Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28628 del 07/11/2019

Cassazione civile sez. III, 07/11/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 07/11/2019), n.28628

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16419/2018 proposto da:

N.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59,

presso lo studio dell’avvocato ALESSIO DI AMATO, rappresentato e

difeso dall’avvocato DIANA ANGELA PUNZI;

– ricorrente –

contro

M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO

PACELLI 14, presso lo studio dell’avvocato GIAN MARIA FRATTINI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANGELO MAIELLO;

MA.TO., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER 53,

presso lo studio dell’avvocato GIAMPAOLO ROSSI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MAURIZIO MONINA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2223/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha

concluso per il rigetto del ricorso, che ha chiesto il rigetto del

ricorso.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 28 maggio 2018 N.A. ricorre avverso la sentenza numero 2223-2018 della Corte d’appello di Roma depositata il 7 aprile 2018, notificata a mezzo PEC (di cui è stata fornita copia munita di attestazione di ricezione) che in data 9 aprile 2018, pronunciata in una controversia promossa dal ricorrente, all’epoca presidente della sezione lavoro del tribunale di Salerno, nei confronti dell’avvocato M.L. e del collega di sezione Dott. Ma.To., per ottenere il risarcimento del danno per l’illecito di diffamazione rilevato dalla trascrizione di un’ intercettazione telefonica, pervenuta al magistrato ex art. 415 bis c.p.p., il 29 dicembre 2003, riguardante un colloquio registrato in data 6 luglio 2002 tra l’avvocato M. e altri legali, patrocinatori in un giudizio assegnato al ricorrente, ove si faceva cenno al fatto che il Dottor Ma., suo collega di sezione, si sarebbe spinto a meravigliarsi del fatto che le parti che avevano fatto ricorso “non si decidono a denunciare N. in quanto quest’ultimo ha fatto ordinanze che fanno schifo e rinvia sempre”. Nel giudizio di 1^ grado il giudice investito della controversia, dopo aver ritenuto matura la causa della decisione allo stato degli atti, senza pronunciarsi sulle prove orali e per interrogatorio formale del ricorrente, rigettava la domanda attorea.

2. La sentenza veniva impugnata dal ricorrente innanzi alla Corte d’appello di Salerno, la quale rilevava in limine il difetto di notifica nei confronti di uno degli appellati, l’avvocato M.L., concedendo termine all’appellante per il rinnovo della notifica; la causa, dopo alcuni rinvii, veniva rimessa alla Corte d’appello di Roma per competenza, presso la quale veniva riassunta. La Corte d’appello pronunciava pertanto l’inammissibilità dell’appello nei confronti dell’avv. M. per non aver l’appellante provato di avere provveduto a notificare l’atto di appello nei termini, alla prima udienza successiva al rilievo di esito negativo dell’atto di notifica dell’appello, e, dopo avere ritenuto le due posizioni scindibili, nel merito confermava la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria nei confronti del Dottor Ma.To., ritenendo non provati i fatti e inammissibili le istanze istruttorie reiterate in sede di appello, non riportate nelle conclusioni del giudizio di primo grado.

3. Il ricorso è affidato a 4 motivi di cui 2 inerenti alla pronuncia che ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello nei confronti di M.L. per difetto di notifica, e i restanti 2 inerenti alla pronuncia che ha confermato il rigetto della domanda nei confronti di Ma.To.. Le parti intimate hanno notificato separati controricorsi nei termini indicati in epigrafe per resistere, preliminarmente denunciando l’inammissibilità del ricorso per assemblaggio. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte. Le partì hanno prodotto memorie. Il Dott. Ma. ha chiesto la pronuncia di condanna del ricorrente per lite temeraria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. QUESTIONE PRELIMINARE. Preliminarmente va considerata l’eccezione rilevata dalle parti resistenti in ordine all’inammissibilità del ricorso per inosservanza del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, essendo mancata un’ esposizione sommaria dei fatti di causa mediante l’elaborazione di una sintesi dello svolgimento delle diverse fasi del processo, funzionale alla piena comprensione e valutazione dei motivi di ricorso, bensì trascrivendo, in 14 pagine, con la tecnica del ” copia e incolla”, interi brani tratti dagli atti processuali dei precedenti gradi di giudizio, senza alcun intervento di selezione o di sintesi.

