Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28636 del 15/12/2020

Cassazione civile sez. I, 15/12/2020, (ud. 09/10/2020, dep. 15/12/2020), n.28636

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18250/2016 proposto da:

B.M., B.F., P.E.A.,

domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile

della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato

Monaco Ezio, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Unicredit s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via di San Valentino n. 21,

presso lo studio dell’avvocato Carbonetti Francesco che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Carbonetti Fabrizio,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Fallimento Personale di M.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1906/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 17/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/10/2020 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott.

NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA, che chiede il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – A.E.G., B.M., B.F., Bo.Gi. e P.A.E. evocavano in giudizio M.L. e la Banca di Roma s.p.a. (poi Unicredit s.p.a.) per sentirli condannare in solido al risarcimento del danno quantificato in complessivi Euro 774.685,34, oltre interessi e rivalutazione. A fondamento delle domande svolte deducevano che nel corso del 1999 M., d’intesa con diversi operatori del settore, aveva dato avvio alla creazione di un nuovo gruppo assicurativo (il Gruppo Mia), operativo nella provincia di Brescia, da costituirsi tramite la raccolta del necessario capitale di rischio. Numerosi soggetti, tra cui gli attori, avevano aderito a tale proposta sottoscrivendo quote di capitale delle future società del gruppo e versando in denaro il proprio conferimento su di un conto corrente appositamente acceso presso la banca convenuta. Il progetto imprenditoriale, però, non aveva avuto esito positivo e, a seguito di indagini svolte dalla Guardia di Finanza, era emerso come tutte le disponibilità presenti sul detto conto fossero state prontamente distratte da M.. La domanda attrice si rivolgeva sia nei confronti di quest’ultimo, quale autore delle indebite appropriazioni, che della Banca di Roma, alla quale era addebitata una condotta negligente; all’istituto di credito era in particolare imputato sia di aver proceduto all’apertura del conto corrente senza le necessarie verifiche circa l’identità e la legittimazione del richiedente, sia di aver consentito a quest’ultimo di disporre a suo piacimento delle somme ivi accreditate nonostante la piena consapevolezza circa la provenienza e la destinazione delle singole rimesse.

Banca di Roma si costituiva, mentre M. rimaneva contumace; nelle more del giudizio spiegava poi intervento volontario il fallimento (OMISSIS) s.a.s..

In esito al giudizio di primo grado, il Tribunale di Milano pronunciava condanna in favore di tutti gli attori, ad eccezione di P.; dichiarava, poi, la propria incompetenza in relazione le domande formulate dalla curatela interveniente.

2. – La pronuncia era impugnata in via principale da Unicredit e, in via incidentale, da P.. Si costituivano A., i B. e Bo..

Con sentenza del 17 maggio 2016 la Corte di appello di Milano accoglieva l’appello principale, rigettando per l’effetto le domande attrici e respingeva quello incidentale.

