Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28651 del 15/12/2020

Cassazione civile sez. I, 15/12/2020, (ud. 13/11/2020, dep. 15/12/2020), n.28651

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21745/2018 proposto da:

Società Agricola Renana di C.S. e C. S.S., già Azienda

Agricola Renana S.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Gracchi n. 39,

presso lo studio dell’avvocato Giuffrè Francesca, rappresentata e

difesa dall’avvocato Carullo Antonio, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

ENI S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via in Arcione n. 71, presso lo

studio dell’avvocato D’Ercole Stefano, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Palombi Nicola, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1286/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

pubblicata il 15/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/11/2020 dal cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1286/2018, depositata in data 15/5/2018 – nei giudizi riuniti concernenti una domanda promossa dall’AGIP spa (cui poi è subentrata l’ENI spa), nei confronti della Agricola Renana srl, in opposizione alla stima deliberata, nel 1989, dalla Commissione Provinciale Espropri per la Provincia di Ferrara, in relazione ad un fondo sito in (OMISSIS), di proprietà della società, che aveva quantificato l’indennità spettante alla stessa per l’espropriazione del fondo, anche per deprezzamento della parte restante non espropriata, ed altra opposizione, promossa dalla Agricola Renana, sempre nei confronti dell’AGIP, alla stima, da parte del Comune di Ferrara, degli stessi beni, oggetto di decreto prefettizio di esproprio dell’agosto 1991, per una superficie di mq. 14.130, per la realizzazione di una Centrale geotermica, – ha, pronunciando in sede di rinvio, a seguito di cassazione con sentenza di questa Corte Suprema n. 7292/2013 di pregressa decisione della Corte d’appello, dichiarato che l’indennità di espropriazione spettante alla proprietaria ammonta ad Euro 510.827,51, ordinando il versamento da parte dell’ENI di quanto dovuto in più presso la Cassa Depositi e Prestiti, oltre interessi legali dall’8/8/1991, dichiarando che nulla è dovuto a titolo di risarcimento danni ex art. 1224 c.p.c., in difetto di compiuta allegazione, compensando per la metà le spese dell’intero giudizio.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto, all’esito di una consulenza tecnica d’ufficio (con successivi chiarimenti e supplemento peritale), che, fermo il giudicato interno sull’inammissibilità della domanda di indennità di occupazione legittima, perchè tardiva, ai fini della determinazione del valore venale dell’area (destinata a verde agricolo nel PRG, ma sita in prossimità della zona industriale di Ferrara) era congruo il valore di Lire 70.000 mq, ma che nella determinazione dell’indennità di espropriazione non si doveva tener conto del valore del c.d. “(OMISSIS)” e della perdita per la società delle utilità economiche derivanti dallo sfruttamento del pozzo e dei suoi manufatti accessori, in quanto esso, parte integrante del processo di coltivazione del fluido geotermico, costituiva una “pertinenza mineraria”, essendo irrilevante che esso fosse stato realizzato nel 1956 e fosse stato poi ricondizionato da ENI negli anni dal 1980 al 1990, dovendosi inoltre escludere che il pozzo, negli anni dal 1957 al 1979, al momento della riconsegna del fondo alla proprietaria, avesse potuto essere sfruttato, prima della nuova locazione ad ENI, a fini irrigui o per altro utilizzo, essendo stato “chiuso minerariamente con tre tappi di cemento a quote diverse di profondità”, avendo lo stesso un valore economico unicamente come pertinenza di una miniera e soltanto quindi per il titolare della concessione; nè poteva riconoscersi al proprietario un ristoro, applicandosi la giurisprudenza in materia di esproprio di “cave attive”, atteso che, prima dell’esproprio del 1991, già esisteva un giacimento geotermico concessionato ad Agip nel 1984 e lo sfruttamento della miniera competeva soltanto ad AGIP, in difetto di richiesta da parte di Agricola Renana di un permesso di ricerca e poi di concessione mineraria o di una sua domanda di partecipazione al bando di gara del 2017, per la riassegnazione della concessione di coltivazione della risorsa geotermica.

