Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28726 del 18/10/2021

Cassazione civile sez. VI, 18/10/2021, (ud. 25/05/2021, dep. 18/10/2021), n.28726

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35300-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

SDV SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCREZIO CARO 63, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO CASTIELLO, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3902/4/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della CAMPANIA SEZIONE DISTACCATA di SALERNO, depositata

l’08/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/05/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA

CAPRIOLI.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Considerato che:

La società L.P.A. Pesca s.r.l. ora società S.D.V. impugnava avanti alla CTP di Avellino l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate con cui si contestava la deduzione integrale del costo relativo alle fatture ricevute dalla società New Media s.r.l. per un imponibile di Euro 215.000,00 maggiorata dell’Iva pari ad Euro 43.000,00.

Il giudice con sentenza n. 633/2017 accoglieva il ricorso ritenendo che la delega al funzionario non era rispettosa dei precetti previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, che non era stato osservato il contraddittorio endoprocedimentale e che era corretta la contabilizzazione dei costi in questione.

Avverso tale decisione l’Ufficio proponeva appello avanti alla CTR della Campania.

Il giudice di appello, con sentenza qui impugnata, riteneva condivisibile il ragionamento seguito dalla CTP affermando che, anche a voler superare in senso favorevole all’Ufficio, la questione della ritualità della delega, risultava dirimente l’assenza del contraddittorio endoprocedimentale indispensabile nel caso in cui l’accertamento riguardi non solo i tributi non armonizzati ma anche l’Iva.

Rilevava che non era richiesta, come ritenuto dall’Ufficio, la sussistenza di una esatta proporzionalità tra l’incidenza dei costi pubblicitari e l’incremento dei ricavi trattandosi di un postulato privo di fondamento normativo e comunque dovendosi considerare che l’esatto ritorno di un investimento deve misurarsi nel tempo.

Osservava che l’Amministrazione non aveva effettuato una indagine sulla congruità dei costi pubblicitari in comparazione con quelli degli altri similari investimenti pubblicitari.

Rilevava che non poteva dirsi irrazionale l’affermazione di aver sostenuto spese di pubblicità per Euro 215.000,00 a fronte di maggiori ricavi per Euro 766.377,00 senza considerare anche i futuri vantaggi derivanti dalla ulteriore clientela così presumibilmente acquisita.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste con controricorso illustrato da memoria la società contribuente.

Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR ritenuto obbligatorio l’instaurazione di un contraddittorio preventivo esteso anche alle imposte dirette attesa l’unicità dell’accertamento.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si censura la decisione nella parte in cui ha ritenuto corretta l’integrale deduzione dei costi per spese di pubblicità avendo l’Ufficio riconosciuto l’esistenza di un incremento reddituale conseguente al sostentamento di dette spese di cui non è stata contestata la congruità ed in assenza di una esatta previsione del ritorno economico.

Si critica in particolare la qualificazione operata dalla CTR in termini di spesa di pubblicità solo perché vi sarebbe stato un incremento reddituale successivamente alla campagna pubblicitaria dovendo il contribuente dimostrare che l’aumento del reddito, inteso come depurato dai costi sia diretta conseguenza delle spese di pubblicità sopportate al fine di promuovere la vendita di un determinato prodotto o servizio.

In via preliminare deve essere esaminata la questione di inammissibilità del ricorso per la mancata impugnazione di uno dei punti accolti dalla sentenza impugnata quello relativo al difetto di sottoscrizione dell’atto in relazione al quale si sarebbe formato il giudicato che avrebbe comportato l’inammissibilità del ricorso.

Il rilievo è infondato.

Come più volte chiarito da questa Corte la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar luogo alla formazione del giudicato interno “soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico della decisione” (Cass. n. 21566/2017; Cass. n. 4732/2012). Nel caso di specie la decisione della CTR ha optato per la ragione più liquida senza entrare nel merito della questione.

– il primo motivo è fondato.

– Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823), premesso che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, si applica ai soli casi di accesso ed ispezioni e verifiche nei locali del contribuente, hanno chiarito che “in tema di tributi c.d. non armonizzati, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l'”invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (Cass., sez. un., n. 24823 del 2015; tra la successiva giurisprudenza conforme si vedano, tra le altre, Cass. n. 2875 del 2017; Cass. n. 10030 del 2017; Cass. n. 20799 del 2017; Cass. n. 21071 del 2017; Cass. n. 26943 del 2017).

Pertanto, l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale è stato escluso, relativamente ai tributi non armonizzati, solo per gli accertamenti cd. a tavolino e, cioè, per quelli derivanti da verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio, in base alle notizie acquisite da altre Pubbliche Amministrazioni, da terzi ovvero dallo stesso contribuente, in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloquio (da ultimo, Cass. n. 998 del 2018; 2021/ n. 1187. “La garanzia di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, si applica a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, in quanto la citata disposizione non prevede alcuna distinzione ed e’, comunque, necessario redigere un verbale di chiusura delle operazioni anche in quest’ultimo caso, come prescrive il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 6” (Cass. n. 15624 del 2014, da ultimo Cass. n. 19259 del 2017);

Nella sentenza impugnata, il giudice di appello, nel confermare l’illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto emesso senza l’espletamento della procedura endoprocedimentale non ha fatto buon governo dei suddetti principi. Infatti, come accertato dalla stessa CTR e, peraltro, costituente circostanza incontestata, nella specie, l’istruttoria contabile si è svolta a seguito dell’invio al contribuente di un questionario e di successivi inviti finalizzati all’acquisizione di documentazione contabile trattandosi di un accertamento “a tavolino” sicché con riguardo alle imposte dirette non sussisteva l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale.

Non si perviene a diverse conclusioni neppure in considerazione della circostanza che l’accertamento ha per oggetto anche l’Iva, posto che per i tributi “armonizzati”, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (come appunto nel caso degli accertamenti “a tavolino”), l’eventuale declaratoria d’invalidità dell’atto impositivo per violazione del contraddittorio richiede che il giudice effettui la “prova di resistenza” (ovvero una concreta valutazione sulle conseguenze della pretesa violazione del contraddittorio endoprocedimentale) (Cass. 15/01/2019, n. 701; 2021 n. 2415), purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass. 29/10/2018, n. 27421). Nel caso di specie, il contribuente nel controricorso non deduce puntualmente quali siano le ragioni che, nel giudizio di merito, egli abbia specificamente indicato per configurare la rilevanza effettiva della pretesa violazione del contraddittorio, quanto meno rispetto ai rilievi in materia d’Iva.

Il secondo profilo di censura è inammissibile.

La ricorrente, pur deducendo formalmente un vizio di violazione di legge, propone, in realtà, una censura motivazionale, intesa, anzi, ad una rivisitazione dell’accertamento di fatto e a una rivalutazione degli elementi probatori e documentali acquisiti in giudizio, valorizzati dal giudice di merito.

Ne’ giova una diversa qualificazione del vizio quale motivazione insufficiente, non più consentita a seguito della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. nella L. n. 134 del 2012.

Giova rilevare, in ogni caso, che secondo la più recente giurisprudenza della Corte il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo (Cass. n. 450 del 11/01/2018; Cass. n. 3170 del 09/02/2018).

La prova dell’inerenza di un costo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto tenuto a provare l’imponibile maturato. Da tali principi la CTR non si è discostata poiché, con accertamento in fatto non censurabile, ha ritenuto che il contribuente avesse dimostrato una correlazione fra i costi di pubblicità per Euro 215.000,00 ed un incremento reddituale per e 766.377,00 facendo discendere da tutto ciò in assenza di una indagine circa la congruità dei costi sostenuti dalla contribuente in comparazione con quelli di altri similari investitori.

Il giudice di appello pertanto ha ritenuto l’inerenza della spesa solo in base alla sussistenza di un rapporto di pertinenza con l’attività d’impresa, rapporto che costituisce, per come sopra evidenziato, la condizione necessaria.

Il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri vigenti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di legittimità che si liquidano in complessive Euro 5.600,00 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2021

 

 

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