Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28742 del 09/11/2018

Cassazione civile sez. II, 09/11/2018, (ud. 19/04/2018, dep. 09/11/2018), n.28742

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9016-2014 proposto da:

G.G. e C.M., rappresentati e difesi dagli

Avvocati NICOLA BARON e CLAUDIO LUCISANO ed elettivamente

domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in ROMA VIA CRESCENZIO

91;

– ricorrenti –

contro

CO.MA., S.F., CO.MA.TE., C.A.,

CO.AN. e c.m., rappresentati e difesi dagli Avvocati TORQUATO

TASSO e TOMMASO LONGO, ed elettivamente domiciliati presso lo studio

di quest’ultimo in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 83;

– controricorrenti –

e contro

C.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2464/13 della CORTE DI APPELLO di VENEZIA,

pubblicata il 16/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/04/2018 dal Consigliere UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 22.1.2004, C.M. e G.G., proprietari di un lotto di terreno, con fabbricato ad uso abitazione e adiacente garage-magazzino, sito in (OMISSIS), convenivano avanti al Tribunale di Venezia l’IMPRESA INDIVIDUALE U.C., ubicata sul fondo attiguo a quello di proprietà degli attori, che si occupava della lavorazione di marmi grezzi, semigrezzi e rottami.

Gli attori deducevano che l’Impresa, esistente dal 1969, dal 1996 aveva avuto un incremento dell’attività produttiva, anche per l’ingresso nella ditta dei figli del convenuto. A partire da tale data si erano verificate immissioni intollerabili nella proprietà degli attori, con rumori e polveri. Tale circostanza, su richiesta di C.M. e G.G., veniva rilevata dai tecnici ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto), che avevano osservato la sussistenza di immissioni sonore superiori ai limiti stabiliti dalla normativa vigente. Gli attori chiedevano, pertanto, la condanna dell’Impresa Individuale U.C. a risarcire i danni dai medesimi subiti nella misura di Euro 75.330,00, o quella diversa maggiore o minore ritenuta di giustizia, per la diminuzione patrimoniale dell’immobile per cui è causa e nella misura di Euro 30.000,00, o quella diversa maggiore o minore ritenuta di giustizia, per il danno esistenziale subito. In via subordinata, chiedevano un congruo indennizzo, ove fossero considerate intollerabili le immissioni, nella misura di Euro 30.000,00, o quella diversa maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, oltre a Euro 30.000,00, o quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, per il danno esistenziale. In via istruttoria chiedevano ammettersi CTU e prova testimoniale.

Si costituiva l’Impresa Individuale U.C., che chiedeva il rigetto delle domande attoree.

Con sentenza n. 2024/2008, depositata il 10.9.2008, il Tribunale di Venezia, condannava l’Impresa Individuale U.C. al risarcimento dei danni in favore di G.G. e C.M. liquidati in Euro 12.500,00 in valori attuali, oltre interessi al saggio legale dalla sentenza al saldo, nonchè al pagamento delle spese di lite.

Avverso detta sentenza G.G. e C.M. proponevano appello, solo in relazione al quantum e al fatto che il Giudice di primo grado non aveva riconosciuto il danno esistenziale, insistendo nell’ammissione della già richiesta CTU e della prova testimoniale.

Dopo la notifica dell’atto di appello si costituiva volontariamente in giudizio, a seguito del decesso di U.C., Co.Ma., il quale chiedeva il rigetto dell’appello e l’accoglimento dell’appello incidentale. La causa era interrotta all’udienza del 28.10.2009. Veniva notificato atto di integrazione del contraddittorio agli eredi di U.C.: S.F., C.F., CO.MA.TE., C.A., CO.AN., c.m., che si costituivano in giudizio (eccezion fatta per C.F., che rimaneva contumace), chiedendo il rigetto dell’appello e l’accoglimento dell’appello incidentale proposto.

Con sentenza n. 2464/2013, depositata il 16.10.2013, la Corte d’Appello di Venezia rigettava l’appello proposto da G.G. e C.M. e accoglieva gli appelli incidentali proposti dagli appellati e, per l’effetto, rigettava la domanda di risarcimento del danno per deprezzamento dell’immobile, compensando le spese dei due gradi.

