicato dall’appellante “era di gran lunga sovradimensionato” rispetto alla pretesa. La corte, inoltre, riteneva inammissibile l’istanza di ammissione di giuramento decisorio avanzata dall’appellante, perchè la formula impiegata non era non idonea al fine al quale il mezzo istruttorio è deputato.

Per la cassazione della sentenza W.G.M.H. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati con memoria.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Il ricorrente sostiene che gli attori avevano contestato la ricezione della maggiore somma tardivamente, solo nella comparsa conclusionale, mentre inizialmente non avevano avanzato altro rilievo se non quello che il pagamento non era riferibile ai rapporti oggetto del giudizio.

Il secondo motivo denuncia che, non essendo il fatto del pagamento contestato, la corte avrebbe dovuto definire la lite in applicazione del principio di diritto secondo cui “quando il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto somme idonee ad estinguere il debito per il quale sia stato convenuto in giudizio, spetta al creditore attore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, provare le condizioni necessarie per la dedotta, diversa, imputazione, ai sensi dell’art. 1193 c.c.” (Cass. n. 17102/2006).

1.1. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

Il principio di diritto richiamato dal ricorrente è compiutamente espresso da questa Suprema Corte nei seguenti termini: “Il creditore che agisce per il pagamento di un suo credito è tenuto unicamente a fornire la prova del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto, e non anche a provare il mancato pagamento, poichè il pagamento integra un fatto estintivo, la cui prova incombe al debitore che l’eccepisca; soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva, e cioè puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito, l’onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi a un credito diverso. L’onere del convenuto di provare il fatto estintivo rappresenta, perciò, un prius logico rispetto all’onere di provare la diversa imputazione del pagamento, nel senso che l’onere del creditore acquista la sua ragion d’essere soltanto dopo che il debitore abbia dato la prova esauriente e completa del fatto estintivo” (Cass. n. 3902/1977).

Nello stesso senso in altre pronunce si chiarisce che l’onere del creditore di dimostrare “l’eventuale esistenza di altri crediti cui il pagamento in questione inerisca”, presuppone che “il debitore abbia dato la prova del pagamento, totale o parziale, del debito avente efficacia estintiva, in quanto eseguito con riferimento a quel determinato credito azionato” (Cass. n. 1041/1998; n. 1571/2000; n. 14741/2006).

In altre parole soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva (cioè puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito) l’onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale contro deduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso o più antico (Cass. n. 20288/2011; Cass. n. 205/2007).

1.2. Il ricorrente chiarisce di avere prontamente rilevato dinanzi al giudice di primo grado che, nel corso del tempo, aveva intrattenuto con gli avvocati, insieme alla propria madre e al proprio fratello, complessi rapporti professionali: i due avvocati attori “avevano perorato diverse questioni legali legate alla nobile famiglia (ennesima circostanza non contestata)”.

Ciò posto egli aveva eccepito che la somma già consegnata ai professionisti, pari a circa 200.000,00 Euro attuali, “vista la sua natura omnicomprensiva”, saldava anche il credito per cui ancora si discuteva, che, essendo di gran lunga inferiore (circa 19.000,00 Euro), era contenuto nel maggiore pagamento (si apprende dal controricorso che si trattava della redazione e presentazione di quattro istanze di ammissione di crediti del cliente al passivo del fallimento di altrettante società).

Spettava quindi ai due avvocati attori fornire la prova delle condizioni della diversa imputazione.

1.3. Colui che agisce per il pagamento di un proprio credito assolve l’onere probatorio a suo carico con la dimostrazione del rapporto o del titolo su cui è fondata la pretesa fatta valere in giudizio, e non è tenuto a provare anche che il debitore non abbia pagato, costituendo il pagamento un fatto estintivo la cui prova incombe al debitore che lo eccepisce. Tale prova, peraltro, per poter validamente contrastare la dimostrazione del credito data dalla controparte, deve avere carattere certo e determinato, con specifico riferimento al rapporto o titolo dedotto in giudizio, giacchè ogni incertezza o ambiguità non può che risolversi – atteso l’onere imposto dalla norma – in danno del debitore (Cass. n. 3020/1980).

In applicazione di tale principio questa Suprema Corte ha affermato che “ove il datore di lavoro imputi erroneamente ad una determinata voce della retribuzione complessiva una somma superiore a quella effettivamente dovuta, l’eccedenza può essere validamente imputata ad altra voce della retribuzione non corrisposta integralmente; quando tuttavia il lavoratore contesti, sia pure in forma generica, la causale delle somme a lui corrisposte, è onere del datore di lavoro comprovare l’avvenuto pagamento con specifico riferimento a ciascuna voce della retribuzione dedotta in giudizio” (Cass. n. 7278/1991).

