Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28757 del 07/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 07/11/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 07/11/2019), n.28757

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24795/2014 proposto da:

G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LATTANZIO

66, presso lo studio dell’avvocato MARIO ESPOSITO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CATANZARO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 340/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 22/04/2014 R.G.N. 1810/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza depositata in data 22 aprile 2014 la Corte di appello di Catanzaro confermava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda proposta da G.F. nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, intesa ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per quattro mesi inflittagli per aver svolto incarichi retribuiti extralavorativi senza la preventiva necessaria autorizzazione del datore di lavoro;

1.1. riteneva la Corte territoriale che la contestazione disciplinare (3/9/2009) fosse tempestiva in rapporto alla data della nota di trasmissione all’ASP (2/9/2009) dell’accertamento ispettivo effettuato dalla Guardia di Finanza nel quale si dava atto che il dipendente G., con rapporto di lavoro in regime di part-time al 70 per cento, aveva espletato vari incarichi extraistituzionali senza la relativa autorizzazione, dovendo escludersi che in epoca anteriore a tale nota l’Azienda potesse aver avuto conoscenza dei reiterati incarichi extralavorativi svolti dal predetto;

1.2. respingeva la tesi dell’appellante circa la possibilità di applicare la scriminante del legittimo affidamento ritenendo che la concessione del part-time al 70 per cento non potesse in alcun modo contenere un’autorizzazione anche implicita allo svolgimento di attività extralavorativa e che l’istanza in tal senso avanzata dal G. non fosse affatto diretta al conseguimento di una preventiva autorizzazione;

1.3. conclusivamente escludeva che nel comportamento tenuto dall’azienda all’atto della trasformazione del rapporto part-time vi fossero elementi tali da ingenerare nel G. il convincimento incolpevole di poter svolgere incarichi extralavorativi;

2. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.F. con tre motivi;

3. l’ASP di Catanzaro non ha svolto attività difensiva;

4. il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per difetto dei requisiti di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., commi 1 e 2 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) con violazione delle medesime norme e dell’art. 111 Cost., comma 6 (art. 360, comma 1, n. 3);

censura la sentenza impugnata per l’estrema laconicità nell’esposizione delle “agioni di fatto” che non trova temperamento in quella delle “ragioni di diritto” e per la pretermissione delle censure proposte dall’appellante a sostegno dei motivi di gravame;

2. con il secondo motivo il ricorrente denuncia motivazione insufficiente, contraddittoria e perplessa (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., commi 1 e 2, anche in relazione all’art. 111 Cost., comma 6 (art. 360, comma 1, n. 3), violazione degli artt. 1362 e segg., artt. 1324,1338 e 1375 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli artt. 2730,2735 e 2727 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

3. con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 7, 9 e 10 e delle previgenti disposizioni in esso trasfuse e del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 63 e 64 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dei principi di immediatezza della contestazione disciplinare L. n. 300 del 1970, ex art. 7 e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 5 e di ragionevole affidamento sulla legittimità degli atti della pubblica amministrazione anche se adottati iure privatorum, ex art. 97 Cost., L. n. 241 del 1990, art. 21 nonies e artt. 1338 e 1324 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

4. con gli indicati secondo e terzo motivo (che lo stesso ricorrente accorpa nella formulazione dei relativi rilievi: v. punti da 2 a 2.4.) il G. censura la sentenza impugnata per l’estrema laconicità nell’esposizione delle “ragioni di fatto” che non trova temperamento in quella delle “ragioni di diritto” e per la pretermissione delle censure proposte dall’appellante a sostegno dei motivi di gravame;

4.1. lamenta, poi, che la sentenza impugnata lungi dal sottoporre a revisione critica la sentenza di primo grado avrebbe prestato ossequio alla stessa e, con maggiore spiccata evidenza “per la chiusura ellittica dell’apparente motivazione, avrebbe in modo palese fatto malgoverno dei criteri logico-giuridici di rilevazione e qualificazione dei fatti decisivi della causa e delle situazioni soggettive delle parti”;

