Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28760 del 16/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/12/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 16/12/2020), n.28760

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20632/2013 R.G. proposto da:

V.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Pierluigi

Avallone del foro di Latina giusta procura a margine del ricorso,

elettivamente domiciliato in Roma, via Cardarelli n. 9, presso lo

studio dell’Avv. Stefano Tarullo;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 469/40/2012 della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio, Sezione distaccata di Latina, depositata in

data 23 luglio 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 ottobre

2020 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 354/7/2008 la Commissione Tributaria Provinciale di Latina accolse parzialmente il ricorso proposto da V.F., commerciante all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, contro l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), relativo ad IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno 2003, con cui la Agenzia delle Entrate – Ufficio di Formia, sulla base di una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza per gli anni 2003, 2004 e 2005 – attraverso la quale era emerso che la ditta individuale “La Costiera di V.F.”, di cui era titolare V.F., nell’anno in contestazione, aveva intrattenuto rapporti economici con altre imprese di cui si sarebbe servita per attività di facchinaggio, lavorazione, carico e scarico delle merci documentati attraverso fatture prive dei requisiti di cui al D.P.R. n. 633 del 1973, art. 21, comma 1, lett. g), in quanto per la maggior parte generiche con riguardo alla specificazione della natura, quantità e qualità delle prestazioni di servizi rese e quindi prive dei requisiti di certezza ed in un caso relative ad operazioni oggettivamente accertate come inesistenti poichè il preteso fornitore era all’estero e la ditta era priva di dipendenti e di attrezzature – e di successivo processo verbale di constatazione a seguito anche di invito al contribuente a fornire in contraddittorio chiarimenti e documenti sulla effettività delle operazioni, cui il contribuente non aveva risposto, aveva recuperato a tassazione costi ritenuti indebitamente dedotti ed accertato maggiori imposte ai fini IRPEF, IVA ed IRAP.

Il contribuente aveva dedotto con il ricorso la congruità, inerenza ed effettività dei costi sostenuti in ragione di specifiche esigenze lavorative che imponevano l’impiego di personale avventizio nonchè la operatività della ditta B., ritenuta inesistente dai verificatori, apparendo dirimente comunque, sotto il profilo probatorio, la produzione degli assegni con cui erano state pagate le fatture, mentre l’onere della prova della inesistenza delle operazioni spettava all’Ufficio.

La CTP ritenne la fondatezza dell’an della pretesa erariale, in considerazione della genericità delle indicazioni riportate nelle fatture, della mancata allegazione dei contratti di appalto (tranne quello con la cooperativa MU.SE peraltro privo di data certa e non registrato) e della irrilevanza degli assegni bancari prodotti che non provavano la effettività delle operazioni, ma accolse parzialmente il ricorso del contribuente, riducendo la pretesa impositiva del 30%, poichè l’Ufficio, nel determinare i ricavi, non aveva tenuto in debito conto le specifiche esigenze operative dell’attività svolta dal contribuente che imponevano costi correlati.

Presentò appello principale il contribuente ribadendo che le operazioni contabilizzate erano effettive e non contestabili dall’Ufficio, basate su fatture non generiche e validamente documentate e che inoltre i primi giudici non avevano compiutamente motivato in ordine alle ragioni ed ai criteri adoperati per determinare il valore dei costi. L’Agenzia oppose che si trattava di indebita deduzione di costi relativi ad operazioni inesistenti, che le fatture contestate erano prive dei requisiti richiesti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, e che il contratto di appalto relativo ad una delle operazioni non era probante in quanto privo di data certa, non registrato e quindi non opponibile ai terzi e presentò a sua volta appello incidentale, quanto al riconoscimento dei costi in misura percentuale forfettaria, rilevando altresì che in materia di tributi non poteva farsi ricorso all’equità.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, con sentenza n. 469/40/2012, depositata il 23 luglio 2012, rigettò sia l’appello principale che quello incidentale e compensò fra le parti le spese del giudizio. La sentenza di appello ritenne che i dati posti a base della rettifica, a seguito delle operazioni di verifica e le conseguenti osservazioni dell’organo verificatore fossero corretti e condivisibili in quanto le fatture recavano diciture generiche in ordine alle prestazioni rese ed erano in parte prive della qualità delle prestazioni, delle ore di lavoro. del numero dei lavoratori e del luogo delle prestazioni, con conseguente violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 da parte del contribuente, il che non aveva consentito il controllo sulla effettività e certezza delle operazioni impedendo altresì la ricerca della natura e delle modalità delle stesse e rendeva indetraibile l’IVA, posto che dalle fatture non emergevano i requisiti di certezza delle operazioni, mentre la produzione di un contratto di appalto non costituiva valido documento probatorio; nel contempo ritenne però che dovessero essere riconosciuti i relativi costi la cui percentuale, determinata dai primi giudici appariva congrua in virtù delle esigenze lavorative dell’attività esercitata dal contribuente.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione il contribuente V.F., quale titolare della ditta individuale “La Costiera di V.F.”, con atto notificato il 12 – 19 settembre 2013, affidato a otto motivi.

Resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, di violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonchè dell’art. 118 dispos. att. c.p.c. e 112 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza impugnata poichè, a fronte degli articolati motivi di appello che avevano giustificato i costi per le singole fatture contestate, la sentenza impugnata non consentiva di comprendere quali fossero i motivi di appello proposti dal contribuente e quali vizi fossero stati esaminati dal giudice di seconde cure, il quale aveva risposto cumulativamente ai motivi di gravame come se si trattasse di situazioni omogenee, cosicchè non aveva consentito al contribuente di comprendere se le operazioni commerciali fossero state ritenute inesistenti ovvero se le fatture fossero state ritenute soltanto irregolari.

1.1. Il motivo rivela in primo luogo ampi profili di inammissibilità poichè si sostiene la omissione di pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. con riguardo ai motivi di appello che non sarebbero stati indicati nella sentenza di appello e quindi non sarebbero stati neppure presi in esame dal giudice di appello, però il ricorrente trascura di trascrivere quali sarebbero state le sue specifiche doglianze e si limita a sostenere che la risposta del giudice di appello sarebbe stata generica, il che priva il motivo di autosufficienza. Pur essendo vero in proposito che la trascrizione integrale degli atti di causa nel ricorso non evita il vizio di autosufficienza, essendo sufficiente ed anzi doveroso che il ricorso indichi i punti salienti occorrenti per comprendere il vizio dedotto (v. Cass. Sez. U, Sentenza n. 5698 del 11/04/2012 Rv. 621813 – 01), tuttavia è anche vero che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 22880 del 29/09/2017 Rv. 645637 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 23834 del 25/09/2019 Rv. 655419 – 01), così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell’iter” processuale e di individuare nei suoi termini esatti e non genericamente il vizio suddetto, senza compiere generali verifiche degli atti; il che nella specie non è avvenuto poichè il ricorrente si limita ad una esposizione del tutto riassuntiva dei motivi di appello (pag. 13 del ricorso), fra l’altro specificamente contestata dalla Agenzia delle Entrate, la quale ha rilevato con il controricorso come la ricostruzione dell’atto di appello, contenuta nel ricorso, non fosse conforme all’atto stesso che appariva del tutto generico e che aveva cercato di introdurre per la prima volta vizi mai dedotti in primo grado (v. in particolare, pag. 4 del controricorso).

1.2. In ogni caso dalla stessa trascrizione parziale della sentenza di appello operata dal ricorrente a pagine 11 e 12 del ricorso per cassazione e dal suo esame diretto da parte di questa Corte risulta con chiarezza come la sentenza impugnata abbia ricostruito non solo i fatti essenziali di causa (in particolare a pagine 1 e 2, laddove riassume con sufficiente precisione il contenuto del ricorso introduttivo, le difese in primo dell’Ufficio e il contenuto dell’appello diviso per punti specifici), anche con riguardo alla asserita veridicità ed effettività delle operazioni da cui erano scaturiti i costi per raccolta e carico dei limoni ed agrumi ed alla asserita completezza delle fatture contestate dall’Ufficio, ma anche la risposta ad esse data da parte del giudice di primo grado, per poi passare a riassumere la memoria difensiva presentata dal contribuente in vista della decisione dell’appello (pag. 3 della sentenza di appello) e quindi alla decisione sui motivi di appello (pag. 4 e 5) con cui la sentenza impugnata, dopo avere richiamato i dati di fatto posti alla base dell’accertamento a seguito della verifica fiscale della Guardia di Finanza, ha dato risposta alle doglianze dell’appellante anche in relazione alla incompletezza delle fatture, emesse in violazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, perchè – tutte – generiche in ordine alle prestazioni rese e – talune – prive delle qualità delle prestazioni, delle ore di lavoro, del numero dei lavoratori e del luogo della prestazione, il che aveva impedito la ricerca della natura e delle modalità delle prestazioni e quindi il controllo sulla effettività e sulla certezza delle operazioni, nonchè in ordine alla produzione di un solo contratto di appalto privo di data certa e quindi non apponibile alla Amministrazione Finanziaria, per farne così discendere una condivisione dell’accertamento in rettifica ma anche della verifica fiscale su cui questo era fondato, oltre che delle argomentazioni già svolte dal giudice di primo grado rispetto alle quale la sentenza di appello si poneva come confermativa, con conseguente rigetto dell’appello.