Avverso la suddetta pronuncia, notificata in data 1/6/2018, la Società Agricola Renana di C.S. & C. ss propone ricorso per cassazione, notificato il 16-19/7/2018, affidato a quattro motivi, nei confronti di ENI spa (che resiste con controricorso, notificato il 25/9/2018). Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 384, 392 e 394 c.p.c., avendo la Corte d’appello violato il principio di diritto posto da questo giudice di legittimità con la sentenza n. 7292/2013, che aveva dato luogo al giudizio di rinvio, da applicare nella determinazione dell’indennità di esproprio, con riferimento al “manufatto pozzo” (indicato, nella sentenza impugnata, come “(OMISSIS)”) nella sua reale consistenza e nelle sue complessive potenzialità; 2) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1593 e 934 c.c. nonchè L. n. 2359 del 1865, art. 39, art. 1 Primo Protocollo aggiuntivo CEDU, art. 42 Cost., comma 3, nonchè dei principi posti dalla Corte Costituzionale n. 181/2011, non potendo il manufatto pozzo, chiuso minerariamente perchè sterile, dal 1957, dall’AGIP, costituire una “pertinenza mineraria”, stante la violazione delle norme sui contratti di locazione e sui principi in materia di accessione, e dovendo lo stesso che, dal 1979 al 1991, era stato utilizzato come area per la concessione di geotermia, essere considerato parte integrante del bene necessario per l’utilizzo pubblico e quindi da valutare a fini indennitari; 3) con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 2359 del 1865, art. 39, art. 1 Primo Protocollo aggiuntivo CEDU, art. 42 Cost., comma 3, nonchè dei principi posti da questa Corte nella sentenza n. 181/2011, sempre in relazione alla affermata natura di “pertinenza mineraria” del manufatto pozzo, con elusione dei principi di diritto, a livello nazionale e comunitario, in materia di espropriazione e serio ristoro dovuto al privato pregiudicato dall’ablazione; 4) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1224 c.c., comma 2, in merito al rigetto della richiesta di risarcimento del maggior danno.

2.Risulta dalla sentenza di questa Corte n. 7292/2013, che ha dato luogo al giudizio di rinvio, definito dalla Corte d’appello di Bologna, con la decisione oggi impugnata dalla Agricola Renana, che: 1) la Corte d’appello, nella decisione ivi impugnata del 2006, aveva solo parzialmente accolto l’opposizione alla stima di ENI, quantificando in Euro 17.515,00 l’indennità di espropriazione spettante alla società proprietaria, sulla base della natura agricola del fondo (non potendo rilevare gli interventi edificatori realizzati dall’Agip, in particolare, un pozzo, trivellato, a profondità di 2.500 mt, negli anni 1950-1960, per la ricerca di idrocarburi, che aveva avuto esito negativo, e, successivamente a nuova locazione dell’area, utilizzato dalla stessa per la estrazione di acqua calda ad alimentazione di una centrale geotermica), respinta la richiesta di indennità per il deprezzamento dell’area residua e dichiarata inammissibile la domanda di determinazione dell’indennità di occupazione legittima; 2) nel ricorso per cassazione, la Agricola Renana aveva articolato un unico complesso motivo, implicante vizi motivazionali e di violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, dolendosi essenzialmente del fatto che l’area oggetto di esproprio fosse stata ritenuta di natura agricola e non edificabile, che l’indennizzo non avesse ricompreso le opere in essa situate, che non le fosse stato attribuito un serio ristoro per la perdita delle utilità economiche derivanti dallo sfruttamento del pozzo esistente e dei manufatti accessori, assumendo in particolare che vi era stata una trasformazione dei luoghi, anche per effetto della trivellazione del pozzo attuata da Agip, costituente manufatto industriale e opera pubblica, che, con i manufatti accessori realizzati, era “acceduto alla proprietà privata” e non era stato demolito dalla proprietaria dell’area, ma mantenuto in efficienza, a fini agrari ed economici, durante l’intervallo temporale tra la scadenza, nel 1957, della prima locazione e l’inizio della seconda, nel 1980; 3) questa Corte, respinte le doglianze in ordine al mancato riconoscimento della natura edificabile del terreno ablato e di indennità di espropriazione della parte residua dell’area non espropriata, ha accolto il primo profilo del motivo d’impugnazione, rilevando che, dovendosi, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 181/2011, procedere alla determinazione dell’indennità di espropriazione secondo il criterio generale del valore venale del bene, di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 39 doveva consentirsi “al proprietario di dimostrare che il fondo, pur senza raggiungere i livelli dell’edificabilità, abbia un’effettiva e documentata valutazione di mercato che rispecchi possibili e legittime utilizzazioni ulteriori e diverse da quella agricola (cfr, tra le altre, Cass. n. 25718 e 21386 del 2011), quali consentite dalle sue reali consistenza e complessive potenzialità”; 4) in tale prospettiva, il giudice del rinvio doveva “anche verificare (se del caso alla luce, per possibile analogia, con i principi già affermati da questa Corte in tema di esproprio di cave attive) se il bene espropriato costituisse o meno, in epoca antecedente alla vicenda ablativa (in tema cfr anche Cass. SU n. 4344 del 1993), un giacimento aperto e coltivato, come lascerebbe supporre il contratto di cui era stato già oggetto, esaminando la possibile rilevanza ai fini indennitari della sua produttività e delle rendite pregresse o future, legittimamente correlate o correlabili al suo sfruttamento, in ipotesi pregiudicate dall’ablazione”, assorbito l’esame delle ulteriori censure inerenti al diniego d’indennizzo per le opere presenti nell’area ablata.