In estrema sintesi, il giudice distrettuale richiamava la lettera del 20 settembre 1999 inviata alla Banca di Roma da M. – in base alla quale sul conto corrente oggetto di causa dovevano essere versate, ma anche prelevate somme inerenti alla costituzione del gruppo – e rilevava che tanto valeva a dimostrare che i versamenti non potevano ritenersi effettuati a norma degli artt. 2329 c.c., n. 2 o ai sensi dell’art. 2334 c.c., comma 1; osservava, dunque, che non poteva configurarsi alcun obbligo per la banca di garantire l’indisponibilità delle giacenze. Aggiungeva che, non essendo il conto corrente destinato alla raccolta del capitale sociale, le operazioni di versamento e di prelievo compiute dallo stesso M. tra il 1999 e l’agosto 2002 non potevano considerarsi anomale: esse risultavano piuttosto coerenti con le finalità dichiarate ab initio dall’intestatario del conto. La Corte di merito escludeva, inoltre, che alle intercorse operazioni fosse applicabile la disciplina legislativa e regolamentare prevista per le operazioni di sollecitazione all’investimento: osservava, in proposito, come la creazione del nuovo gruppo assicurativo fosse attuata non attraverso l’adesione a una pubblica offerta, quanto piuttosto mediante la conclusione di singoli contratti, con i quali ciascuno degli interessati si obbligava a sottoscrivere quote di capitale delle future società del gruppo; in conseguenza, secondo il giudice distrettuale, la Banca di Roma non poteva considerarsi tenuta a rilevare ipotetiche violazioni delle norme in materia di sollecitazione del pubblico risparmio, essendo mancata, quale presupposto applicativo delle indicate norme, un’offerta pubblica in senso tecnico. La Corte di appello dichiarava quindi assorbito il motivo di impugnazione basato su di un asserito vizio di motivazione e respingeva l’appello incidentale di P., che aveva lamentato la mancata condanna della banca al risarcimento dei danni patrimoniali subiti per la misura di Euro 25.822,84: domanda che il giudice di primo grado aveva respinto in ragione della assenza di prova del pregiudizio sofferto. A quest’ultimo riguardo, la Corte distrettuale rilevava che l’impugnazione incidentale dovesse essere disattesa per le medesime ragioni poste a fondamento dell’accoglimento dell’appello principale e a prescindere, quindi, da ogni considerazione circa la sussistenza o meno del danno lamentato.

3. – Per la cassazione della sentenza di appello sopra indicata ricorrono M. e B.F., nonchè P.E.A.. I motivi di impugnazione sono sette. Resiste con controricorso Unicredit. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Il pubblico ministero ha rassegnato conclusioni scritte instando per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Tutti i motivi di ricorso lamentano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonchè la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto.

Con il primo si deduce che la sentenza impugnata deve ritenersi viziata laddove ha deciso la controversia nonostante controparte non avesse depositato nel termine di legge il proprio fascicolo di causa, contenente, tra l’altro, la procura generale alle liti. Viene rilevato che la mancanza di tale procura non avrebbe consentito alla Corte di merito di decidere l’appello proposto dalla controparte.

Ora, è inammissibile in sede di legittimità l’eccezione nuova, relativa al mancato deposito della procura alle liti del difensore della controparte (Cass. 13 dicembre 1999, n. 13930).

Sotto altro riflesso, occorre considerare che la parte ricorrente non ha dedotto, come avrebbe dovuto, un error in procedendo, ma ha prospettato due diverse censure. Il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non può tuttavia avere ingresso, in quanto l’omesso esame di fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme regolatrici del processo non è riconducibile al vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 quanto, piuttosto, a quello ex art. 360 c.p.c., n. 4, ovvero a quelli di cui ai precedenti numeri 1 e 2, ove si tratti, in quest’ultimo caso, di fatti concernenti l’applicazione delle disposizioni in tema di giurisdizione o competenza (Cass. 8 marzo 2017, n. 5785). Quanto alla “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, essa non è stata punto circostanziata: nel corpo del motivo è fatto solo riferimento, in modo generico e non argomentato, agli artt. 83 c.p.c. e ss., senza nulla chiarire quanto ai precisi termini dell’asserito error juris. Tale errore non potrebbe del resto farsi dipendere dal semplice fatto che la decisione sia stata assunta senza che il fascicolo di parte, in cui era contenuta la procura generale ad lites, fosse stato restituito: e ciò in quanto, ove la costituzione in giudizio abbia luogo senza contestazioni relative al deposito degli atti necessari allo scopo ed all’esistenza e tempestività della procura al difensore, deve presumersi la rituale instaurazione del rapporto processuale se il contrario non risulti dagli atti (Cass. 5 maggio 2011, n. 9921; Cass. 27 febbraio 2004, n. 3998); non è dunque decisivo il fatto che la procura sia assente dall’incartamento processuale, quanto, piuttosto, la circostanza per cui il cancelliere abbia formulato, all’atto della costituzione della parte, un rilievo formale riconducibile all’esercizio dei poteri di controllo affidatigli dall’art. 74 disp. att. c.p.c. (Cass. 19 maggio 2006, n. 11782; Cass. 19 novembre 1999, n. 12858; cfr. pure Cass. 28 febbraio 2006, n. 4507, secondo cui, qualora nella nota di iscrizione a ruolo sia stato indicato il rilascio della procura a margine dell’atto introduttivo ed il cancelliere abbia vistato la nota stessa senza alcun’altra indicazione, deve reputarsi che l’originale dell’atto suddetto effettivamente contenesse la procura al momento della costituzione).

