Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28727 del 23/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 23/12/2011, (ud. 12/12/2011, dep. 23/12/2011), n.28727

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.E., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato FORTUNATO COSIMO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE N. 144,

presso lo studio degli avvocati LA PECCERELLA LUIGI, RASPANTI RITA,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1471/2008 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 23/09/2008 R.G.N. 368/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/12/2011 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato PUGLISI LUCIA per delega LA PECCERELLA LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ROMANO Giulio che ha concluso per inammissibilità o in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata: a) in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza del 24 novembre 2005, condanna R.E. alla restituzione, in favore dell’INAIL, di quanto indebitamente percepito a titolo di rendita vitalizia per infortunio sul lavoro (pari a Euro 26.401,89), nel periodo compreso tra la data del riconoscimento della rendita stessa e quella della relativa sospensione, oltre agli accessori di legge; b) conferma, per il resto, la sentenza di primo grado, di rigetto della domanda della R., volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità della sospensione della suddetta rendita vitalizia, di cui godeva per i postumi di un infortunio occorsole in data 29 settembre 1985.

La Corte d’appello di Catanzaro, per quel che qui interessa, precisa che:

a) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 191 del 2005, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 9, commi 5, 6 e 7, prevedenti l’applicazione retroattiva della nuova disciplina introduttiva del termine di decadenza decennale per l’esercizio del potere dell’INAIL di rettifica delle rendite anche in riferimento a provvedimenti di rettifica adottati nel vigore di una diversa disciplina che non prevedeva alcun termine di decadenza;

b) il Giudice delle leggi ha sottolineato, al riguardo, che l’irragionevolezza della disposizione – sia per quanto si riferisce ai “casi prescritti o definiti con sentenza passata in giudicato”, sia per quanto riguarda i casi non prescritti o non definiti da giudicato – è di tutta evidenza, in quanto è l’istituto stesso della decadenza che per sua natura non tollera applicazioni retroattive, non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto (o, come nella specie, del potere) per mancato esercizio da parte del titolare, in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto (o il potere) debba essere esercitato;

c) siccome la verifica di cui si tratta nel presente giudizio è del 1996, è da escludere che l’INAIL fosse decaduta dal relativo potere;

d) quanto al rapporto intercorrente tra la R. e la moglie del padre P.R., dall’istruttoria svolta è emerso con chiarezza il difetto di tutti gli elementi tipici e necessari della subordinazione: orario di lavoro, retribuzione, potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro;

e) con riguardo all’elemento psicologico rilevabile nella percezione indebita della rendita, risulta essere provato il dolo della R. nell’espressa denuncia dell’infortunio occorsole come avvenuto in occasione di lavoro;

f) l’interessata, infatti, non poteva non essere consapevole del fatto che un aiuto occasionale nella raccolta della frutta, offerto all’evidenza per ragioni di cortesia e ospitalità nonchè nell’ambito di rapporti parentali in senso lato, non poteva essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato;

g) ciò anche in considerazione del livello culturale della R. (in possesso del diploma di maestra elementare) e del fatto che, nell’immediatezza dell’incidente, l’infortunata chiamò il proprio marito, all’epoca impiegato della sede INAIL di Castrovillari;

h) per le suesposte ragioni, va accolta la domanda dell’INAIL di restituzione dell’indebito, come sopra liquidato.

2.- Il ricorso di R.E. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, l’INAIL. L’INAIL deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi.

1.- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 9.

Si sostiene che la Corte d’appello avrebbe violato la suddetta disposizione ove ha condannato la R. alla restituzione dei ratei della rendita vitalizia in oggetto, ancorchè la relativa revoca sia stata disposta con provvedimento emanato oltre dieci anni dopo la costituzione della rendita stessa.

Si sottolinea che la rendita di cui si tratta è stata costituita con decorrenza 13 ottobre 1985, mentre il provvedimento di sospensione è intervenuto il 7 marzo 1996, in base ad indagini cominciate nel dicembre 1995.

Ora, la sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 2005, pur avendo dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 9, commi 5, 6 e 7, non ha tuttavia intaccato la legittimità dei primi quattro commi dello stesso art. 9 e, in particolare, del comma 3.

Tale ultima disposizione non consente la ripetizione dei ratei corrisposti in presenza di un errore non rettificabile, quale è quello posto a base di un provvedimento dell’INAIL intervenuto oltre dieci anni dopo la costituzione della rendita.

Ciò comporta che, nella specie, il provvedimento dell’Istituto, pur essendo di per sè legittimo perchè riguardante una rendita costituita prima della L. n. 88 del 1989, non può esplicare effetto con riguardo alla restituzione dei ratei corrisposti alla R..

