Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28711 del 16/12/2020

Cassazione civile sez. I, 16/12/2020, (ud. 23/10/2020, dep. 16/12/2020), n.28711

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10762/2019 proposto da:

O.G., rappresentati e difesi dall’avv. ANTONINO NOVELLO, e

domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1431/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 19/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza del 4.10.2016 il Tribunale di Brescia rigettava il ricorso avverso il provvedimento con il quale la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Brescia aveva respinto la domanda di O.G. volta al riconoscimento della detta protezione.

Interponeva appello l’ O. e la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza oggi impugnata, n. 1431/2018, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione O.G. affidandosi a due motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, ha depositato atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

La censura è inammissibile.

Il ricorrente aveva narrato di essere fuggito dalla Nigeria per timore di subire violenze a seguito dell’uccisione dei suoi genitori, dovuta ad un contrasto sulla proprietà di un terreno dotato di giacimenti petroliferi. Egli, unico erede, sarebbe fuggito in un altro villaggio, sarebbe stato ritrovato dai persecutori dei suoi genitori, che avrebbero anche violentato sua sorella. La storia è stata considerata non credibile dalla Corte di Appello, la quale ha escluso anche il riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), in quanto ha ritenuto, in base a fonti idonee ed aggiornate -in particolare, rapporti UNHCR del dicembre 2015, Amnesty International 2016/2017 ed Amnesty Italia del 2017/2018- che la Nigeria sia interessata da fenomeni di violenza solo nella zona nord-orientale, nella quale si verificano attacchi ad opera del gruppo terroristico (OMISSIS).

Tale motivazione non è adeguatamente attinta dal motivo in esame, con il quale il ricorrente si limita ad un generico richiamo di fonti alternative, senza tuttavia confrontarsi con il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv. 655559). Ove manchi tale specifica allegazione, è precluso a questa Corte procedere ad una revisione della valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito. Solo laddove nel motivo di censura vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il predetto giudice ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede.

In definitiva, va data continuità al principio secondo cui “In tema di protezione internazionale, il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate” (v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4037 del 18/02/2020, Rv. 657062).

Non così, invece, nel caso in cui le fonti informative non siano state in alcun modo citate dal giudice di merito, ovvero siano state citate con espressioni talmente generiche da non consentire, in concreto, l’individuazione della loro fonte o la loro collocazione temporale, poichè in tal caso si configura una violazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che impone al giudice di esaminare la domanda di protezione internazionale “… alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che dette informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”.

Le Country of Origin Information (cosiddette “C.O.I.”) assumono dunque un ruolo centrale nell’istruzione e nella decisione delle domande di protezione internazionale, poichè la relativa decisione deve essere assunta, per precisa disposizione normativa, sulla base delle notizie sul Paese di origine, o di transito, del richiedente che siano tratte da fonti informative specifiche ed aggiornate. Il giudice di merito, pertanto, non può esimersi dal dar conto, in motivazione, della C.O.I. in concreto consultata e dell’informazione specifica da essa tratta, poichè l’omissione non consente di verificare l’attendibilità e la pertinenza dell’informazione utilizzata per la decisione e si riflette, pertanto, in una valutazione di scienza privata, in aperta violazione dell’obbligo di collaborazione istruttoria previsto e declinato dal già richiamato del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

Poichè tuttavia, come già detto, nel presente caso la sentenza impugnata indica le C.O.I. ed il ricorrente non si confronta con esse, contestandole specificamente, il motivo va dichiarato inammissibile.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19,D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 ed del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente denegato anche il riconoscimento della protezione umanitaria, senza considerare la condizione della Libia, Paese nel quale il richiedente aveva dimostrato di aver soggiornato e lavorato per un certo tempo.

La censura è inammissibile.

La Corte territoriale ha ritenuto irrilevante il periodo trascorso dall’ O. in Libia, in quanto lo stesso non aveva dedotto alcun rapporto di continuità ovvero di collegamento funzionale, nè un effettivo radicamento in Libia (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata).

Il ricorrente non censura in modo adeguato tale passaggio, in sè impreciso, posto che la valutazione sull’esistenza del radicamento nel cd. Paese di transito non rileva ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ma, semmai, di quella sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), laddove si ritenga, in concreto, che il richiedente asilo debba essere rimpatriato non nel Paese in cui è nato, ma in quello, diverso, in cui egli svolgeva la sua vita ed aveva il nucleo essenziale dei rapporti personali prima dell’emigrazione.

L’ O., tuttavia, si limita a contrapporre alla non precisa affermazione della Corte territoriale un generico richiamo di C.O.I. relative alla drammatica situazione esistente in Libia e ad un ancor meno specifico cenno ai “traumi subiti dai richiedenti asilo dopo l’uscita dal proprio Paese” (cfr. pagg. 9 e 10 del ricorso), senza in alcun modo precisare quali violenze egli abbia subito durante la sua permanenza in Libia e quali effetti permanenti esse abbiano prodotto sulla sua persona.

Ai fini del riconoscimento della tutela umanitaria, invece, è onere del richiedente allegare in modo puntuale e specifico i profili di vulnerabilità, che possono anche trarre origine da trattamenti inumani o degradanti subiti nel Paese di transito, ma che non possono risolversi in deduzioni genericamente relative alla condizione di quel Paese, posto il principio generale per cui “Nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018, Rv. 651868).

Va infatti ribadito, in materia di protezione umanitaria dipendente da eventi traumatici occorsi al richiedente nel Paese di transito, il principio per cui “… non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona” (così Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13096 del 15/05/2019, Rv. 653885, relativa ad una fattispecie di ripetute violenze sessuali subite da una cittadina nigeriana nel corso della sua biennale permanenza in Libia).

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, in difetto di svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 23 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2020

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