4.2. deduce che la Corte territoriale, a fronte di un’ampia massa di dati documentali, espressivi di volontà negoziale e provvedimentale dell’Amministrazione in funzione confessoria e ricognitiva e di correlati comportamenti convergenti nel senso dell’esistenza di una autorizzazione a rendere prestazioni di lavoro a terzi nell’orario non impegnato nel servizio istituzionale, avrebbe operato “una vera e propria manipolazione perfino materiale di quei dati, espungendone le parti in cui l’Azienda rivelava inequivocamente di aver integralmente accolto l’istanza del sig. G. intesa ad ottenere il part-time al 70 per cento con autorizzazione a impiegare il tempo residuo in attività lavorativa in proprio”;

4.3. evidenzia che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che l’ASP di Catanzaro “aveva nel 1999, con Delib. n. 905, autorizzato il G. a svolgere, in regime di tempo parziale al 70 per cento, attività extraistituzionale nel convincimento, poi, a distanza di nove anni, rivalutato erroneo, che il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58, comma 8 e s.m.i., riprodotto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 8, consentisse di rilasciarla in via generale e non necessariamente per ogni singolo incarico”, circostanza significativa della consapevolezza da parte dell’ASP dello svolgimento da parte del predetto di lavoro autonomo per terzi che non giustificava l’indugio per circa un anno prima dell’avvio del procedimento disciplinare;

4.4. sostiene che la Corte territoriale non avrebbe dato conto, se non con motivazione apparente, delle ragioni per cui aveva ritenuto tempestiva la contestazione di addebito, intervenuta dopo almeno un anno (ma in realtà dopo nove anni) dalla conoscenza del fatto addebitato;

5. il primo motivo è infondato;

5.1 non ricorre, infatti, il vizio denunciato, che sussiste allorchè la sentenza sia priva dell’esposizione dei motivi in diritto sui quali sia basata la decisione (v. Cass. 10 agosto 2017, n. 19956), ovvero in essa sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione;

ciò in riferimento alla formulazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sia anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009 (v. Cass. 10 novembre 2010, n. 22845; Cass. 22 giugno 2015, n. 12864), sia successiva, posto che la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, bensì un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (v. Cass. 20 gennaio 2015, n. 920; Cass. 22 giugno 2015, n. 12864);

5.2. nel caso in esame, la Corte territoriale ha proceduto ad una chiara ed esauriente illustrazione delle ragioni, tanto di fatto, in riferimento allo svolgimento del processo ed alla definizione del fatto da cui era nato il diritto preteso, narrato, non in termini prolissi, ma nei suoi elementi rilevanti per la decisione (v. pag. 1 della sentenza), quanto di diritto (v. pagg. 2 e 3 della sentenza), così offrendo una congrua e comprensibile giustificazione del percorso decisionale seguito (dovendosi, al riguardo, ricordare che la sentenza – o il provvedimento sono nulli ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, se manchi del tutto l’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi – v. Cass. 8 gennaio 2009, n. 161; Cass. 15 marzo 2002, n. 3828 – situazione, questa, nella specie insussistente);

6. il secondo e terzo motivo presentano profili di inammissibilità e sono comunque infondati;

6.1. gli stessi, laddove denunciano violazioni di norme di diritto, non formulano le censure così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, trascurando di considerare che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038);

6.2. nella specie, i motivi, nonostante la veste formale della denuncia di violazione e falsa applicazione di legge, nella sostanza censurano quelli che sono stati accertamenti in fatto della Corte territoriale concernenti sia la sussistenza o meno di un’autorizzazione implicita allo svolgimento dell’attività extraistituzionale, sia la situazione di un legittimo affidamento nell’esistenza di tale autorizzazione sia ancora l’immediatezza della contestazione che però incontrano i ristretti limiti imposti dal novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054;

6.3. le Sezioni unite di questa Corte hanno espresso su tale norma i seguenti principi di diritto, costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite (v. Cass. 22 settembre 2014, n. 19881; Cass. 25 novembre 2014, n. 25008) oltre che dalle Sezioni semplici (v. Cass. 20 novembre 2015, n. 23828; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598): a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso;

6.4. i motivi in esame, anche riecheggiando la formulazione del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (motivazione insufficiente, contraddittoria), non risultano rispettosi di tali enunciati e si traducono, nella sostanza, in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito nella valutazione del materiale probatorio, per cui gli stessi sollecitano un sindacato non ammissibile innanzi ai giudici di legittimità;