2.- Con il secondo motivo di ricorso, illustrato in conformità con l’art. 366-bis cod. proc. Civ., si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, con riferimento alla parte in cui si afferma la insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e l’esistenza del dolo della R. nel denunciare l’infortunio sul lavoro, nonostante la consapevolezza dell’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Si sottolinea che la rendita in argomento è stata costituita nel 1985, nell’immediatezza dell’incidente denunciato dall’interessata, in quanto, evidentemente, l’INAIL ha considerato la documentazione presentata sufficiente allo scopo.

L’Istituto ha dato inizio ad una indagine amministrativa, per la prima volta, nel 1995, senza che fossero intervenuti fatti nuovi oppure nuovi strumenti legislativi o nuove metodologie di indagine idonei a giustificare la riapertura del caso.

A fronte di questa situazione, la Corte territoriale non si preoccupa di accertare, in modo analitico, la situazione di fatto posta alla base della denuncia originaria dell’incidente come infortunio sul lavoro e, in particolare, non ricostruisce in modo adeguato, sulla base del materiale probatorio agli atti, il rapporto esistente tra la R. e la P..

La Corte d’appello, fra l’altro, non tiene conto: a) del fatto che la P., pur avendo sostenuto che con la R. aveva soltanto un rapporto di cortesia e non di lavoro, non ha giustificato le ragioni che originariamente l’hanno indotta a dichiarare che la R. era una sua dipendente; b) della documentazione prodotta in giudizio da cui risulta che la R., ai fini previdenziali, ha la qualifica di bracciante agricola.

Nè va omesso di rilevare che la Corte catanzarese, ove afferma la sussistenza del dolo dell’interessata (facendo riferimento al suo livello culturale e al fatto di essere moglie di un dipendente dell’INAIL) non considera che, in ordine all’infortunio di cui si tratta, la R. non ha effettuato alcuna dichiarazione o denuncia all’INAIL perchè è stata la datrice di lavoro a provvedervi.

2 – Esame dei motivi.

3.- Il primo motivo del ricorso non è fondato.

In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, il fondamento del limite decennale al potere di rettifica è l’esigenza di tutelare le aspettative del titolare di rendita protratta nel tempo, riconosciuta costituzionalmente legittima (Corte cost. n. 191 del 2005) nonchè prevalente, con il decorso di un decennio, anche rispetto all’esigenza di rimuovere un diritto erroneamente riconosciuto. Tuttavia, l’istituto della decadenza non tollera applicazioni retroattive sicchè la disciplina originaria del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 9, commi 5, 6 e 7, retroattiva in senso tecnico – in quanto consentiva all’interessato di chiedere il riesame della rettifica da parte dell’INAIL e l’applicazione delle medesime condizioni di legittimità della rettifica ai rapporti prescritti, definiti con sentenza passata in giudicato, o ancora sub indice, anche a ritroso rispetto al termine di decadenza decennale derivante dall’applicazione immediata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte cost. n. 191 cit.), con conseguente legittimità dei provvedimenti di rettifica adottati nel vigore della L. n. 9 marzo 1989, art. 88, art. 55, comma 5 (dichiarato indirettamente legittimo dal Giudice delle leggi) e inapplicabilità della disciplina del citato art. 9 (vedi, per tutte:

Cass. 14 maggio 2007, n. 11031; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3486;

Cass. 18 settembre 2006, n. 20092; Cass. 5 luglio 2005, n. 14191;

Cass. 15 luglio 2010, n. 16587).

La Corte d’appello di Catanzaro si è conformata al suddetto principio e, pertanto, ha escluso che l’INAIL, nella specie, fosse decaduta dal potere di rettifica della rendita, visto che il relativo provvedimento è stato emesso nel 1996, cioè nel vigore della disciplina di cui alla L. n. 88 del 1989, art. 55 che ne consentiva l’adozione senza limiti di tempo.

Ne consegue che è del tutto inconferente l’argomentazione della ricorrente basata sull’invocazione dell’applicazione dell’art. 9, comma 3 medesimo, visto che come si desume anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 2005 cit., tale disposizione condiziona il mantenimento delle prestazioni economiche in godimento al momento della rilevazione dell’errore da parte dell’INAIL, alla non rettificabilità dell’errore stesso, mentre nella specie, per quel che si è detto, tale condizione non si verifica.

Dalle suesposte considerazioni emerge, con chiarezza, l’infondatezza del primo motivo, salvo restando che, invece, non merita accoglimento l’assunto dall’Istituto controricorrente secondo cui il motivo stesso sarebbe inammissibile perchè la presente fattispecie non sarebbe comunque riconducibile al suddetto art. 9, in quanto la Corte d’appello avrebbe “accertato” il dolo dell’interessata.

Va, infatti, precisato al riguardo che l’art. 9 in argomento esclude l’applicabilità del suddetto termine decadenziale per la facoltà di rettifica per errore “nei casi di dolo o colpa grave dell’interessato accertati giudizialmente”, nella disposizione dunque, diversamente da quel che accadeva per il previgente L. n. 88 del 1989, art. 55, comma 5, della è specificato che deve essere intervenuto un “accertamento giudiziale”.

