Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2868 del 05/02/2021

Cassazione civile sez. I, 05/02/2021, (ud. 15/09/2020, dep. 05/02/2021), n.2868

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

O.O., nato in (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avv.

MIGLIACCIO LUIGI, elettivamente domiciliato presso il suo studio in

Napoli, via Porzio, centro direzionale G1;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, ((OMISSIS)), rappresentato e difeso ex lege

dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliato nei suoi uffici

di Roma, via dei Portoghesi 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno, depositata il

05/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/09/2020 dal consigliere Dott. Alessandro M.

Andronio.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 1040/2018 del 5 luglio 2018, la Corte d’appello di Salerno ha confermato l’ordinanza del Tribunale di Salerno del 29 marzo 2017, con cui era stato rigettato il ricorso proposto dall’interessato avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Avverso la sentenza l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo: 1) l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4, 5 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione ai requisiti per la protezione sussidiaria, per la mancata considerazione della vicenda persecutoria personale narrata dal richiedente in sede di audizione, essendosi i giudici di merito limitati a ritenere non credibili le sue affermazioni, senza però negare la sua asserita omosessualità; 2) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,6 e 8 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 per il mancato riconoscimento dello status di rifugiato, visti il divieto generalizzato di omosessualità e le relative sanzioni penali previste dall’ordinamento della nazione di provenienza ((OMISSIS)); 3) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. b), per la mancata valutazione del rischio di danno grave rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria; 4) la violazione dell’art. 112 c.p.c., per l’omessa pronuncia da parte della Corte d’appello in relazione alla protezione sussidiaria; 5) l’omessa valutazione della situazione del paese di origine, nonchè della condizione personale del richiedente, sotto il profilo della vulnerabilità, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.

3. L’amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.

4. Il ricorrente ha depositato memoria, con la quale sostiene che la Corte d’appello non avrebbe negato la dedotta omosessualità, essendosi limitata ad aspetti di contorno e non avendo valutato la situazione del paese di appartenenza.

5. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso, sostanzialmente aderendo alla prospettazione di parte ricorrente circa la sostanziale mancanza di motivazione della sentenza impugnata sull’attendibilità del richiedente e sulla sua situazione oggettiva di pericolo nel paese di origine, nonchè sulla comparazione di tale situazione con la condizione di vita attuale individuale e sociale, al fine dell’eventuale protezione umanitaria. Ha poi sottolineato come, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale che sia non attendibile, sussiste il dovere del giudice di cooperazione istruttoria in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è infondato.

1.1. Con il primo motivo di doglianza si ribadisce, in sostanza, quanto già affermato di fronte ai giudici di merito circa una asserita situazione di persecuzione e minaccia alla quale il richiedente sarebbe sottoposto nel suo paese di origine ((OMISSIS)), per la sua omosessualità e per il fatto che era stato scoperto dagli abitanti del villaggio mentre aveva rapporti sessuali con il fratello, anche egli omosessuale, e che gli abitanti del villaggio avevano picchiato e ucciso i suoi genitori, mentre lui e il fratello erano stati costretti a fuggire in Libia, paese nel quale il richiedente aveva subito ulteriori violenze.

1.1.1. Deve premettersi che, in tema di protezione internazionale, l’orientamento omosessuale del richiedente costituisce fattore di individuazione del “particolare gruppo sociale” la cui appartenenza, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. d), integra una situazione oggettiva di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato, sussistendo tale situazione quando le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e ad esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità; ciò che costituisce una grave ingerenza nella vita privata di dette persone che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo che deve essere verificata, anche d’ufficio, dal giudice di merito (Sez. 1, n. 7438 del 18/03/2020, Rv. 657482 – 01). E l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, nella specie l’omosessualità, del richiedente protezione internazionale non può essere esclusa dal rilievo che le dichiarazioni della parte non ne forniscano la prova, dal momento che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 dispone che tali dichiarazioni, se coerenti con i requisiti di cui alle lett. da a) ad e) della norma, possono da sole essere considerate veritiere pur se non suffragate da prova, ove comparate con COI aggiornate, e la Corte di Giustizia (sentenza 25/1/2018 C473/16, alla luce dell’art. 13, par. 3, lett. a, della Direttiva 2005/85 e dell’art. 15, par. 3, lett. a, della Direttiva 2013/32, ha evidenziato che, in relazione all’omosessualità, il colloquio deve essere svolto da un intervistatore competente; che si deve tenere conto della situazione personale e generale in cui s’inseriscono le dichiarazioni, ed in particolare dell’orientamento sessuale; che la valutazione di credibilità non può fondarsi su nozioni stereotipate associate all’omosessualità ed in particolare sulla mancata risposta a domande relative a tali nozioni, quali quelle concernenti la conoscenza di associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali (Sez. 1, n. 9815 del 26/05/2020, Rv. 657835 – 02).

1.1.2. Fatte queste premesse, deve rilevarsi che, sul punto della pretesa omosessualità del ricorrente, la sentenza impugnata reca una motivazione pienamente logica e coerente, laddove evidenzia, in totale continuità con l’ordinanza di primo grado, che egli ha fornito una versione dei fatti del tutto inattendibile, non solo con riferimento alle vicende relative alle persecuzioni che in concreto avrebbe subito, ma anche circa il nucleo essenziale del suo narrato, rappresentato dall’asserita omosessualità in quanto tale. Tale inattendibilità riguarda sia la realtà della condizione di omosessuale sia la sua eventuale percezione all’esterno, che avrebbe potuto in astratto portare ad atti persecutori e a rischi per l’incolumità fisica. Del resto, le analitiche affermazioni del Tribunale, secondo cui le contraddizioni del richiedente sono grossolane e le versioni fornite nelle diverse sedi sono tra loro in contrasto su elementi essenziali, non sono state specificamente contestate neanche con l’atto di appello.

Ne consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

1.2. Le altre censure del ricorrente, relative alla mancata valutazione della situazione del paese di provenienza, anche ai fini della protezione sussidiaria della protezione umanitaria, sono inammissibili. Nel ricorso non si deducono compiutamente profili di vulnerabilità o cause di potenziale persecuzione diversi dall’asserita (e non provata) omosessualità, essendosi il ricorrente limitato a generici riferimenti a pretese persecuzioni che avrebbe subito in Libia, senza specificarne la natura e le causa e senza precisare in concreto i tempi e le modalità del suo soggiorno e l’eventuale legame instaurato con tale paese. E la sua prospettazione, quanto alla mancata indagine d’ufficio sulla situazione del paese di provenienza si limita allo specifico profilo delle eventuali persecuzioni a danni di omosessuali; profilo reso irrilevante dalla sua inattendibilità,

Quanto allo specifico aspetto della protezione umanitaria, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (ex multis, Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01). E deve ricordarsi, inoltre, che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Sez. U, n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02). Tale valutazione comparativa è stata compiutamente effettuata dalla Corte d’appello, che – come visto – ha reputato non credibile la versione fornita dall’interessato e insussistenti situazioni di particolare pericolo nel paese di origine; cosicchè non può essere ritenuta configurabile alcuna vulnerabilità, nè vi è alcun rischio di trattamenti inumani in caso di rimpatrio nel paese di provenienza.

2. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Nulla è dovuto per le spese dalla ricorrente soccombente, non essendosi costituita la controparte.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2021

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