Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28627 del 08/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 08/11/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 08/11/2018), n.28627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6621/2017 proposto da:

J.K.J., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORVIETO N.

1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VENTURA, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARIA FEDERICA ASTORRI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1447/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

emessa il 25/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA

ACIERNO.

Fatto

RAGIONI DELLA DECISONE

La Corte d’Appello di Ancona ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino straniero J.K.J., cittadino gambiano.

A sostegno della decisione assunta, la Corte ha confermato la valutazione di vaghezza e contraddittorietà estrema nel racconto del

richiedente rilevando, in particolare, che lo stesso prima sottoscritto una dichiarazione nella quale riferiva di essersi allontanato dal Gambia per ragioni economiche e, solo successivamente, mutava versione riferendo di essere fuggito per paura della pratica del rito della circoncisione. Tale modifica è stata ritenuta strumentale in quanto non giustificata. Peraltro, pur volendo aderire alla contrarietà rispetto al rito della circoncisone, il racconto è rimasto generico in ordine al pericolo di essere ucciso dagli altri abitanti del villaggio.

Veniva inoltre osservato che non era stata dedotta l’esistenza di una situazione riconducibile al paradigma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e, in relazione al permesso umanitario non è stata dimostrata la riconducibilità ad una situazione soggettiva di grave lesione dei diritti umani, o di vulnerabilità peculiari.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione il cittadino straniero. Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Nel primo motivo, viene dedotta l’omessa considerazione della natura religiosa delle persecuzioni denunciate, ancorchè riconosciute sussistenti, e l’errata valutazione di contraddittorietà della narrazione del ricorrente, anche in relazione al disturbo post traumatico da stress di cui generalmente soffre chi fugge da situazioni quale quella narrata. Tale sindrome spiega la parziale contraddittorietà dei racconti.

Con il secondo motivo si censura la decisione della Corte d’appello nella parte in cui ha fondato il proprio convincimento sul solo dato della “riferibilità soggettiva” del rischio, senza approfondire il contesto politico e ordinamentale del Gambia, ove e presente un clima di sostanziale e continuata violazione dei diritti umani.

Il terzo motiva ha ad oggetto la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in quanto la Corte d’appello ha erroneamente equiparato i presupposti della protezione sussidiaria a quelli della protezione umanitaria, così mancando di accertare la sussistenza di tale ultima misura alla luce della dedotta situazione di vulnerabilità personale.

I primi due motivi possono trattarsi congiuntamente in quanto in entrambi viene dedotta l’erronea valutazione della credibilità soggettiva del richiedente e il mancato esercizio da parte del giudice dei propri poteri istruttori officiosi rispetto al contesto sociale, politico e ordinamentale del Gambia.

Essi sono inammissibili.

La Corte d’Appello non ha ritenuto credibile la riconduzione al soggetto richiedente delle persecuzioni per motivi religiosi, ma non ha posto in dubbio l’oggettiva esistenza del problema. Inoltre, il profilo relativo all’influenza del disturbo post traumatico da stress costituisce una nuova questione di fatto non precedentemente dedotta.

Il terzo motivo è altresì inammissibile in quanto la Corte d’Appello ha specificamente motivato rilevando un deficit allegativo.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. La condanna alle spese segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in Euro 2.100 per compensi, in Euro 100,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2018

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