Tale espressione, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, effettuata in armonia con i principi generali dell’ordinamento in materia e nel rispetto della relativa ratio – di “garanzia del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”, come sottolineato dalla Corte costituzionale nella predetta sentenza n. 191 del 2005 – non può non portare a ritenere che si deve trattare di un accertamento contenuto in una sentenza che sia divenuta definitiva con il suo passaggio in giudicato (arg. ex Cass. 29 gennaio 2003, n. 1372; Cass. 12 dicembre 2006, n. 26464;

Cass. 7 ottobre 2004, n. 20007 Cass. 15 giugno 2011, n. 13084).

Pertanto, ai suddetti fini, l’affermazione della sussistenza del dolo della R., da parte della Corte catanzarese, è del tutto ininfluente.

4.- Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

E’ noto, infatti, che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731;

Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436;

Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

In particolare, risultano esposte in modo, chiaro, esauriente e logico le ragioni per le quali la Corte d’appello ha ritenuto di:

a) escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la P. e la R.;

b) affermare la natura dolosa del comportamento della R..

Infatti, alle suddette conclusioni – che, peraltro, si risolvono in apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito ed incensurabili in sede di legittimità, se congruamente motivati, come nella specie la Corte d’appello è pervenuta attraverso un’attenta valutazione sia del tipo di relazione intercorrente tra la P. e la R. (affini di primo grado, avendo la prima sposato il padre della seconda), sia della particolare situazione soggettiva della R. (titolo di studi posseduto e rapporto di coniugio con un impiegato dell’INAIL, chiamato sul posto nell’immediatezza dell’incidente) che sono sufficienti a giustificare la decisione assunta, alla luce della giurisprudenza di questa Corte.

Va ricordato, a tale ultimo riguardo che, in base a consolidati indirizzi di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:

1) in tema di prestazioni lavorative rese in ambito familiare – le quali vengono normalmente compiute affectionis vel benevolentiae causa – la parte che fa valere in giudizio diritti derivanti da tali rapporti è tenuta ad una prova rigorosa degli elementi costitutivi della subordinazione e della onerosità; con particolare riferimento all’attività lavorativa compiuta in agricoltura da parte di parenti o affini, poi, la mera prestazione non costituisce prova sufficiente, essendo necessaria la specifica dimostrazione della subordinazione e della onerosità delle prestazioni, in modo che risulti il nesso di corrispettività tra prestazione lavorativa e retribuzione, pur se in un quadro caratterizzato da maggiore elasticità degli orari (vedi, per tutte: Cass. 20 aprile 2011, n. 9043);

2) nella indebita percezione di prestazioni assistenziali o previdenziali il dolo opera non nel momento di formazione della volontà negoziale, bensì nella fase esecutiva, riguardando un fatto causativo della cessazione dell’obbligazione di durata, non noto all’ente debitore, titolare passivo di un numero assai rilevante di rapporti, il quale non può ragionevolmente attivarsi per prendere conoscenza della situazione personale e patrimoniale dei creditori, senza la collaborazione attiva di ciascuno di loro. Conseguentemente, da un lato, costituisce comportamento doloso anche il silenzio di chi ha l’obbligo di effettuare una dichiarazione al fine di ottenere il beneficio richiesto (ad esempio: l’omessa comunicazione della cessazione dello stato di vedovanza in riferimento alla rendita ai superstiti per infortunio mortale sul lavoro subito dal coniuge) e, dall’altro, a ravvisare il detto stato soggettivo non è necessario un positivo e fraudolento comportamento essendo sufficiente la consapevolezza dell’insussistenza del diritto (arg. ex 8 ottobre 2007, n. 21019; Cass. 15 giugno 2010, n. 14347);

3) in materia di dolo del beneficiario di prestazioni assistenziali o previdenziali, rilevante al fine di escludere l’irripetibilità delle somme indebitamente percepite, la sottoscrizione di una dichiarazione non veritiera non è di per sè necessariamente prova definitiva ed insuperabile di una condotta dolosa, ma essa, in relazione alla natura degli adempimenti richiesti all’interessato e al suo tenore letterale, può dar luogo alla presunzione di una condotta consapevole e volontaria a fronte della quale incombe al pensionato l’onere di provare che il suo comportamento dipende da mera colpa e specificamente da una non completa e attenta valutazione delle circostanze che hanno determinato il suddetto comportamento (arg. ex Cass. 7 ottobre 1997, n. 9734, Cass. 18 novembre 1999, n. 12790).

A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dalla ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative della medesima ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

3. – Conclusioni.

5- In sintesi, il primo motivo del ricorso deve essere respinto e il secondo va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese del presente giudizio, ai sensi dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, nella specie applicabile ratione temporis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo motivo. Nulla per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 12 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2011

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