1.3. Non è quindi pertinente la deduzione del vizio di omessa pronuncia poichè sono riportati nella sentenza i motivi di appello che ad avviso del ricorrente non sarebbero stati indicati e la pronuncia di rigetto offerta dal giudice di appello autonomamente, ma anche con specifico riferimento per relationem alla motivazione sullo stesso punto da parte della sentenza di primo grado (v. pag 5 della sentenza di appello: La decisione e la motivazione di primo grado non meritano censura), con la quale si andava a saldare quella di appello, che la ha richiamata e di cui era confermativa. La circostanza che la sentenza di appello non abbia, in ipotesi, trascritto le singole argomentazioni sviluppate dall’appellante (con riguardo, ad esempio, alla pretesa assimilabilità delle prestazioni di facchinaggio a quelle rese da un avvocato al quale non viene richiesto di indicare in fattura i giorni di lavoro su una pratica), non solo non esclude che una risposta vi sia stata, bensì rende evidente che vi è stata una risposta autonoma anche da parte del giudice di appello alle doglianze del contribuente, pur in assenza dell’esame di argomenti ritenuti non pertinenti. Non si tratta perciò di risposta contraddittoria o confusa come sostiene il ricorrente, bensì di una risposta in parte autonoma ed in parte per relationem alla sentenza di primo grado, pur se non corrispondente a quella che avrebbe auspicato il ricorrente.

1.4. Avendo quindi il giudice di appello dato risposta alla richiesta della parte, non può ritenersi sussistente la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, mentre, qualora si assuma, come nel caso in esame, che una tale pronuncia comporti la mancata valorizzazione di fatti che si ritengano essere stati affermati dalla parte con modalità sufficientemente specifiche, potrebbe ammettersi astrattamente censura, da articolare nel rigoroso rispetto dei criteri di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (peraltro non presentata nel caso in esame), qualora uno o più dei predetti fatti integrino direttamente elementi costitutivi della fattispecie astratta e dunque per violazione della norma sostanziale, oppure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame di una o più di tali circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata (v. Cass. sentenza n. 26764 del 21/10/2019 Rv. 655514 – 01; N. 27415 del 2018 Rv. 651028 – 01; N. 13977 del 2019 Rv. 654145 – 01; N. 20721 del 2018 Rv. 650018 – 02; N. 16611 del 2018 Rv. 649628 – 01; N. 6145 del 2019 Rv. 653076 – 01).

1.5. In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è infatti più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018 (Rv. 650880 – 01). Nel caso in esame, però, una risposta vi è stata con riguardo non solo a quella già fornita dal giudice di primo grado ma anche in riferimento alla genericità delle fatture che restavano prive dei requisiti di idoneità a dimostrare il costo, anche perchè non integrate da alcun contratto o altro documento sottostante, per cui il primo motivo di ricorso, oltre che inammissibile, è anche infondato.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 2 e 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, e della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, rispetto alla circostanza, integrante un fatto decisivo, che la sentenza di appello risultava condizionata dalle contraddizioni tra i due organi preposti all’accertamento (Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate) e di fatto resa su violazioni constatate dalla Guardia di Finanza (violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21) e non anche su quelle diverse accertate dall’Ufficio (falsa fatturazione).

3. Con il terzo motivo il ricorrente ripropone poi sostanzialmente la stessa questione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sotto il profilo della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio poichè il collegio di appello avrebbe sorvolato sulla non coincidenza tra i rilievi dell’Ufficio e quelli contenuti nel verbale della Guardia di Finanza.

3.1. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente poichè in parte ripetitivi ed appaiono inammissibili per più ordini di ragioni.

3.2. In sostanza il ricorrente sostiene che, mentre il processo verbale della Guardia di Finanza si sarebbe basato sulla violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, per incompletezza e genericità delle fatture, l’accertamento della Agenzia delle Entrate sarebbe fondato su una violazione completamente diversa e cioè la falsità soggettiva ed oggettiva delle fatture, così ponendosi in contraddizione con la verifica della Guardia di Finanza: la sentenza di appello, non avendo rilevato tale contraddizione ed avendo anzi erroneamente presupposto che pure l’Ufficio avesse contestato con l’accertamento la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, si sarebbe pronunciata sulle violazioni contestate dalla Guardia di finanza e non anche su quelle diverse accertate dall’Ufficio e cioè di falsa fatturazione, così consentendo una modifica della motivazione dell’accertamento operata dall’Ufficio in corso di causa con adeguamento a quella proposta in sede di verifica fiscale, in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, che non consente la modificazione o integrazione, neppure mediata, della motivazione dell’accertamento e cadendo nel contempo in vizio di omessa motivazione in merito alla eccezione sollevata dal contribuente anche con la memoria difensiva in appello del 27.3.2012, a proposito della “ingiustificata contraddizione” tra quanto verificato dalla Guardia di Finanza e quanto contestato dall’Ufficio.

3.3. Con le controdeduzioni la Agenzia delle Entrate oppone la inammissibilità del secondo motivo di ricorso in quanto composito o misto e di entrambi i motivi per difetto di autosufficienza, per la novità della questione proposta per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, non essendo stato, in particolare, prospettato in sede di ricorso introduttivo il vizio di motivazione dell’accertamento e comunque perchè volti ad ottenere nel giudizio di legittimità un non consentito riesame del merito della lite.