4.1. L’eccezione è infondata. Questa Corte con sentenza delle sezioni unite numero 5698-2012 ha ribadito che ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero contenuto di atti processuali è del tutto superflua e comunque non idonea a soddisfare la necessità dell’esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte di legittimità, dopo averla indotta a leggere tutto, anche quello di captare quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi del ricorso. Nel caso di specie, nello svolgimento del processo, nonostante la prolissità dell’esposizione, non è mancato il momento di “sintesi funzionale” rispetto ai motivi che, per molti aspetti, meritavano una trascrizione integrale degli atti pervenuti al magistrato, data la delicatezza della questione, coinvolgente attività e giudizi espressi da avvocati e un magistrato sul conto del presidente di sezione nel corso di un procedimento di lavoro, che in ragione di tale vicenda subita in tarda età è caduto in una forma di grave depressione.

5. I MOTIVI. I primi due motivi vanno trattati congiuntamente. Essi infatti riguardano puri aspetti processuali inerenti alla pronuncia di inammissibilità dell’appello per il rilievo di omessa notifica nei termini di cui all’art. 327 c.p.c., nei confronti di uno degli appellati, in tesi pronunciata nonostante la dimostrazione dei tentativi di notifica per via postale effettuati da parte dell’appellante, in relazione a un giudizio che, sempre in tesi, avrebbe dovuto svolgersi necessariamente anche nei confronti di quest’ultimo, integrando un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Per tale motivo, si denuncia che la pronuncia di inammissibilità dell’appello si ponga in violazione dell’art. 149, in relazione all’art. 327 (primo motivo) e dell’art. 331 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost. (secondo motivo), ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

6. I primi due motivi sono infondati.

6.1. La Corte d’appello ha ritenuto non dimostrato che il primo ordine di rinnovazione della notifica sia stato adempiuto e comunque irrituale l’ulteriore facoltà di reiterazione della notifica concessa dalla Corte d’appello di Salerno. Non vertendosi in un’ipotesi di applicabilità dell’art. 331 c.p.c., non essendovi un rapporto di dipendenza tra le due cause, in relazione a una ipotesi di responsabilità solidale per il risarcimento dei danni da reato come previsto dall’art. 187 c.p., l’inottemperanza dell’ordine di rinnovazione della notifica ha prodotto l’effetto decadenziale solo nei confronti del legale chiamato in responsabilità.

6.2. Con il primo motivo il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Salerno, dopo avere rilevato che un primo tentativo di notifica dell’atto di appello non era andato a buon fine, alla prima udienza del 23.2.2010 concedeva un nuovo termine per la rinnovazione della notificazione ma, alla successiva udienza tenuta innanzi alla Corte d’appello di Roma (divenuta competente in seguito al trasferimento del ricorrente a un tribunale ricadente nel distretto della Corte d’appello di Salerno), la Corte, in sede decisoria, aveva ritenuto l’irritualità della concessione del secondo termine di rinvio. Secondo il ricorrente, con la consegna dell’atto di appello all’ufficiale giudiziario in data 24 marzo 2010, in adempimento di quanto disposto dalla Corte territoriale alla seconda udienza del 23 febbraio 2010, si era perfezionata, in termini, la notificazione dell’impugnazione, stante il principio della scissione degli effetti del procedimento notificatorio tra notificante e notificato. L’assunto è, dunque, nel senso che la certificazione di deposito dell’appello da notificare presso l’UNEP della Corte d’appello di Napoli sarebbe idoneo a certificare l’avvenuta notifica dell’atto di appello e che la concessione di un nuovo termine da parte della Corte d’appello di Salerno avrebbe impedito l’effetto di decadenza rilevato invece dalla Corte d’appello successivamente investita della controversia.