Avverso detta sentenza C.M. e G.G. propongono ricorso per cassazione sulla base di sette motivi; cui resistono con controricorso Co.Ma., S.F., Co.Ma.Te., C.A., Co.An. e c.m.. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la “violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 844 c.c. e all’art. 1223 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3”, nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che – pur in presenza del fatto accertato della violazione delle norme sull’inquinamento acustico da parte dell’Impresa U.C. (in base ai rilievi effettuati da un organismo pubblico quale l’ARPAV) – non sussistesse un danno patrimoniale permanente. I ricorrenti osservano che (non potendo limitare il diritto al risarcimento per la scelta dei ricorrenti di agire per il danno patrimoniale ed esistenziale, anzichè con la consueta azione inibitoria e per il danno morale e biologico) la Corte di merito avrebbe errato nel ritenere insussistente un danno patrimoniale provocato dalle immissioni rumorose.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte di merito, contrariamente a quanto deciso dal giudice di prime cure – che aveva accolto la pretesa risarcitoria degli attori, sulla base di una valutazione equitativa “svincolata tuttavia da concreti sostegni e da indagini di mercato circa la sussistenza di un effettivo deprezzamento (nonchè sulle relative cause, in relazione all’intero contesto ambientale ed urbanistico)” -, ha correttamente escluso la sussistenza di un danno patrimoniale per deprezzamento dell’immobile, conseguente alle immissioni de quibus, in ragione della mancata deduzione di specifiche circostanze atte a desumere un siffatto deprezzamento, “da valutare del resto retrospettivamente, posto che la ditta individuale C. è da tempo (dal 2007) cessata” (sentenza impugnata, pagg. 12 e 13). La Corte ha, altrettanto correttamente, rilevato che comunque la liquidazione in via equitativa presuppone già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso (Cass. n. 16202 del 2002; Cass. n.13288 del 2007).

Tali affermazioni sono del tutto coerenti con i principi espressi da questa Corte, che ha ripetutamente affermato che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non essendo possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (Cass. n. 10607 del 2010; nello stesso senso, Cass. n. 20990 del 2011; Cass. n. 27447 del 2011; Cass. n. 4310 del 2018).

2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la “violazione o falsa applicazione dell’art. 191 c.p.c. in relazione all’art. 115 e 116 c.p.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3”, nella parte in cui la Corte di merito ha ritenuto che non si potesse affermare un minor valore del fondo soggetto alle immissioni, in quanto già dal novembre 2007, come accertato dall’ARPAV, la lavorazione dei marmi da parte della ditta U.C. era esercitata con modalità non inquinanti sul piano della rumorosità. Viceversa, per i ricorrenti, la richiesta CTU avrebbe dovuto essere disposta, giacchè la determinazione del valore venale di un immobile può avvenire anche con riferimento a un tempo diverso da quello in cui si chiede l’accertamento.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La Corte distrettuale ha rigettato la richiesta di C.T.U. estimativa “trattandosi nella specie di indagine totalmente esplorativa, dovendosi non già accertare il valore venale attuale del fondo bensì ricostruire retrospettivamente un possibile deprezzamento se del caso concretizzato dalle risalenti immissioni causate dalla ditta C.U. (da anni non più operante)”. Trattasi di decisione incensurabile in sede di legittimità, là dove, appunto, la consulenza sia richiesta a fini esplorativi per la ricerca di fatti, circostanze o elementi non provati; essendo così, di fatto, finalizzata ad esonerare la parte dall’assolvimento del relativo onere (Cass. n. 15219 del 2007). Nella fattispecie, il rigetto della richiesta di CTU è stato più che congruamente motivato, proprio sotto il profilo delle inammissibili finalità esplorative che l’incombente avrebbe avuto. Invero, questa Corte ha ripetutamente affermato che la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo lo scopo di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine è quindi legittimamente negato qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. n. 3130 del 2011; conf. Cass. n. 12990 del 2013).

