Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28749 del 09/11/2018

Cassazione civile sez. II, 09/11/2018, (ud. 18/06/2018, dep. 09/11/2018), n.28749

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3081-2017 proposto da:

M.F., ammesso al patrocinio a spese dello Stato,

rappresentato e difeso dall’Avvocato COSTANTINO FRANCESCO BAFFA ed

elettivamente domiciliato presso lo studio del medesimo in ROMA, VIA

GIOVANNI GENTILE 22;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso per legge dalla AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale domicilia ex lege, in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 367/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositato il 18/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/06/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso dell’8.2.2016, M.F. domandava alla Corte d’Appello di Catanzaro la determinazione e la liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti all’eccessiva durata di due cause, iscritte nel 2001 e 2002 – svoltesi presso il Tribunale di Cosenza – e riunite in un unico processo, definito in primo grado con sentenza n. 1250/2014, divenuta esecutiva in data 9.9.2105.

Il Giudice delegato dal Presidente della Corte d’Appello emetteva il decreto n. 747/2016, depositato il 3.3.2016, con il quale veniva parzialmente accolto il ricorso del M., condannando il MINISTERO DELLA GIUSTIZIA al pagamento della somma di Euro 2.960,00.

Avverso tale decreto era proposta impugnativa alla Corte d’Appello di Catanzaro. Si costituiva in giudizio il Ministero della Giustizia, chiedendo il rigetto dell’opposizione.

Con decreto depositato il 18.6.2016, la Corte d’Appello di Catanzaro condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore del M. della somma di Euro 3.200,00.

Avverso tale decreto propone ricorso per cassazione M.F. sulla base di quattro motivi; resiste il Ministero con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la “violazione degli artt. 111 e 24 Cost. e del principio generale del giusto processo in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2dell’art. 6, p. 1, e art. 53 della C.E.D.U. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, poichè la Corte di merito, pur riconoscendo che vi erano stati numerosi rinvii d’ufficio, ha ritenuto che la vicenda fosse stata completamente gestita dalle parti, a causa di alcuni rinvii richiesti per definire bonariamente la controversia, senza tenere conto che tali richieste erano dirette anche a evitare il protrarsi del giudizio. Invece, la Corte di merito avrebbe dovuto concentrare l’attenzione sull’alternanza di giudici diversi, sui rinvii d’ufficio e fantomatici rinvii ex art. 309 c.p.c.senza comunicazione alle parti. In particolare, la Corte territoriale, a pag. 2 decreto, ha operato una distinzione tra tempi addebitabili alle parti e tempi addebitabili allo Stato. Secondo il ricorrente voler escludere l’indennizzabilità in presenza di rinvii richiesti dalla parte costituisce un’errata applicazione di norme e, nello stesso tempo, una contraddittorietà che diventa anche illogicità.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione dell’art. 116 c.p.c., del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2 e 3 e dell’art. 2697 c.c. e ss., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Il ricorrente, dopo aver riportato nel dettaglio tutte le udienze con i rinvii d’ufficio, il cambiamento dei Giudici le richieste di rinvio delle parti, sottolinea le numerose e gravi carenze del sistema giudiziario, non ultima quella di molti mesi tra un’udienza e l’altra (superiori a 5-8 mesi); la Corte di merito non avrebbe dunque valutato secondo il suo prudente apprezzamento le prove in atti.

1.3. – Data la intima connessione e la consequenzialità logica delle censure, i due motivi vanno congiuntamente decisi.

1.4. – Essi non sono fondati.

1.5. – La Corte di merito ha, del tutto correttamente, fatto applicazione del principio secondo cui, ai fini dell’accertamento del termine ragionevole del processo, a fronte di una cospicua serie di differimenti chiesti (o non opposti) da una parte e disposti dal giudice istruttore, si deve distinguere tra tempi addebitabili alle parti e tempi addebitabili allo Stato per la loro evidente irragionevolezza, sicchè, salvo che sia motivatamente evidenziata una vera e propria strategia dilatoria, idonea ad impedire l’esercizio dei poteri di direzione del processo propri del giudice, è necessario individuare la durata comunque ascrivibile allo Stato, ferma restando la possibilità che la frequenza ed ingiustificatezza delle istanze di differimento incidano sulla valutazione del patema indotto dalla pendenza del giudizio e, dunque, sulla misura dell’indennizzo da riconoscere (Cass. n. 14750 del 2015).

Sicchè, ove siano le parti a chiedere rinvii del giudizio, viene a difettare il presupposto dell’equa riparazione, ovvero una dilatazione dei tempi processuali riconducibile alle disfunzioni del sistema giudiziario nel suo complesso. Tale soluzione, per converso, non sta a significare che il predetto arco temporale debba essere automaticamente addebitato alla parte privata o imputato a negligenze della stessa, ma che più semplicemente non possa essere preso in considerazione, ai fini dell’equa riparazione, un periodo oggettivamente estraneo alle possibilità di intervento dell’Amministrazione giudiziaria e rimesso alla (pur legittima) disponibilità della parte stessa.