3.4. I motivi sono in effetti, in primo luogo, inammissibili.

3.5. Il secondo motivo rientra fra quelli c.d. “misti” (o “compositi”) caratterizzati da censure tra loro incompatibili, tanto in astratto quanto nella loro concreta articolazione, in quanto inscindibili tanto da non poterne discernere i differenti profili e le relative critiche (sui limiti di ammissibilità del motivo c.d. “misto” o “composito”, si vedano, ex plurimis: Cass. Sez. U., 06/05/2015, n. 9100, Rv. 635452-01; Cass. sez. 6-3, 17/03/2017, n. 7009, Rv. 643681-01), poichè si deduce congiuntamente la omessa pronuncia sulla non coincidenza fra la motivazione del pvc e quella dell’accertamento e la carenza di motivazione, già astrattamente tra loro incompatibili, implicando solo la prima (omessa pronuncia) la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, così traducendosi in una violazione dell’art. 112 c.p.c. (che deve essere, fra l’altro, fatta valere esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione di cui al detto art. 360 c.p.c., n. 5), mentre la seconda censura (l’omessa motivazione), presuppone invece l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito (nella specie, del presunto motivo di appello), ancorchè se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione (con riferimento alla differente ipotesi dell’astratta incompatibilità delle censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, si veda, con riferimento alla formulazione del detto articolo antecedentemente alla novella di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che qui interessa, Cass. sez. 4, 18/06/2014, n. 13866, Rv. 631333).

3.6. Alla incompatibilità astratta si aggiunge poi quella in concreto considerato che, appunto in concreto, si deduce che il giudice di appello avrebbe omesso di rilevare nullità dedotte fin dal ricorso introduttivo del giudizio e di pronunciare su questioni dedotte in primo grado o con l’appello, il che non può tradursi in violazione di legge e tanto meno in motivazione carente o contraddittoria, poichè tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, mentre nella specie si assume che il giudice di appello non avrebbe, volutamente, preso in esame le questioni.

3.7. Entrambi i motivi sono altresì inammissibili per difetto di autosufficienza poichè il ricorrente non indica dove e quando avrebbe dedotto tali pretesi vizi nel giudizio di merito limitandosi a sostenere che nella propria memoria in appello avrebbe segnalato la contraddizione fra quanto verificato dalla Guardia di Finanza e quanto contestato dall’Ufficio (pag. 19 del ricorso), il che non rispetta i principi di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale esige, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, che nel ricorso per cassazione siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui è stata censurata la sentenza di primo grado sul punto (v., per tutte, Cass. Sez. L, Sentenza n. 11738 del 08/06/2016 Rv. 640032 – 01).

3.8. Nel contempo i motivi sono inammissibili pure perchè nuovi in quanto proposti per la prima volta nel giudizio di cassazione, come rilevato dalla Agenzia delle Entrate.

3.9. Il ricorrente sostiene a pagina 3 del ricorso per cassazione che nel ricorso iniziale avrebbe sottolineato che la tesi della falsità delle fatture contenuta nell’accertamento non avrebbe trovato riscontro nel verbale della Guardia di Finanza, ma non adombra neppure di avere dedotto il vizio di motivazione dell’accertamento come motivo del ricorso iniziale e comunque non lo trascrive nè lo indica e adduce, nel contempo, a pagina 19 del ricorso, di avere dedotto con la memoria difensiva del 27.3.2012 in appello la contraddizione tra quanto verificato dalla Guardia di Finanza e quanto contestato dall’Ufficio, però neppure ciò implica una deduzione del difetto di motivazione dell’atto impugnato da cui conseguirebbe comunque non già la violazione di legge bensì eventualmente il vizio di omessa pronuncia. Tanto meno deriverebbe il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione per avere il giudice di appello “sorvolato” sui rilievi del contribuente in merito al contrasto fra le deduzioni dei verificatori e quelli degli accertatori, poichè viene dedotta la pretesa contraddittorietà della motivazione della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in difformità con l’indirizzo di questa Corte (Cass. n. 21152/14), secondo cui tale disposizione, già nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 (applicabile nella specie ratione temporis, essendo stata la sentenza pubblicata in data 23 luglio 2012), prevede l'”omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate.

3.10. In ogni caso si rileva dagli atti, così come trascritti e virgolettati dallo steso ricorrente a pag. 3 del ricorso per cassazione, che l’Ufficio aveva motivato l’accertamento per relationem alla verifica della Guardia di Finanza ed al conseguente processo verbale di constatazione del 17.5.2006 già consegnato alla parte in pari data in uno con gli allegati e da questa sottoscritto “con il presente integralmente richiamato ai sensi e per gli effetti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, l’Ufficio ritenuti fondati i documenti i rilievi constatati in sede di pvc….tenuto conto della consistenza e sistematicità della documentazione rinvenuta nel corso della verifica e delle notizie comunque raccolte che concretizzano l’ipotesi, nel suo insieme, di aver contabilizzato tra i costi fatture per operazioni soggettivamente ed oggettivamente inesistenti…Per quanto sopra si procede ad accertare il reddito di impresa…. D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, e recuperando a tassazione i costi per operazioni inesistenti così come constatato dalla Guardia di Finanza, nonchè a recuperare l’IVA D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54, comma 2 “. L’Ufficio quindi, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, aveva integralmente richiamato nell’accertamento e fatto propria, recependola integralmente nell’accertamento, la motivazione del pvc ed eseguito i recuperi a tassazione dei costi, così come constatati dalla Guardia di Finanza, per cui non si vede come si possa parlare di contraddizione fra la motivazione del pvc e quella dell’accertamento.