3. Tanto premesso, la prima censura (ma la questione dell’asserita elusione “del principio di diritto pronunciato” da questa Corte nella sentenza del 2013 pervade l’intero ricorso per cassazione, come rilevato dalla controricorrente) è infondata.

Come ribadito da questa Corte (Cass. 17790/2014; Cass. 27337/2019; Cass. 448/2020) “i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità”.

Nella specie, la Corte di merito, in sede di rinvio, a fronte di una cassazione della pregressa decisione per carenza di motivazione e violazione di legge, che non aveva espresso un principio di diritto ma individuato i confini del giudizio di rinvio, ha proceduto al giudizio affidatole sulla stima dell’indennità di esproprio dovuta in base al valore venale dell’area al momento del decreto prefettizio di esproprio, in particolare verificando se effettivamente, nella determinazione del valore suddetto, dovesse o meno considerarsi il valore del c.d. “(OMISSIS)” e quindi se esso costituisse o meno, in epoca precedente all’esproprio, un giacimento “aperto e coltivato”, eventualmente con ricorso, per analogia, ai principi espressi dal giudice di legittimità in materia di esproprio di cave attive e se l’ablazione avesse “in ipotesi” pregiudicato “rendite pregresse o future, legittimamente correlate o correlabili al suo sfruttamento” alla Agricola Renana.

All’esito di tale verifica, la Corte di merito ha ritenuto che il pozzo costituisce una vera e propria pertinenza mineraria, che non sono applicabili i principi affermati in tema di esproprio di cave attive e che non può essere riconosciuto all’espropriata alcun indennizzo per la perdita di rendite pregresse o future derivanti da tale sfruttamento.

4. La doglianze di cui al secondo ed al terzo motivo sono inammissibili in quanto, in difetto di violazione di legge, la valutazione delle risultanze delle prove, nella specie le risultanze degli elaborati peritali e dei documenti in atti, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass. 11511/2014). Le censure poste a fondamento del ricorso si risolvono nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. 7972/2007; Cass.25332/2014).

La Corte d’appello, tenuto conto, peraltro, delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ha affermato che il pozzo in oggetto fa parte integrante del processo di coltivazione del fluido geotermico e costituisce pertinenza mineraria, insistendo su di un’area oggetto di concessione mineraria, ad una profondità di oltre 400 metri, con un conseguente vincolo di destinazione del bene, e non essendo sfruttabile in nessun modo dal proprietario del fondo in cui esso è collocato.

La Corte di merito ha altresì affermato che non potevano operare, in relazione al suddetto pozzo, i principi in materia di accessione.

Questa Corte (Cass. 3829/1975) ha già chiarito da tempo che “fra i beni elencati dal R.D. 29 luglio 1927, n 1443, art. 23 (sulla ricerca e la coltivazione delle miniere) quali pertinenze minerarie, configurano pertinenze in senso stretto, a norma dell’art. 817 c.c., solo quelli aventi una propria autonoma individualità, quali edifici, impianti, macchinari ed apparecchi destinati alla coltivazione, e non anche quelli, quali pozzi e gallerie, che, per essere definitivamente incorporati nella miniera, mancano di una distinta identificabilità. Nell’ambito delle pertinenze in senso stretto, vanno poi distinte quelle separabili senza pregiudizio della miniera, da quelle non scindibili, come normalmente le pertinenze immobiliari; solo le prime possono essere asportate dal concessionario, della miniera, all’atto della cessazione della concessione, ove non preferisca cederle dietro corrispettivo, mentre le seconde devono essere consegnate allo stato unitamente alla miniera”.

Sempre questa Corte (Cass. 3829/1975) ha quindi precisato che “dal duplice principio che la semplice destinazione di un bene a pertinenza di un altro non comporta, di per se, il trasferimento della proprietà del bene medesimo al proprietario della cosa principale, e che la destinazione a pertinenza viene meno con il cessare della situazione oggettiva che ha dato luogo al sorgere del rapporto, deriva, in tema di pertinenze minerarie, che, ove intervenga l’accertamento ufficiale dell’esaurimento della miniera, cessa il rapporto pertinenziale, ed i relativi beni riacquistano la propria autonomia giuridica; in tale caso, pertanto, le pertinenze, se costituite da edifici, devono ritenersi soggette al regime dettato dal codice civile per tali beni, e suscettibili di acquisto per accessione da parte del proprietario del suolo su cui sorgono (quindi, da parte dello stato, qualora sia divenuto proprietario, in base a procedura espropriativa, del terreno circostante la miniera, su cui siano stati costruiti dal concessionario gli edifici adibiti a pertinenza della miniera medesima)”.