6.3. Si osserva che, da un lato, la certificazione prodotta di deposito dell’appello in corso di notifica non è in grado di attestare che il procedimento notificatorio si è regolarmente concluso, essendo irrilevante la mera presentazione dell’atto da notificare all’organo preposto (cfr. Cass. S.U. 14124/2010). Ne consegue che non può essere in alcun modo invocato il menzionato principio della scissione degli effetti della notificazione che presuppone, comunque, un procedimento notificatorio regolarmente concluso. Dall’altro, un eventuale nuovo termine concesso dal giudice, in carenza della prova che il procedimento notificatorio sia stato coltivato determinando la continuità degli effetti del procedimento avviato, non può avere l’effetto “sanante” invocato, potendo sussistere solo a determinate condizioni. Il principio, più volte affermato in sede di legittimità, richiede infatti che sia data una “dimostrazione puntuale e rigorosa, stante l’eccezionalità della fattispecie derogatoria” del fatto impeditivo a sè non imputabile (per tutte, v. Cass. SSUU 3818/2009; Cass. n. 1180/2006), affinchè possa essere concesso un ulteriore termine per la rinnovazione della notifica, dimostrazione ritenuta mancante da parte del Giudice di secondo grado. Difatti, in sede di verifica giudiziale della tempestiva notifica dell’appello occorre che la parte dimostri di essersi attivata senza soluzione di continuità nel procedere alla notifica dell’atto di impugnazione.

6.4. Ed invero, il principio di attenuazione della improrogabilità dei termini per l’impugnazione, affermato dalla giurisprudenza alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata delle norma ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., sia sotto il profilo della irragionevole equiparazione di situazioni diverse, che sotto quello della ingiustificata compressione del diritto di difesa della parte incolpevole, esige pur sempre una dimostrazione puntuale e rigorosa della verificazione dell’accadimento legittimante la concessione del nuovo termine vale a dire della dipendenza del mancato completamento del procedimento notificatorio da un fatto che esula oggettivamente dai poteri di impulso della parte interessata -, stante l’eccezionalità della fattispecie derogatoria. Per converso, nel caso in esame, l’evenienza in parola non solo non risulta in alcun modo dimostrata alla prima richiesta di rinvio, ma neppure semplicemente dedotta. Ne consegue che la pronuncia di inammissibilità è riferibile al rilievo della mancata evidenza di un’ attività dinamica e attiva esperita nel corso del procedimento di notificazione, e a una corretta applicazione dei principi sopra detti, atteso che l’ulteriore rinvio concesso dal giudice non può avere effetto sanante di una decadenza processuale già verificatasi, nè l’attività di notifica, rientrando tra gli indefettibili oneri di parte, necessita di autorizzazione del giudice, dovendo quest’ultimo scrutinare sino all’ultima fase del processo che tale attività abbia avuto effetto senza interruzioni di sorta.

6.5. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’erroneità della ritenutà scindibilità dell’atto di appello con riguardo alla domanda rivolta al magistrato, in tesi parte concorrente nella commissione dell’illecito.

6.6. Tuttavia deve preliminarmente rilevarsi, come messo in rilievo dal Pubblico Ministero, che il ricorrente non ha interesse all’accoglimento del motivo, posto che se in ipotesi esso fosse fondato, in base a quanto sopra osservato condurrebbe alla declaratoria di inammissibilità dell’atto di appello anche nei confronti di quest’ultima parte appellata, in un procedimento inscindibile non potendo l’atto notificato a una parte avere effetto sanante nei confronti dell’altra parte che non ha ricevuto una regolare notificazione.

7. Con il terzo motivo il ricorrente deduce questioni attinenti al merito della decisione assunta nei confronti del magistrato, collega del ricorrente, e precisamente impugna la pronuncia di rigetto della domanda risarcitoria per mancata prova dell’illecito, sull’assunto che le deduzioni istruttorie inerenti alla prova orale, non accolte dal primo giudice che aveva ritenuto la causa matura per la decisione, non dovessero essere reiterate in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, essendo mancata una decisione del giudice sulla loro ammissibilità o rilevanza, e pertanto non potessero essere considerate inammissibili in sede di impugnazione, come invece ritenuto dalla Corte d’appello.