3.11. Ad avviso del ricorrente la contraddizione deriverebbe dalla circostanza che la motivazione dell’accertamento non avrebbe riportato espressamente la violazione nella compilazione delle fatture del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, che avrebbe costituito il fondamento della ricostruzione del recupero dei costi e dei conseguenti redditi da parte della Guardia di Finanza e che la ricostruzione della Guardia di Finanza sarebbe tata incompatibile con la tesi della inesistenza dei costi prospettata dalla Agenzia delle Entrate, però entrambe tali deduzioni appaiono non pertinenti. Infatti la violazione del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 21, che indica il contenuto della fattura per essere qualificata tale (la fattura deve contenere le seguenti indicazioni: 1) ditta, denominazione o ragione sociale e residenza o domicilio dei soggetti fra cui è effettuata l’operazione, nonchè, per quelli domiciliati all’estero, ubicazione della stabile organizzazione in Italia. Se non si tratta di imprese, società o enti devono essere indicati, in luogo della ditta, denominazione o ragione sociale, il nome e il cognome; 2) natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione; 3) corrispettivi e altri dati necessari per la determinazione della base imponibile ai sensi degli artt. 13, 14 e 15; 4) aliquota e ammontare dell’imposta, con arrotondamento alla lira delle frazioni inferiori….), era riportata nel pvc cui ha fatto integrale riferimento la motivazione dell’avviso di accertamento che lo ha recepito globalmente e non aveva necessità di ricopiarlo (v, per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 32957 del 20/12/2018 Rv. 652115 – 01: In tema di avviso di accertamento, la motivazione “per relationem” con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio) e la citazione di tale disposizione non è in alcun modo incompatibile con la tesi delle operazioni inesistenti poichè le prestazioni che si assumono mai realizzate, in assenza di prova della loro realizzazione (come nel caso in esame in cui la tesi sia dei verificatori che dell’Ufficio impositore è sempre stata quella della mancanza di prova delle operazioni di facchinaggio e di raccolta e manipolazione dei prodotti agricoli per genericità delle fatture ed assenza di qualsiasi elemento che potesse giustificare la prestazione, come ad esempio un contratto di appalto con data certa) costituiscono operazioni inesistenti ossia prestazioni mai realmente effettuate che giustificano il disconoscimento della deducibilità dei costi e la detraibilità dell’I.V.A. e cioè la pretesa fiscale, a fronte della quale spetta al contribuente dimostrare che la prestazione era stata eseguita (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 33915 del 19/12/2019 Rv. 656602 – 02).

3.12. In tema di imposte sui redditi delle imprese, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, ora medesimo D.P.R., art. 109, comma 5, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta). Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 30366 del 21/11/2019 Rv. 655932 – 01). Al riguardo, infatti, secondo consolidato canone ermeneutico (cfr. Cass. nn. 21980/15, 21446/14, 24426/13, 9108/12, 5748/10), sia in tema di imposizione diretta sia in tema di Iva, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell’impresa solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, ed idonea a rivelare compiutamente natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate.

3.13. I suddetti principi riprendono un indirizzo più volte evidenziato anche successivamente dalla Code di Cassazione (n. 21980/2015, n. 27777/2017) per cui all’interno della fattura bisogna inserire in maniera fedele tutti i dati obbligatori previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21. Tra questi spicca la descrizione dettagliata del bene o del servizio, presupposto indispensabile ai fini del diritto alla detrazione IVA ed alla deduzione del costo. L’indicazione completa ed esaustiva circa la natura dei beni e servizi acquistati si rende necessaria per verificare se i predetti beni e servizi siano acquistati nell’esercizio dell’impresa, dell’arte o della professione. E non si tratta di una previsione meramente formale, bensì sostanziale in quanto finalizzata a verificare l’osservanza del principio di inerenza in base al quale il costo può essere considerato in deduzione e l’IVA in detrazione. L’importanza della descrizione contenuta nella fattura diventa più ancor più evidente quando questa costituisce l’unico documento probatorio della prestazione resa e soprattutto quando le operazioni a essa sottostanti sono costituite da servizi che, come tali, non necessitano di altra documentazione obbligatoria quali, per esempio, i documenti di trasporto.

