Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28680 del 07/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 07/11/2019, (ud. 19/09/2019, dep. 07/11/2019), n.28680

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14734-2C13 proposto da:

F.B., elettivamente domiciliato in ROMA P.ZA COLA DI

RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato ELISABBETTA NARDONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO ZOSO giusta delega e

margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 51/2212 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

SALERNO, depositata il 13/22/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/09/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

udito il P.M. persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS UMBERTO che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto

del ricorso.

udito per il controricorrente l’Avvocato PISANA che si associa.

Fatto

FATTI DI CAUSA

F.B. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 51/12/2012, depositata il 13.02.2013 dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sez. stacc. Di Salerno, con la quale, in riforma della sentenza di primo grado, era rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2005, notificato all’esito di una verifica che, rilevando un apprezzabile scostamento dallo studio di settore applicato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), aveva rideterminato i ricavi del contribuente, accertando maggiori imposte a titolo di Irpef, Irap ed Iva.

L’atto impositivo era stato annullato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Avellino con sentenza n. 288/01/2011. L’appello proposto dall’Ufficio finanziario era stato invece accolto con la decisione ora al vaglio della Corte. Con essa, in sintesi, si era ritenuto che lo scostamento del reddito dal cluster applicato, unitamente agli altri elementi valorizzati nell’atto impositivo, a fronte delle generiche e comunque inadeguate difese del contribuente allegate a supporto delle proprie ragioni, giustificasse l’avviso di accertamento.

La società censura con sei motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 56 e 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per aver accolto l’appello dell’Ufficio sulla base di questioni ed eccezioni non espressamente riproposte con l’impugnazione;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993 art. 62 sexies, nonchè del D.M. 24 dicembre 1999 e D.M. 25 marzo 2002, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per aver erroneamente ritenuto corretta l’applicazione dello studio di settore relativo ai servizi di pulizia, senza tener conto dell’ulteriore attività di vendita e commercio di detersivi e prodotti per la pulizia, riconducibile a diverso studio;

con il terzo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per l’erronea applicazione dei principi sulla prova presuntiva;

con il quarto per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo alla supposta antieconomicità del comportamento imprenditoriale del ricorrente;

con il quinto per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., con riguardo ai costi sopportati per l’acquisto della materia prima;

con il sesto per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo alle giacenze di magazzino.

Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza, con decisione nel merito.

Si è costituita l’Agenzia, che ha contestato i motivi di ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Alla pubblica udienza del 19 settembre 2019, il P.G. e le parti hanno discusso e concluso. La causa è stata dunque riservata per la decisione. Il F. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo è infondato. Con esso il ricorrente sostiene che l’appello sia stato accolto sulla base di questioni ed eccezioni non espressamente riproposte con l’impugnazione e dunque in violazione del principio devolutivo. In particolare si duole che mentre con l’atto d’appello l’Agenzia aveva criticato il mancato riconoscimento da parte del giudice di primo grado della incoerenza tra il reddito dichiarato e le risultanze dello studio di settore applicato, la Commissione Regionale aveva invece valorizzato anche il comportamento antieconomico dell’imprenditore, del tutto assente nelle difese dell’appellante.

Questa Corte ha già affermato che, in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica, diverse da quelle invocate dall’istante. Inoltre, non incorre nella violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (Cass., 20652/2009; 513/2019; cfr. anche 9202/2018; sul carattere devolutivo pieno dell’appello nel processo tributario, cfr. 30525/2018). Nel caso di specie, incontestato che nell’atto impositivo l’Ufficio ai fini dell’accertamento avesse indicato, tra gli elementi a conforto della propria ricostruzione indiziaria, anche la condotta antieconomica del contribuente, il giudice ha valorizzato tale elemento, ancorchè non espressamente riprodotto in sede d’appello dall’Ufficio, senza che ciò configuri un mutamento del petitum e della causa petendi del credito fiscale, e dunque una violazione del principio di cui al citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 e all’art. 346 c.p.c..

Sono infondati il secondo ed il terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente perchè entrambi riconducibili alla denuncia della erronea applicazione delle regole di governo delle prove presuntive. In particolare il contribuente ha denunciato la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, in relazione ai D.M. 24 dicembre 1999 e D.M. 25 marzo 2002, per aver applicato lo studio di settore relativo ai servizi di pulizia, senza tener conto dell’ulteriore attività di vendita e commercio di detersivi e prodotti per la pulizia, riconducibile in una diversa categoria, ed ha denunciato l’erronea applicazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c..

Deve premettersi che, come la giurisprudenza ormai afferma con orientamento consolidato, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio tuttavia non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., sent. n. 26635 del 2009; più di recente, 13908/2018;

9484/2017; 21754/2017; 14091/2017). Sulle conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia

stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunchè per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. sent. 21754/2017 cit.; da ultimo anche ord. n. 27617/2018). In questo caso infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c..

Così perimetrato l’alveo applicativo sulle regole di accertamento riconducibili agli studi di settore, la censura che il F. muove alla applicabilità di uno studio di settore, relativo ai servizi di pulizia, per una attività economica che comprendeva non solo quella ma anche il commercio di detersivi e prodotti per la pulizia, pur suggestiva non coglie nel segno.

Il ricorrente assume che nelle ipotesi di “multiattività” non erano applicabili studi di settore non comprensivi di tutte le attività, e a tal fine invoca i DD.MM. che si sono succeduti dal 1999 sino al 2008 (D.M. 11 febbraio 2008, che ha infine introdotto il principio della “prevalenza”). Sennonchè la critica non tiene conto che lo scostamento del reddito del contribuente da quello standardizzato nello studio di settore è stato sempre e solo un indice presuntivo, come già evidenziato di per sè insufficiente, ma collocato nel sistema delle presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza è il risultato della combinata valutazione degli elementi raccolti nella fase del contraddittorio endoprocedimentale, assumendo valenza probatoria sufficiente anche quale unico elemento solo nella ipotesi della mancanza di collaborazione da parte del contribuente (che rifiuta di partecipare al contraddittorio o che nulla chiarisca in tale sede). Nel caso di specie la Commissione Regionale non si è limitata a registrare lo scostamento tra il dichiarato e il parametro dello studio applicato, ma ha evidenziato: 1) la mancata giustificazione della esiguità dei redditi dichiarati per diverse annualità; 2) la genericità delle difese e la mancata indicazione di una diversa percentuale di ricarico, diversa da quella applicata dalla Amministrazione; 3) l’incoerenza, non giustificata nè contestata, sui dati relativi alla produttività per addetto; 4) la circostanza che fosse stato il contribuente medesimo ad inquadrare la propria attività, prevalente dunque, nel settore di studio applicato.

Poichè il giudizio in cassazione è giudizio critico sulla sentenza e non sul fatto, il provvedimento impugnato appare correttamente motivato, sul piano logico e giuridico, nell’alveo del governo delle regole sulle prove presuntive.

Il rigetto del secondo e del terzo motivo assorbe i residui motivi, con i quali peraltro, inammissibilmente, il ricorrente tenta di introdurre valutazioni di fatto inibite in sede di legittimità.

In conclusione il ricorso va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza del ricorrente nelle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. Sussistono inoltre i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna F.B. alla rifusione in favore della Agenzia delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.300,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2019

Depositato in cancelleria il 7 novembre 2019

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