3.1. – Con il terzo motivo, i ricorrenti si dolgono della “insufficiente o contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia che riguarda la prova delle immissioni e la valutazione delle stesse. Secondo la Corte d’Appello non risulterebbero indicati gli elementi della svalutazione. Violazione di legge in ordine agli artt. 115 e 116 c.p.c.ex art. 360 c.p.c., nn. 5 e 3”.

3.2. – Con il quarto motivo, i ricorrenti contestano “l’omesso esame di un fatto doveroso e/o l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, che riguarda la cessazione dell’attività dell’impresa U.C. e la limitazione delle immissioni al solo aspetto dell’inquinamento acustico e non all’immissione delle polveri ex art. 360 c.p.c., n. 5”.

3.3. – Con il quinto motivo, i ricorrenti lamentano la “contraddittoria motivazione e/o omesso esame del fatto decisivo rappresentato dall’accertata esistenza di immissioni intollerabili con l’affermazione dell’inesistenza di un danno patrimoniale e/o esistenziale da parte del Giudice d’Appello ex art. 360 c.p.c., n. 5”.

3.4. – In ragione della lamentata violazione del medesimo parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, i motivi terzo, quarto e quinto vanno congiutamente decisi.

3.5. – Essi sono tutti parimenti inammissibili.

3.6. – La denuncia di “insufficiente o contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia” (terzo motivo), come quella di “omesso esame di un fatto doveroso e/o omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia” (quarto motivo) e quella di “contraddittoria motivazione e/o omesso esame del fatto decisivo” (quinto motivo) risultano inammissibili per non essere riconducibili al modello introdotto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 16 ottobre 2013.

Prevede, infatti, il nuovo testo della norma che la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Orbene, è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sarebbe stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulterebbe esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

3.7. – Orbene, della enucleazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicchè, le censure mosse in riferimento al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si risolvono tutte, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in partibus quibus della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), come tale inammissibile seppure effettuata con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dalla ricorrente.

4. – Con il sesto motivo, i ricorrenti lamentano la “violazione o falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. in relazione agli artt. 844 e 2043 c.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3”, nella parte in cui la Corte di merito ha ritenuto che, pur essendovi un danno risarcibile, questo non si potesse determinare perchè inapplicabile l’art. 1226 c.c., a differenza di quanto ritenuto in primo grado dal Tribunale. Osservano i ricorrenti, che, se ne risulta difficile la quantificazione, non potrà che farsi riferimento proprio ai criteri equitativi di cui all’art. 1226 c.c.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – Esso si riferisce al passaggio motivazionale della sentenza d’appello già esaminato nel primo motivo (sub 1.2.) e sostanzialmente ripropone le stesse critiche alla decisione presa dalla Corte di merito, estendendone la valenza anche alla affermata non risarcibilità del danno esistenziale.

Valgono le stesse considerazioni espresse in relazione alla non fondatezza del suddetto motivo, cui si aggiunge il richiamo al principio di recente affermato da questa Corte, proprio con riferimento al risarcimento del danno esistenziale, secondo cui non può procedersi alla liquidazione di un danno non dedotto in modo sufficientemente specifico da consentire una liquidazione, sia pure su basi equitativa o per presunzioni (Cass. sez. un. n. 17550 del 2017).

5. – Con il settimo motivo, i ricorrenti deducono la “violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e/o omesso esame della richiesta di risarcimento del danno esistenziale ex art. 360 c.p.c., n. 2 (recte: 3) e n. 5 “, nella parte il cui la Corte distrettuale ha respinto l’appello in punto di danno esistenziale. I ricorrenti richiamano la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità delle immissioni di cui all’art. 844 c.c. comporta, nella liquidazione del danno sussistente in re ipsa, l’esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, in quanto si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e, per quanto riguarda il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Cass. n. 7048 del 2012; Cass. n. 5844 del 2007). Essi deducono di aver provato l’illegittimità delle immissioni tramite il deposito in giudizio delle risultanze dell’ARPAV e la diminuzione patrimoniale tramite la CTP; e di aver dimostrato, per mezzo di perizia di parte che la ricorrente C.M. – in conseguenza della grave situazione di stress seguita al rumore proveniente, da molti anni, dalla vicina attività di lavorazione del marmo – aveva manifestato un disturbo dell’adattamento, con attacchi di panico e riduzione degli interessi per l’ambiente circostante, con conseguente danno biologico permanente stimato nella misura del 10%. Pertanto, i ricorrenti ritengono che il danno esistenziale, scaturito da accertate immissioni che superino il normale limite di tollerabilità, avrebbe dovuto essere conosciuto presuntivamente, in quanto riconducibile al danno non patrimoniale, inteso come lesione del diritto alla salute in senso lato, costituzionalmente garantito.