3.14. Deve, inoltre, ribadirsi che è altresì consolidato il principio, secondo cui, sia ai fini della deduzione dei costi in tema di imposte dirette sia ai fini di detrazione Iva, incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o del servizio all’esercizio dell’attività medesima (cfr. Cass. nn. 13300/17, 18475/16, 21184/14, 16853/13; Cass. n. 27777 del 2017). E’ vero che il principio sopra esposto, derivanti da una elaborazione giurisprudenziale consolidata della Corte di cassazione integrante il cd. diritto vivente, deve essere letto in relazione a quello per cui in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, spetta alla Amministrazione l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere. Tale prova, però, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 40, e art. 54, comma 2, potrà essere fornita anche mediante presunzioni, nel qual caso, se provata presuntivamente la inesistenza, passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell’art. 2697 c.c., comma 2.

Pertanto il giudice tributario, qualora ritenga gli elementi addotti dall’Amministrazione dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve passare a valutare la prova contraria offerta dal contribuente (v., per tutte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012 Rv. 622993 – 01).

3.15. Orbene, nel caso in esame, con argomentazioni conformi della sentenza di primo e di secondo grado è stato affermato che i costi non fossero reali in quanto le fatture, relative a molteplici ditte, che avrebbero dovuti documentarli, erano prive dei requisiti essenziali per essere qualificate come tali e mancavano altri elementi che li comprovassero, avendo il contribuente prodotto un solo contratto di appalto privo di data certa, non registrato e non opponibile alla Amministrazione finanziaria, mentre già la sentenza di primo grado indicava dettagliatamente i fatti contestati e le prove a sostegno (pag. 5, secondo capoverso della sentenza impugnata), per cui la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che la irregolarità delle fatture, non redatte in conformità ai requisiti prescritti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, facesse venir meno la presunzione di veridicità di quanto rappresentato nelle stesse, ai fini della verifica del diritto alla detrazione del relativo costo, in assenza di eventuali altri documenti o informazioni complementari mai fornite dal soggetto passivo (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 22940 del 26/09/2018 Rv. 650686 – 02).

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio rispetto alla dedotta circostanza che la sentenza di appello risultava logicamente contraddittoria rispetto ad un fatto decisivo per il giudizio dimostrato dall’esame degli scritti difensivi del ricorrente, non potendo ammettere in deduzione nella percentuale del 30% costi aziendali in virtù di fatture ritenute false, mentre avrebbe dovuto consequenzialmente escludere tutti i costi.

4.1. Occorre premettere che la sentenza di appello contiene una precisa motivazione sulla doglianza del ricorrente in merito al mancato riconoscimento integrale dei costi, in quanto ha rilevato che, pur avendo il ricorrente impedito con la sua condotta la ricerca della natura e delle modalità delle operazioni e quindi un controllo delle stesse, peraltro, a fronte dei ricavi, dovevano essere riconosciuti anche i relativi costi nella misura forfettaria del 30% di quelli pretesi dal contribuente, già riconosciuta dal giudice di primo grado e ritenuta congrua in virtù delle esigenze operative dell’attività esercitata dal contribuente.

4.2. Ciò posto, il contribuente non contesta la congruità della misura percentuale di riconoscimento dei costi, bensì sostiene che la motivazione della sentenza sarebbe contraddittoria in relazione ad un fatto decisivo per il giudizio posto che, o le operazioni erano veritiere per cui i costi avrebbero dovuto essere integralmente riconosciuti, ovvero erano false con esclusione integrale dei costi.

4.3. il vizio dedotto sotto il profilo di contraddittorietà della motivazione è in quanto tale inammissibile poichè, come rilevato in relazione ai precedenti motivi, già nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 (applicabile nella specie ratione temporis, essendo stata la sentenza pubblicata in data 23 luglio 2012), prevede (‘”omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. Nella specie invero il ricorrente non ha indicato alcun fatto storico con riguardo al quale la motivazione si sarebbe posta come contraddittoria bensì si è limitato a rilevare che in caso di disconoscimento delle operazioni da cui conseguiva il costo doveva essere esclusa la possibilità di detrazione dell’intero costo e cioè una argomentazione giuridica.

4.4. Tale argomentazione giuridica non è peraltro neppure corretta poichè nel caso in esame non è stata esclusa la veridicità delle operazioni produttive e commerciali poste in essere dalla società ricorrente, bensì la veridicità di alcuni costi detratti in sede di dichiarazione dei redditi, per assenza di prova del loro sostenimento, il che non escludeva che la Amministrazione Finanziaria potesse riconoscere dei costi comunque connaturati alle peculiari caratteristiche dell’attività esercitata e delle innegabili esigenze connesse, pur se in misura inferiore a quella richiesta, ma non documentata, dal contribuente.

5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, lett. g), poichè nelle fatture in contestazione era indicata la qualità e la quantità delle prestazioni (prestazioni di carico e scarico, di facchinaggio… effettuate nel mese di… ovvero per il giorno di….) e non erano richieste ulteriori precisazioni, così come non erano richieste precisazioni per la prestazione di attività intellettuali, ed inoltre al ricorso erano state allegate anche le schede di lavorazione ed i contratti di appalto pur se non registrati.