6.5. peraltro nessuna anomalia motivazione nei termini sopra indicati è riscontrabile nel caso di specie: la Corte territoriale ha spiegato, in maniera sintetica ma esaustiva e niente affatto perplessa, le ragioni della decisione evidenziando perchè la contestazione disciplinare dovesse ritenersi tempestiva (solo in data 2/9/2009, con la trasmissione all’ASP dell’accertamento ispettivo effettuato dalla Guardia di Finanza, era reso noto all’Azienda che il G. aveva espletato vari incarichi extraistituzionali senza autorizzazione ed inoltre dal tenore della comunicazione del 14/10/2008, con la quale l’ASP aveva avviato il procedimento di annullamento della Delib. 24 marzo 1999, n. 905, di autorizzazione della trasformazione del part-time dal 50 per cento al 70 per cento, non era possibile in alcun modo presumere che già a tale data l’Azienda fosse a conoscenza dei reiterati incarichi extralavorativi svolti dal G.) e perchè fosse da escludersi un incolpevole affidamento sull’esistenza di una autorizzazione (la Delibera con cui l’ASP aveva concesso il part-time al 70 per cento non conteneva alcuna autorizzazione neppure implicita allo svolgimento di attività extralavorativa – peraltro preclusa dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, ed anzi, il parere favorevole alla trasformazione del part-time dal 50 per cento già in godimento al 70 per cento era stato espresso solo perchè tale trasformazione garantiva una maggiore presenza del dipendente in ufficio);

6.6. il giudice d’appello non si è affatto limitato ad una generica e laconica adesione alla decisione di primo grado, ma ha dato conto del modo in cui è pervenuto alla conclusione confermativa di tale decisione, risultando appagante e corretto il percorso argomentativo seguito sia nell’accertamento della tempestività della contestazione sia nella ritenuta mancanza di alcuna autorizzazione, anche implicita, allo svolgimento dell’attività extralavorativa contenuta nella delibera autorizzativa del part-time al 70 per cento sia ancora nella esclusione di un convincimento incolpevole del G. di poter svolgere incarichi extralavorativi;

si tratta di un impianto motivazionale assolutamente comprensibile, in relazione al quale può discutersi della sua plausibilità e condivisibilità ma non di una inesistenza motivazionale;

6.7. nè la sentenza impugnata è suscettibile di essere cassata sol perchè il ragionamento espresso non è conforme alle attese del soccombente;

7. quanto alla dedotta violazione del principio di immediatezza della contestazione va ribadito che tale principio ha lo scopo di garantire la possibilità di un’utile difesa da parte del lavoratore e, quindi, l’effettività del contraddittorio, nonchè la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede (in tal senso, ex multis, Cass. 9 luglio 2015 n. 14324);

7.1. la valutazione che il giudice di merito esprime è, quindi, censurabile in sede di legittimità con gli stessi limiti previsti per le clausole generali, poichè i concetti di tardività e tempestività richiedono di essere concretizzati dall’interprete mediante specificazioni che hanno natura giuridica, la cui disapplicazione si risolve in violazione di legge;

7.2. al contrario l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se privo di errori logici e giuridici;

7.3. il ricorso, pur denunciando violazione di legge, quanto alla tempestività del procedimento disciplinare, insiste solo sulla asserita conoscenza acquisita dall’ASP in epoca antecedente a quella ritenuta dalla Corte territoriale, sicchè la censura attiene alla ricostruzione cronologica del fatti e, quindi, al merito della valutazione espressa dal giudice di appello;

8. quanto alla ritenuta esclusione di una autorizzazione implicita allo svolgimento di attività extralavorativa, è poi particolarmente significativo, nel contesto motivazionale della sentenza impugnata, il richiamo operato dalla Corte territoriale al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53;

8.1. si ricorda, infatti, che l’impiego pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico è preclusa la possibilità di svolgere attività commerciali, industriali, imprenditoriali e professionali in costanza di rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione;

8.2. la ratio di tale divieto, che permane anche nel sistema “contrattualizzato” per rimarcare la peculiarità dell’impiego pubblico, va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, espressa dall’art. 98 Cost., comma 1;