L’individuazione della ragionevolezza della durata del processo costituisce espressione di un tipico giudizio di merito, come tale rimesso alla Corte d’appello e non censurabile in cassazione se adeguatamente motivato. In particolare, si risolve in un apprezzamento di fatto, istituzionalmente riservato alla corte di merito, la valutazione dei termini assegnati agli ausiliari, dei tempi impiegati per l’adozione e il deposito di provvedimenti giudiziari, della congruità dei rinvii disposti dall’ufficio, dei ritardi imputabili alla stessa parte a seguito di istanze di rinvio, nonchè della incidenza di detti periodi sul termine ragionevole di durata del processo (Cass. n. 21020 del 2006).

La valutazione circa la addebitabilità dei tempi di irragionevole durata (alle parti o allo Stato) – lungi dal violare le norme evocate nei primi due motivi – costituisce dunque (nella specie) un apprezzamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione (Cass. n. 25008 del 2005), come tale immune dalle censure sollevate dal ricorrente, che sostanzialmente si limita a prospettare una diversa valutazione delle vicende che hanno dato luogo alla presente controversia (Cass. n. 1916 del 2011).

2. – Con in terzo motivo, il ricorrente lamenta “Violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 degli artt. 2056e 2043 c.c., della L. n. 848 del 1955, artt. 1,6 e 13 con particolare riferimento agli artt. 1 e 6 e dell’art. 111 Cost.Motivazione apparente, viziata da manifesta illogicità e contrasto con la documentazione, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”, là dove la Corte di merito ha ritenuto corretta la determinazione dell’indennizzo nella misura di Euro 400 per ogni anno, a fronte del valore della causa, oltre che dei reiterati rinvii richiesti dalle parti, della sussistenza di un’obbligazione comunque rilevante e della sostanziale sconfitta del M.. Il ricorrente sottolinea che, nel porre la domanda giudiziale, aveva precisato che il valore della controversia andava valutato anche in rapporto alla situazione fisica, psichica, economica e patrimoniale dell’interessato. Pertanto, provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Si ritiene del tutto legittimo l’operato della Corte di merito che, nel liquidare l’indennizzo, ha tenuto conto anche del valore della causa.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU si fonda non già sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, bensì sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi “modulabili” in relazione al paterna subito (Cass. n. 13083 del 2011; Cass. n. 23416 del 2009; cfr. anche Cass. n. 4003 del 2014; Cass. n. 22646 del 2018).

Infatti, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5, (non evocato quale parametro di riferimento) – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il quantum della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico. D’altronde, avendo lo stesso legislatore (L. n. 208 del 2015, art. 1, comma, 777, che ha modificato l’art. 2 bis Legge Pinto) individuato in Euro 400,00 annui la soglia minima di indennizzo, ancorchè inferiore agli Euro 500,00 applicabili ratione temporis, deve ritenersi che questa non sia di per sè irragionevole, nè inidonea a compensare il pregiudizio subito.

3. – Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la “Violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 degli artt. 2043 e 2056 c.c., della L. n. 848 del 1955, artt. 1,6 e 13 con particolare riferimento agli artt. 1 e 6, e dell’art. 111 Cost. – motivazione apparente, viziata da manifesta illogicità e contrasto con la documentazione – violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”. Premesso che un debito di natura economica, che si accresce con il decorrere del tempo per il cumulo degli interessi bancari (notoriamente molto più elevati di quelli legali), si aggrava se accertato a distanza di molti anni, il ricorrente afferma l’erroneità della decisione impugnata là dove la Corte d’Appello afferma che il M. avrebbe chiesto, come danno patrimoniale, ciò che gli è derivato dal rifiuto di altre banche di concedergli linea di credito, respingendo la domanda sull’assunto della mancanza di nesso causale.

3.1. – Il motivo prima ancora che infondato è inammissibile.

3.2. – Attraverso esso, il ricorrente finisce col devolvere al sindacato di questa Corte un vizio che (solo formalmente articolato in termini di violazione o falsa applicazione di legge) attiene viceversa ad una asserita carenza motivazionale della decisione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile ratione temporis), dedotta dal ricorrente, senza tuttavia la necessaria indicazione della decisività del fatto controverso il cui omesso esame abbia in ipotesi assunto rilevanza causale nella decisione.

3.3. – Siffatta censura non risulta riconducibile al modello introdotto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, che prevede che la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. E’ noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

3.4. – Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Orbene, della enucleazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicchè le censure mosse al provvedimento impugnata si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua del decreto medesimo (Cass. n. 1885 del 2018).

4. – Il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Non va emessa la dichiarazione D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.500,00 per compenso professionale, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente (ammesso al patrocinio a spese dello Stato) dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2018

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