Ebbene, di un tale profilo gli istanti si disinteressano totalmente; essi avrebbero dovuto dolersi non già del fatto che la decisione fosse stata assunta senza acquisire la procura, ma della irregolare costituzione della parte, siccome attuata senza deposito della procura stessa.

Il primo motivo è dunque inammissibile.

2. – Col secondo mezzo viene dedotto che la motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi viziata per l’omesso esame degli estratti conto bancari e delle risultanze dei giudizi penali relativi alla vicenda occorsa, oltre che per aver violato o falsamente applicato le norme in tema di interpretazione del contratto, “ed in particolare gli artt. 1362 ss. c.c.”.

Il motivo è inammissibile.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Nella fattispecie gli istanti si sono limitati al vago richiamo ad elementi probatori (estratti conto bancari e non meglio precisate risultanze penali) senza fornire alcuna delle richiamate indicazioni.

E’ risaputo, del resto, che sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469).

Altrettanto generica appare, inoltre, la censura riferita alla violazione o falsa applicazione di imprecisate norme ermeneutiche. Al di là del difetto di autosufficienza, va rilevato, in proposito, che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381). Infatti, la censura vertente sulla violazione dei canoni interpretativi non può risolversi in una critica del risultato interpretativo, raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728; Cass. 4 giugno 2010, n. 13587; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690; Cass. 2 maggio 2006, n. 10131).

Su di un piano generale, poi, è da rammentare che la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (così, da ultimo, Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097).

3. – Il terzo motivo, intitolato come i precedenti, censura la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la stessa aveva escluso la responsabilità di controparte in assenza di prova circa l’esistenza di società già costituite all’atto dell’accensione del conto corrente bancario per cui è causa.

Valgono, qui, le considerazioni svolte nel trattare il secondo motivo.

In particolare, allorquando gli istanti assumono (pag. 32 del ricorso) che i versamenti eseguiti erano “finalizzati esclusivamente a formare il capitale sociale delle costituende società, allorchè ne fossero state perfezionate le formalità”, essi non fanno che proporre una ricostruzione della vicenda alternativa a quella fatta propria dalla Corte di appello, la quale ha ritenuto, sulla base di una lettura del materiale probatorio non sindacabile in questa sede, che nella impegnativa di sottoscrizione gli interessati si erano limitati a dichiarare di voler partecipare, in qualità di azionisti, alla futura costituzione delle società (che quindi erano inesistenti allorquando venne ad instaurarsi il rapporto di conto corrente), per modo che il versamento da loro eseguito doveva ritenersi attuato a garanzia delle obbligazioni assunte con l’impegnativa stessa (cfr. sentenza impugnata, pag. 13).

4. – Col quarto motivo viene imputato alla sentenza impugnata di aver escluso la responsabilità della banca anche della fase temporale in cui, costituitesi le società Mia Vita s.p.a. e Mia Danni s.p.a., erano stati aperti i diversi conti correnti ad esse intestati.

Pure tale motivo è inammissibile.

Oltre alle carenze sul piano dell’autosufficienza, mette conto di rimarcare come la Corte di merito abbia preso in considerazione i versamenti operati dai ricorrenti su conti correnti diversi da quelli intestati alle società Mia Vita e Mia Danni: tant’è che, con riferimento a questi ultimi, essa ha evidenziato che quando, “in seguito” (marzo 2000), vennero aperti detti conti correnti, “la banca provvide ad apporre sui depositi il vincolo di indisponibilità, siccome previsto dall’art. 2329 c.c.” (cfr. pag. 15 della pronuncia). La sentenza di merito nega, dunque, quanto parrebbe dedotto – in modo per la verità poco perspicuo – col motivo di ricorso; i versamenti dei ricorrenti, in base all’accertamento di fatto del giudice del merito, qui non censurabile, non sono stati posti in essere dopo l’apertura di un conto corrente “dedicato” (pag. 36 del ricorso), e cioè dopo l’accensione del conto (o dei conti) deputato (o deputati) a raccogliere i tre decimi dei conferimenti in denaro di cui all’art. 2334 c.c., nel testo all’epoca vigente.