5.1. Anche tale motivo è inammissibile, in primo luogo, per difetto di autosufficiente poichè il ricorrente sostiene apoditticamente che le fatture sarebbero state complete ma non le trascrive, non ne indica neppure il numero ed il contenuto essenziale, limitandosi a sostenere, in modo del tutto generico, che sarebbero state complete ed integrate da documenti, anche in tal caso genericamente indicati senza specificazione alcuna, di cui la sentenza impugnata nega peraltro la produzione, se non limitatamente ad un solo contratto di appalto ritenuto inopponibile alla Amministrazione finanziaria.

5.2. Altro profilo di inammissibilità deriva poi dalla circostanza che il vizio di violazione di legge consiste, in base ad una giurisprudenza ampiamente consolidata di questa Corte, nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549 – 02). Non sono perciò consentiti, come avvenuto nel caso concreto, i motivi di ricorso, pur formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che in realtà contestano invece la erronea motivazione della sentenza da parte del giudice di appello per avere ritenuto che le fatture in contestazione non fossero conformi al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21.

5.3. Il giudice di appello ha fatto, sul punto, applicazione di corretti principi giuridici ritenendo, in punto di diritto, che il quadro normativo di riferimento fosse stato rispettato in concreto in quanto le fatture recavano, tutte, generiche diciture in ordine alle prestazioni rese, mentre alcune erano prive della qualità di prestazione delle ore di lavoro, del numero dei lavoratori e del luogo delle prestazioni, il che non consentiva il controllo sulla effettività e certezza delle spese rappresentate in dette fatture, in assenza oltretutto di altra documentazione giustificativa. E con tale motivazione della sentenza impugnata (che richiama e fa propria quella di primo grado) non si confronta il ricorrente, il quale deduce il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, senza però considerare che esso deve investire immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, mentre il ricorrente, in concreto, al di là di apodittiche affermazione sui principi giuridici che sarebbero applicabili nella specie, si duole soltanto del fatto che le sentenze di merito avessero preteso, in base alla norma, che le fatture contenessero specificazioni non richieste invece per le attività intellettuali ed in particolare per le prestazioni rese dagli avvocati, come quelle delle ore lavorate e del numero dei lavoratori impiegati, come se le prestazioni di facchinaggio e quelle intellettuali protette fossero assimilabili anche in relazione alla determinazione dei compensi.

6. Con il sesto motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, art. 52, degli artt. 2697 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 21, 54 e 56, del D.Lgs n. 546 del 1992, art. 7, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, della L. n. 212 del 2000, art. 7, e dei principi generali in tema di onere della prova, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e rispetto alla duplice circostanza: a) che le osservazioni avanzate dalla Agenzia delle Entrate non erano sufficienti, nè in via probatoria nè in via presuntiva, a comprovare l’inesistenza delle operazioni oggetto delle fatturazioni contestate; b) che in ogni caso, anche ad ammettere potesse operare il meccanismo di inversione dell’onere della prova, le controprove fornite dalla ricorrente erano sufficienti a dimostrare l’esistenza delle prefate prestazioni.

6.1. Il ricorrente si duole in sostanza della violazione, da parte del giudice di appello, della regola dell’onere della prova avendo preteso che fosse il contribuente a fornire la prova della esistenza delle operazioni che peraltro sarebbe stata offerta dal contribuente, mentre invece, in tema di prestazioni inesistenti, spetta alla Amministrazione fornire la prova della loro inesistenza.

6.2. Ribadito preliminarmente che il vizio di violazione di legge consiste, in base ad una giurisprudenza ampiamente consolidata di questa Corte, nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, per cui l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, nella specie il ricorrente ha erroneamente attribuito ai giudici di appello una applicazione contra legem della regola iuris relativa alla divisione dell’onere della prova in tema di operazioni inesistenti poichè già il giudice di primo grado, con motivazione pienamente confermata in appello, così come riportata a pagina 7 del ricorso per cassazione, aveva ritenuto che gli elementi probatori rilevati dalla Guardia di Finanza, in quanto gravi, precisi e concordanti, dimostrassero la inesistenza dei costi ed in un caso (quello della ditta B.) addirittura la inesistenza della ditta che aveva emesso le fatture e che per converso il contribuente non avesse offerto alcuna prova della loro veridicità.

6.3. In tal modo i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione della regola iuris discendente dall’art. 2697 c.c., per cui, secondo i principi di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01) spettava alla Amministrazione fornire la prova della non veridicità dei costi, però alla stregua dei criteri indicati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, propri dell’accertamento adottato nel caso in esame, che sono quelli presuntivi, di fronte ai quali incombeva al contribuente, proprio ex art. 2697 c.c., offrire la prova contraria. L’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549 – 02). Non sono perciò consentiti, come avvenuto nel caso concreto, i motivi di ricorso, pur formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che in realtà contestano invece la erronea valutazione delle prove da parte del giudice del merito per avere valorizzato argomentazioni e prove ritenuti inconsistenti dal ricorrente.

