Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28682 del 27/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 28682 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: DI CERBO VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso 21129-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

3345

RENZI

SARA C.F.

RCCRLL52A67H501C,

elettivamente

domiciliata -in ROMA, VIA TUSCOLANA 9, presso lo
studio

dell’avvocato

RICCI

ROSELLINA,

che

la

Data pubblicazione: 27/12/2013

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FESTA
EMILIO, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 350/2007 della CORTE D’APPELLO
di PERUGIA, depositata il 24/08/2007 R.G.N. 937/2005;

udienza del 21/11/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO
DI CERBO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega VESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA t che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

21129.08

Udienza 21 novembre 2013

Pres. F. Roselli
Est. V. Di Cerbo

SENTENZA

1.

La Corte d’appello di Perugia ha confermato la sentenza di prime cure che aveva
dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, con decorrenza 1 marzo
2000, stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Sara Renzi e per l’effetto aveva dichiarato la
sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed
aveva condannato Poste Italiane s.p.a. al pagamento delle retribuzioni maturate a
decorrere dal 24 marzo 2003 individuata come data della messa in mora del datore di
lavoro.

2.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre
motivi illustrati da memoria; la lavoratrice ha resistito con controricorso.

3.

Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

4.

Col primo motivo la società ricorrente censura (denunciando, in particolare, violazione
degli artt. 1372, primo e secondo comma, cod. civ. e vizio di motivazione) la statuizione
della sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per
mutuo consenso.

5.

La censura è infondata. Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in
particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554), nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato
(sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale
ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo
consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la
conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale
conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze
significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della
portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o
errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che, nel caso di specie,
la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, in
mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei
presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in
quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.

6.

Quanto alla statuizione concernente l’illegittimità del termine osserva il Collegio che la
Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo ai fini della statuizione sull’illegittimità del
termine, tra l’altro, alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

7.

La società ricorrente censura tale statuizione col secondo motivo di ricorso con il quale
si denuncia, in particolare, violazione e falsa applicazione degli artt.1362 e 1363 cod. civ.
nonché vizio di motivazione.

8.

Anche tale censura è infondata e deve essere pertanto rigettata.

9.

Ed infatti, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che

l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del
potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge
n. 230 del 1962, discende dall’intento de/legislatore di considerare l’esame congiunto
delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori
ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della
percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di
collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di
lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali
all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo
determinato (cfr. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063; cfr. altresì Cass. 20 aprile 2006 n. 9245,
Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). Ne risulta, quindi, una sorta
di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono
destinatari, non essendo questi vincolati all’individuazione di ipotesi comunque
omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della
disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato (cfr., fra le
altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378); in tale quadro, ove
però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive
(anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la
nullità della clausola di opposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n.
18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866); in particolare,
quindi, come questa Corte ha univocamente affermato e come va anche qui ribadito, in

materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25
settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo
accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di
riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione
giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne
consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30
aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore
conseguenza della trasformazione degli stessi contratti in contratti a tempo
indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230 (v., fra le altre, Cass. 1
ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 novembre 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062;
Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
10. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.
11. Con riferimento al profilo relativo alle conseguenze economiche della dichiarazione di
nullità della clausola appositiva del termine, si pone il problema dell’applicabilità al caso
0
di specie dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7 della legge
4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
4

esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, come integrato
dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.

13. Nel caso in esame il terzo motivo investe il tema al quale si riferisce la disciplina di cui
all’art. 32 prima citato. Con tale motivo, con i quali è stata denunciata “violazione o falsa
applicazione di norme di diritto” nonché vizio di motivazione, parte ricorrente lamenta,
in particolare, la violazione dei principi in tema di corrispettività delle prestazioni e di
onere della prova sostenendo che incombeva sulla lavoratrice l’onere di provare il
danno subito e il mancato reperimento di altra occupazione ai fini della valutazione
dell’aliunde perceptum. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto ex art.
366 bis cod. proc. civ.: se in caso di domanda di risarcimento danni da scioglimento del

rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello
stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da farsi
equivalere alle retribuzioni perdute — detratto l’aliunde perceptum — a causa della
mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, ma presuppone che queste siano state
offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate.
14. Tale motivo risulta del tutto generico e astratto come del resto il quesito sopra
riportato. In particolare quest’ultimo appare sostanzialmente non pertinente rispetto
alla fattispecie in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti
nella materia senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto
accertamento operato dai giudici di merito (cfr. Cass. 4 gennaio 2011 n. 80; Cass. 29
aprile 2011 n. 9583); ciò in contrasto con i principi enunciati da questa Corte di
legittimità (cfr., in particolare, Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36) secondo cui il quesito di
diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve essere formulato in
maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in
giudizio, dovendosi ritenere inesistente un quesito generico e non pertinente, con
conseguente inammissibilità del relativo motivo, come nel caso di specie (per una
analoga fattispecie cfr. Cass. 1 settembre 2011 n. 17674). Alle stesse conclusioni deve
pervenirsi per il denunziato vizio di motivazione, atteso che manca il “momento di
sintesi” che la giurisprudenza di questa Corte (cfr., in particolare, Cass. 25 febbraio 2009
n. 4556) ha individuato come una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – owero delle
5

12. In proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione necessaria
per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto,
con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che
quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura
nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004
n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche
indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina soprawenuta, oltre ad essere
sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; ne consegue che,
con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad
essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano
specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine e che
essi siano ammissibili; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato
proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore
del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di
inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi
dell’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile; in caso di assenza o
di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata
nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti
la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare
la decisione.
15. Il ricorso va pertanto respinto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, liquidate in Euro 100,00 per esborsi oltre Euro 3500 (tremilacinquecento) per
compensi professionali e oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre 2013.

16. Al rigetto del ricorso, consegue, per il principio della soccombenza, che le spese del
presente giudizio vengano poste a carico di parte ricorrente nella misura, liquidata in
dispositivo, che tiene conto delle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012 n. 140 (entrato
in vigore il 23 agosto 2012) emanato ai sensi dell’art. 9 del d.l. n. 1 del 2012 convertito in
legge n. 27 del 2012.

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