Mutatis mutandis, se un avvocato agisce contro il cliente per il pagamento di un determinato credito, riferito a ben determinate prestazioni, e il cliente eccepisce di avere pagato nel corso del tempo una somma di molto maggiore rispetto a quella richiesta, riferita indistintamente a tutte le pratiche curate dal legale nel suo interesse (come già detto, si legge nei ricorso che i due avvocati attori “avevano perorato diverse questioni legali legate alla nobile famiglia”), l’onere del debitore di dimostrare l’efficacia estintiva del pagamento non può ritenersi assolto in base al rilievo che l’avvocato non abbia specificamente contestato la ricezione della somma, ma si sia limitato a dedurre l’incongruenza fra l’importo oggetto della domanda e quello oggetto di eccezione.

Insomma quando la relazione fra la pretesa e il pagamento non emerga ex se dalla corrispondenza degli importi o da altre circostanze idonee, anche sul piano presuntivo, a circoscrivere l’efficacia estintiva del pagamento entro un ben delimitato ambito, il debitore non può limitarsi a postulare genericamente la “natura omnicomprensiva” del pagamento.

1.4. La decisione della corte è in linea con tali principi: il “sovradimensionamento dell’importo indicato dall’appellante rispetto alle prestazioni intellettuali oggetto del contendere”, rendeva incerta e ambigua la prova del fatto estintivo da parte del debitore, dovendosi risolvere l’incertezza o l’ambiguità “contro il debitore stesso e non già a danno del creditore o dei terzi (Cass. n. 3902/1977; n. 4215/1975).

Quanto infine alla ulteriore censura adombrata nel primo motivo, che la corte avrebbe deciso in assenza del fascicolo di parte, si ricorda che “l’acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice dell’impugnazione, con la conseguenza che l’omessa acquisizione, cui non consegue un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili aliunde, e specificamente indicati dalla parte interessata” (Cass. n. 27691/2017; n. 24437/2007).

In base alle considerazioni operate nel motivo in esame, attraverso l’esame del fascicolo, la corte d’appello avrebbe dovuto accorgersi che il fatto materiale del pagamento non era stato oggetto di specifica contestazione.

La censura, naturalmente, riflette il convincimento del ricorrente che, nella specie, l’assenza di una specifica contestazione sulla ricezione della somma fosse sufficiente a determinare l’inversione dell’onere della prova, mentre è stato chiarito che l’inversione dell’onere della prova implica la prova di un pagamento avente efficacia estintiva, in quanto “eseguito “con specifico riferimento al rapporto o titolo dedotto in giudizio” (Cass. n. 3020/1980 cit.).

Pertanto, in disparte il rilievo che il ricorrente avrebbe ben potuto trascrivere, nelle parti di interesse, gli scritti di controparte, l’elemento che si dovrebbe trarre dal fascicolo per quanto sopra detto, è comunque privo di decisività.

2. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 233 e 236 c.p.c..

Il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha “ritenuto inammissibile l’istanza di giuramento decisorio formulata dall’appellante poichè inidonea al raggiungimento dello scopo al quale detto mezzo istruttorio è deputato”.

Si evidenzia che c’era stata nella formulazione dei capitoli una banale omissione (assenza del “non” prima del predicato verbale), cui la corte avrebbe potuto porre rimedio mediante l’esercizio della facoltà accordata al giudice dall’art. 236 c.p.c..

2.1 Il motivo è infondato.

I capitoli del giuramento decisorio devono essere formulati in modo tale che il destinatario possa, a sua scelta, giurare e vincere la lite o non giurare e perderla (Cass. n. 9045/2010).

A seguito della prestazione del giuramento stesso, altro non resta al giudice che verificare l’an iuratum sit, onde accogliere o respingere la domanda sul punto che ne ha formato oggetto (Cass. n. 24025/2009).

La relativa valutazione (positiva o negativa) è rimessa all’apprezzamento del giudice del merito, il cui giudizio circa l’idoneità della formula a definire la lite è sindacabile in sede di legittimità con esclusivo riferimento alla sussistenza di vizi logici o giuridici attinenti all’apprezzamento espresso dal predetto giudice (Cass. n. 9831/2014).

E’ del pari incensurabile in sede di legittimità il mancato esercizio, da parte del giudice di merito, della facoltà di modificare la formula del giuramento, facoltà peraltro consentita solo per quanto attiene ad aspetti formali della formula stessa, al fine di renderne più chiaro il contenuto (Cass. 12779/2003).

In contrasto con tali principi, con il motivo in esame, il ricorrente si duole proprio del fatto che la corte di merito, omettendo di cogliere il carattere formale dell’errore, non sia intervenuta per integrare l’omissione, modificando i capitoli.

3. In conclusione il ricorso è rigettato, con addebito di spese al soccombente.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo del versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Dichiara ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 8 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2018

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