7. Con il settimo motivo “misto” viene dedotta la violazione degli artt. 1327, 13590 e 1655 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rispetto al fatto decisivo dedotto in giudizio, in base al successivo n. 5, che la sentenza impugnata risulta condizionata dalla configurazione del contratto di appalto come negozio giuridico necessariamente formale e non suscettibile di conclusione verbale e per facta concludentia, oltretutto in contrasto con gli usi agricoli e commerciali vigenti nello specifico campo merceologico considerato.

7.1. A parte la inammissibilità del motivo in considerazione della sua natura mista o composita, oltre che per la sua novità e tardività poichè proposto per la prima volta con il ricorso per cassazione, non avendo il ricorrente neppure allegato di avere dedotto la questione con il ricorso introduttivo e tanto meno, quindi, trascritto o indicato come e dove avrebbe dedotto la relativa questione, lo stesso appare non rilevante in quanto la sentenza impugnata non ha fondato la ratio decidendi sull’unico contratto di appalto prodotto in giudizio dal ricorrente con riguardo ad alcune delle fatture in contestazione relative alla sola ditta MU.SE. rispetto al complesso delle fatture escluse, relative a sei diverse imprese, mentre ha esaminato quel documento nell’ambito delle controprove allegate dal ricorrente per desumerne, con giudizio di fatto, che era privo di valore probatorio poichè non registrato, cosicchè non era certa la data della sua stipulazione in relazione alle prestazioni che avrebbe dovuto dimostrare.

7.2. Non è pertanto pertinente la circostanza che dal punto di vista civilistico il contratto di appalto possa avere anche forma orale poichè la sentenza impugnata non ha ritenuto, in contrasto con le disposizioni civilistiche, che il contratto di appalto privo di forma scritta e non registrato fosse nullo, bensì soltanto che la produzione di quell’unico documento nel cui ambito il ricorrente voleva inquadrare una piccola parte delle fatture in contestazione non era idoneo a dimostrare la veridicità dei costi.

8. Con l’ottavo ed ultimo motivo il ricorrente lamenta, infine, in una prospettiva soltanto subordinata, la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè, in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, come nel caso in esame, i costi sarebbero deducibili e l’IVA detraibile anche in caso di fatture irregolari.

8.1. Anche tale motivo è infondato.

8.2. Il ricorrente sostiene che nella specie la Agenzia delle Entrate avrebbe accertato la sussistenza di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti poichè aveva riconosciuto i costi, sia pure in misura ridotta rispetto a quella dichiarata, per cui sarebbe consequenziale la deduzione degli interi costi e la detrazione dell’IVA a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1 dell’IVA.

8.3. I presupposti su cui il ricorrente costruisce la propria argomentazione non sono però condivisibili poichè la sentenza impugnata, in conformità a quella di primo grado di cui è confermativa, ha ritenuto i costi non veritieri sotto un profilo sostanziale ed oggettivo e non già sotto quello soggettivo, mentre il riconoscimento della loro deduzione nella misura del 30% non è stato collegato alla qualificazione dei costi come soggettivamente inesistenti, bensì in base al rilievo che le esigenze operative della impresa, in relazione alla attività concretamente esercitata, richiedevano dei costi per raggiungere i risultati imprenditoriali e che pertanto i costi, pur se non documentati, dovevano essere riconosciuti a fronte dei ricavi accertati, sia pure in una misura forfettaria, nell’ambito dei poteri valutativi del giudice collegati all’accertamento analitico – induttivo.

8.4. Trattandosi di costi non veritieri, quindi, non era applicabile l’art. 8 citato poichè, in materia di deducibilità dei costi d’impresa, la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, come in caso di operazioni oggettivamente inesistenti per mancanza del rapporto sottostante, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi; tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 33915 del 19/12/2019 Rv. 656602 – 01).

8.5. Ma se anche si fosse trattato di operazioni soggettivamente inesistenti, il principio di diritto invocato dal ricorrente non sarebbe comunque applicabile in assoluto poichè la norma sopravvenuta, pur se pacificamente applicabile retroattivamente, consente all’acquirente, anche quando consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, di dedurre i costi di beni e servizi non utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma per essere commercializzati, a meno che, tuttavia, non contrastino coi principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (v. Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 4645 del 21/02/2020 Rv. 657347 – 02), per cui sarebbe spettato al ricorrente dimostrare la effettività e la inerenza dei costi.

8.6. Il principio di diritto invocato dal ricorrente, pur se si fosse trattato di operazioni soggettivamente inesistenti, non sarebbe in ogni caso applicabile in materia di IVA sulla base della giurisprudenza consolidata di questa Corte per cui la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012, in tema d’IVA, preclude al cessionario dei beni ovvero all’acquirente di servizi il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, nonostante i beni siano entrati effettivamente nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, poichè l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20060 del 07/10/2015 Rv. 636663 – 01); il che determina, pure, in conseguenza, la irrilevanza delle argomentazioni addotte dal ricorrente in tema di detraibilità dell’IVA, che non trovano riscontro nel diritto vivente.

9. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

Spese e doppio contributo seguono per legge.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 4.100,00. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020

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