5.1. – Ribadita l’inammissibilità della censura riferita alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto al profilo della dedotta violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2 (recte: n. 3), il motivo non è fondato.

5.2. – La Corte distrettuale ha evidenziato come, quanto al danno esistenziale, il primo giudice avesse rilevato la totale assenza di allegazioni sul punto (a parte un generico accenno alla compromissione della serenità della vita familiare) ed avesse evidenziato il “mutamento di rotta” operato in corso di causa dagli attori per avere allegato un danno biologico-psichico (sulla base di una sommaria relazione medica relativa a C.M.), mantenendo nel contempo inalterata la richiesta risarcitoria riferita al danno esistenziale. E ha rilevato che, nell’atto di appello, gli odierni ricorrenti non avevano formulato alcuna censura avverso la motivazione del primo giudice, limitandosi ad affermare che “tale danno alla salute si traduce in uno stato psico-fisico che è riconducibile all’inquinamento acustico anche senza necessità di prova effettiva ed è quantificabile quale danno esistenziale che lo stesso tribunale ha indicato come tale”. Sicchè (avendo il Tribunale rilevato la “totale novità” della domanda relativa al risarcimento del pregiudizio psico-biologico) “la suddetta decisione non risulta(va) nemmeno oggetto di critica, laddove va condivisa la più autorevole giurisprudenza circa la necessità che il pregiudizio non patrimoniale debba essere comunque adeguatamente dimostrato, non potendosi ritenere la sussistenza in re ipsa del danno alla salute la cui risarcibilità è subordinata all’accertamento dell’effettiva esistenza di una lesione fisica e psichica – pur in presenza di risalente esposizione ad immissioni sonore intollerabili (cfr. Cass. n. 25820 del 2009)”. E quindi la Corte di merito ha concluso nel senso che, “in ogni caso, il danno esistenziale, come detto reclamato in termini completamente generici, non appare correlabile a concludenti allegazioni, attesa la nebulosità degli indispensabili presupposti di fatto, di tal che non è possibile riconsiderare la negativa valutazione di cui alla pronuncia impugnata, la quale risulta sul punto del tutto ineccepibile”.

5.3. – Tali affermazioni sono del tutto coerenti con i principi espressi da questa Corte. Vero che, di recente, essa ha affermato che l’assenza di un danno biologico documentato non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorchè siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonchè tutelati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, la prova del cui pregiudizio può essere fornita anche con presunzioni (Cass. sez. un. n. 2611 del 2017; conf. Cass. n. 20445 del 2017). Vero tuttavia anche che (con riferimento a fattispecie totalmente sovrapponibile alla presente) questa Suprema Corte ha statuito che in mancanza di allegazione dell’esistenza del danno esistenziale (sembrando in realtà, come anche nella fattispecie, “non distinguersi tra il dovere di allegazione dell’esistenza di un danno non patrimoniale e la possibilità di una liquidazione del danno su base equitativa e/o presuntiva”) “non può procedersi alla liquidazione di un danno non dedotto in modo sufficientemente specifico da consentire una liquidazione, sia pure su basi equitativa o per presunzioni” (Cass. n. 17550 del 2017; cfr. tra le tante Cass. n. 583 del 2016; Cass. n. 336 del 2016; Cass. n. 22285 del 2015).

Pertanto, questa Corte ha riaffermato che il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello c.d. esistenziale, non può essere considerato in re ipsa ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. n. 2056 del 2018).

Orbene, nella specie, non essendo stato allegato in modo circostanziato e specifico, nell’atto introduttivo del giudizio, il quid del danno esistenziale, esattamente la Corte territoriale ne ha escluso la risarcibilità.

6. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti per la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2018

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