Le installazioni e le opere che sono destinate alle attività di coltivazione di una miniera sono qualificabili giuridicamente come pertinenze di questa, e sottoposte al regime per questa previsto sia che vengano utilizzate per l’attività di sfruttamento che per quella preliminare di ricerca. Il collegamento pertinenziale, però, cessa allorchè viene meno, per una delle possibili cause di estinzione, il diritto del concessionario o del ricercatore: vale a dire per revoca o annullamento della concessione, per scadenza, decadenza, o per qualsiasi altra causa che implichi caducazione del rapporto di coltivazione o di ricerca. (Cass. 4131/1975; Cass. 4950/1987).

Nella specie, non risulta dimostrato un esaurimento ufficiale della miniera, tanto che essa è stata riconvertita da sito per l’attività estrattiva di idrocarburi a sito per lo sfruttamento del fluido geotermico.

Infine. la Corte distrettuale ha escluso che potessero applicarsi i principi espressi da questa Corte in materia di “cave attive”, non emergendo in alcun modo dagli atti di causa che la Agricola Renana fosse “titolare della miniera (recte della concessione per l’attività estrattiva)”, cosicchè, per l’effetto, non poteva essere indennizzato un pregiudizio per la perdita di reali ed effettive rendite pregresse o future, in difetto neppure di una richiesta di autorizzazione/concessione per ricerche d’acqua sotterranea, nel periodo tra il 1957 ed il 1979, quando il fondo non era locato e nella disponibilità della proprietaria.

La conclusione cui è giunta la Corte d’appello è corretta.

Questa Corte, nella sentenza n. 16983/2006, ha richiamato la giurisprudenza in tema di “cave”, estensibile per analogia alle “miniere” (Cass. 6 novembre 1999, n. 12354 e Cass. 22 febbraio 2000, n. 1975; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19044 e Cass. 13 gennaio 2004, n. 268), là dove si è affermato il principio “secondo cui l’indennizzo per l’esproprio di beni siffatti, da considerare entità fruibili direttamente in termini di appropriazione materiale e non reversibile A rinnovabile, ovvero in un contesto di utilizzazione e consumo che sfugge alla logica che, nell’ottica della L. n. 359 del 1992, già citato art. 5 bis presiede alla valutazione delle aree, si sottrae alla rigida dicotomia normativa tra suoli agricoli e suoli edificatori, onde va determinato, attesa la peculiare natura produttiva di detti beni i quali sono utilizzabili non per quel che si può su di essi costruire (aree edificabili) o dal loro soprassuolo trarre (aree agricole), in modo tale da apprestare un serio ristoro per l’ablazione dei medesimi e, quindi, sulla base del razionale riferimento ai proventi che l’espropriato, in quanto pure titolare della cava (o della miniera), sarebbe stato in grado, in una libera contrattazione, di ricavare per effetto dell’esercizio dell’attività estrattiva se il bene non gli fosse stato espropriato, ovvero deve essere ragguagliato alle capacità estrattive dell’area e, quindi, al reddito prodotto e producibile per tutto il tempo della prevista utilizzazione del materiale, sino all’estinzione, cioè, del rapporto o all’esaurimento (effettivo od economico) del giacimento, avuto riguardo alla produttività della cava (o della miniera), alle sue specifiche possibilità di sfruttamento ed al valore di mercato del materiale anzidetto all’epoca dell’esproprio”.

5. Il quarto motivo è infondato.

La Corte d’appello ha negato il risarcimento del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, sull’obbligazione di valuta, “in mancanza di qualsiasi richiesta ed allegazione sul punto”.

La ricorrente lamenta che essa, in via presuntiva, avrebbe avuto comunque diritto, quanto meno, al maggior danno in misura corrispondente alla differenza tra il rendimento dei titoli di Stato ed il tasso legale.

Questa Corte a Sezioni Unite (Cass. 19499/2008; conf. Cass. 3954/2015 ed altre, tra cui, in materia di espropriazione, Cass. 11901/2014) ha chiarito che “nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale”.

Da ultimo, si è ribadito (Cass. 20547/2019), in materia di credito di valuta per compensi professionali, che “dalla mora conseguente all’inadempimento del cliente discende, quindi, la corresponsione degli interessi nella misura legale, salvo che l’avvocato creditore dimostri il maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, il quale, può, peraltro, ritenersi esistente in via presuntiva, sempre che il creditore alleghi che, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali”.

Nella specie, anche ai fini del riconoscimento del maggior danno, in via presuntiva, dato dall’eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali, è mancata qualsiasi richiesta ed allegazione in tal senso.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 10.000,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020

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