8.3. del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e segg., declinando il principio del “servizio esclusivo della Nazione” del pubblico dipendente sancito dall’art. 98 Cost. citata, prevedevano l’incompatibilità assoluta dell’impiego pubblico con l’esercizio di altre attività;

8.4. questo divieto è stato successivamente mitigato dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 (ratione temporis applicabile alla vicenda in esame) che, come noto, ha previsto la possibilità per l’amministrazione di appartenenza di autorizzare il dipendente a svolgere incarichi attribuiti da altre pubbliche amministrazioni o soggetti privati, anche retribuiti, se ritenuti compatibili con l’attività svolta dal dipendente;

8.5. la L. n. 190 del 2012, art. 1, ha successivamente modificato la precedente disciplina e oggi è previsto che l’autorizzazione all’esercizio di incarichi esterni sia disposta “secondo criteri oggettivi e predeterminati”, che escludano “casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente”;

8.6. la norma di legge ratione temporis applicabile (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, nel testo vigente prima delle modifiche di cui alla legge del 2012), stabilisce che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata del Testo Unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 60 e segg., salva la deroga prevista dall’art. 23-bis del presente decreto, nonchè, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117, art. 6, comma 2 e dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 57 e segg.”;

8.7. in particolare il D.P.C.M. n. 117 del 1989, art. 6, comma 2, stabilisce che al personale con rapporto a tempo parziale “è consentito, previa motivata autorizzazione dell’amministrazione o dell’ente di appartenenza, l’esercizio di altre prestazioni di lavoro che non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non siano incompatibili con le attività di istituto della stessa amministrazione o ente”;

8.8. la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 58 bis, precisa che “ferma restando la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse, le amministrazioni provvedono, con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, ad indicare le attività che in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, sono comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno (…)”.

8.9. la normativa in esame non consente, dunque, una deroga tout court al principio di incompatibilità in caso di svolgimento di lavoro part-time, prevedendola solo quando il lavoratore svolga una prestazione ad orario ridotto non superiore al 50 per cento;

9. valorizzare, come ha fatto la Corte territoriale, il divieto posto dall’art. 53, rende vieppiù infondati i motivi di ricorso con i quali si prospetta una molteplicità di fatti che sarebbero stati trascurati dai giudici d’appello e che, a ben guardare, anche per la loro pluralità, non hanno il necessario carattere della decisività, nel senso inteso da questa Corte secondo cui è fatto decisivo quello che, se fosse stato esaminato, avrebbe portato ad una soluzione diversa della vertenza con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (v., tra molte, Cass., Sez. Un., 24/02/2015 n. 3670; Cass., Sez. Un., 10 luglio 2015, n. 14477);

9.1. si è, infatti, sancita l’inammissibilità di censure innanzi a questa Corte che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello, ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato, il vario insieme dei materiali di causa (Cass. n. 21439 del 2015);

10. va, poi, ricordato che la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U, 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892) e che la violazione dell’art. 116 c.p.c., è configurabile solo allorchè il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. Un., n. 11892/2016 cit.; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame;

11. anche la dedotta violazione dell’art. 2727 c.c., per come formulata la relativa censura, è inammissibile perchè denuncia come error in iudicando quello che è un apprezzamento del materiale probatorio effettuato dalla Corte d’appello circa l’esistenza o meno di un fatto (nella specie involgono certamente quaestiones facti le circostanze secondo cui, a dire del ricorrente, i comportamenti dell’Azienda desumibili dagli atti dalla medesima posti in essere, sarebbero stati convergenti, se non altro in rigorosa concatenazione presuntiva, all’unico risultato di attestare che con la Delib. n. 905 del 1999, la stessa aveva autorizzato il dipendente a svolgere attività extralavorativa e già da allora sapeva dello svolgimento di tale attività), come tale insindacabile in sede di legittimità, spettando altresì al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare il fatto da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento a lui riservato (cfr. Cass. 11 maggio 2007, n. 10847; Cass. 13 novembre 2009, n. 24028; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961);

12. da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato;

13. nulla va disposto per le spese processuali non avendo l’Azienda intimata svolto attività difensiva;

14. va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, poichè l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2019

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