7.1. Il motivo è infondato. La Corte ha concluso in conformità a un orientamento di legittimità che appare costante e non vi è ragione di disattendere (v. Cass. sez VI-3,3229/2019; Cass. Sez. III, 19352/2017), in base al quale dalla mancata reiterazione delle istanze istruttorie disattese in sede di precisazione delle conclusioni discende una presunzione di abbandono delle stesse, sempre sulla base del principio che non ammette rimessioni in termini a favore di una parte che non si è dimostrata processualmente attiva nel coltivare le proprie istanze, domande o eccezioni. Nè si può correttamente ritenere che la presunzione di abbandono possa essere vinta dalla espressa volontà della parte esplicitata solo in sede di appello, una volta resasi conto del significato di rigetto dell’ordinanza che ha dichiarato la controversia matura per la decisione e superflue le istanze istruttorie. Difatti l’ordinanza interlocutoria resa dal giudice in corso di causa non è in grado di indirizzare o pregiudicare la decisione della causa in un senso o nell’altro, e la valutazione di superfluità della prova orale ben può essere smentita nella fase decisionale, dal che deriva l’onere di coltivare le proprie istanze ed eccezioni in sede di precisazione delle conclusioni, pena la presunzione di abbandono delle medesime. Tale orientamento è conforme al principio del giusto contraddittorio sancito a livello costituzionale, posto che, nell’attuale sistema processuale, si intende premiare la parte attenta e attiva e in senso lato sanzionare, invece, la parte che rimane indifferente o inerte rispetto all’andamento del processo (cfr. Cass. sez. 1, n. 10569/2004; Cass. sez. 3, n. 8576/2012; Cass. Sez. 1, n. 19613/2017).

7.2. Pertanto, nella fattispecie, ha rilievo che il ricorrente non ha allegato da quali fatti tale volontà dovrebbe dedursi, avendo invece invocato solo la reiterazione delle istanze in grado di appello, mentre la volontà di insistere deve emergere dagli atti conclusivi del procedimento di primo grado, essendosi là perfezionata la mancata reiterazione delle istanze non accolte e la conseguente presunzione di abbandono. Neanche appare chiara, infine, la rilevanza delle produzioni documentali ai fini della prova dell’addebito di responsabilità, anch’esse ritenute irrilevanti dai giudici di merito, posto che l’addebito si fondava sui colloqui privati, di natura diffamatoria, intrattenuti dal magistrato, collega del ricorrente, con l’avvocato convenuto o con altre persone, mentre l’intercettazione prodotta contiene una prova de relato, non in grado di dimostrare, da sola, l’effettiva commissione dell’illecito da parte del magistrato.

8. Con il quarto motivo il ricorrente deduce l’erroneità della decisione di accoglimento della richiesta di compensazione delle spese del primo grado da parte dell’appellato Ma., nonostante il rigetto della sua domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., giudizio. Si tratta invero di una decisione che non si pone in violazione del principio di soccombenza, posto che la parte deducente, risultata soccombente nel giudizio di primo e secondo grado, non ha interesse a interloquire, risultando la parte processualmente tenuta al pagamento delle spese processuali. Il rigetto della domanda per lite temeraria, difatti, attenendo a questioni inerenti a come è stato condotto il processo e alla manifesta infondatezza della pretesa di una parte, non comporta un diverso giudizio sulla soccombenza. Data la delicatezza delle questioni trattate, anche in tale sede non si ravvisano profili di lite temeraria prospettati dal resistente m. che ha chiesto la condanna del ricorrente per lite temeraria.

9. Conclusivamente la Corte rigetta il ricorso, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, a favore delle parti separatamente resistenti, risultate sostanzialmente vittoriose.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 2.700,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge a favore di ciascuna parte separatamente resistente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2019

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