A pag. 37 del ricorso gli istanti paiono, poi, formulare un altro rilievo. Rilevano, cioè, che la banca avrebbe potuto accertare che i versamenti non erano stati resi indisponibili neppure dopo la formale costituzione delle richiamate società e sembrano assumere che i versamenti dovessero essere qualificati come versamenti in conto aumento di capitale (richiamano, infatti, l’art. 2439 c.c., nel testo allora in vigore). Ora, a prescindere dalla scarsa chiarezza della doglianza, la sentenza impugnata non si occupa della questione ed era pertanto onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta sua deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430).

Altrettanto è a dirsi per i temi affrontati a pag. 41 del ricorso (ove è menzione della documentazione riferita a scoperture contabili): tali censure sono però inammissibili anche perchè gli istanti non spiegano a quali delle ipotesi enucleate dall’art. 360 c.p.c. esse siano riconducibili – apparendo anzi pertinenti al giudizio di fatto demandato al giudice del merito -, e perchè appaiono del tutto carenti di autosufficienza.

5. – Col quinto motivo la pronuncia impugnata è censurata per aver essa escluso la responsabilità di controparte “non ravvisandovi alcuna violazione della normativa in tema di sollecitazione del pubblico risparmio”.

Il motivo è inammissibile.

Esso non aggredisce efficacemente la sentenza impugnata nel fulcro motivazionale che qui interessa, e cioè nella seguente complessa proposizione: da un lato, la creazione del nuovo gruppo assicurativo non ebbe luogo attraverso una pubblica offerta, non ravvisandosi, nella fattispecie, una comunicazione riconducibile alla previsione dell’art. 1, lett. t) t.u.f.; dall’altro, la banca, in tale contingenza, non poteva dirsi tenuta a rilevare eventuali violazioni delle norme in materia di sollecitazione del pubblico risparmio.

Il motivo, poi, affronta una questione (basata su asseriti obblighi di identificazione del correntista e sull’acquisizione della documentazione atta a chiarire la natura dell’ente per conto del quale agiva M.) che è inammissibile, in quanto nuova. Non è chiarito, del resto, nemmeno in questo caso, quale sia, tra quelli enucleati dall’art. 360 c.p.c., il vizio denunciato.

6. – Il sesto mezzo lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto superfluo l’esame del quarto motivo di appello in quanto assorbito dai precedenti.

Anche tale motivo è inammissibile.

Non si vede quale interesse abbiano i ricorrenti per cassazione a dolersi dell’assorbimento di un motivo di appello proposto dalla controparte. Peraltro, il vizio d’omessa pronuncia, configurabile allorchè manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, deve essere escluso, pur in assenza di una specifica argomentazione, in relazione ad una questione implicitamente o esplicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza (Cass. 16 gennaio 2016, n. 1360; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4079).

7. – Col settimo motivo gli istanti si dolgono che la sentenza impugnata abbia respinto l’appello incidentale di P., sia pure con motivazione diversa rispetto la sentenza di primo grado.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorso non espone, in modo chiaro ed esauriente, la vicenda sostanziale e processuale del nominato istante: solo per tale ragione il motivo difetta della necessaria specificità.

La censura è altresì carente perchè non spiega quale sia il fatto decisivo di cui sarebbe mancato l’esame o le norme di diritto asseritamente violate o malamente applicate.

La doglianza si risolve, infine, nella sollecitazione di una rinnovata e non consentita valutazione dei fatti esaminati dal giudice del merito.

8. – In conclusione, il ricorso è da dichiarare inammissibile.

9. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE

dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 9 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020

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