Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28616 del 07/11/2019

Cassazione civile sez. III, 07/11/2019, (ud. 11/07/2019, dep. 07/11/2019), n.28616

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4527-2018 proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI SPA, in persona del Dir. S.G.

nella sua qualità di Responsabile del Settore Dipartimentale

Legale, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA UNITA’ 13, presso lo

studio dell’avvocato LUISA RANUCCI, rappresentata e difesa

dall’avvocato ELVIO CRISPINO;

– ricorrente –

contro

GENERALI REAL ESTATE SOCIETA’ DI GESTIONE DEL RISPARMIO SPA, nella

sua qualità di società di gestione del fondo comune di

investimento immobiliare, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

REGINA MARGHERITA, 158, presso lo studio dell’avvocato CATERINA DE

TILLA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2393/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 28/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/07/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato RICCARDO MAGGIONI per delega;

udito l’Avvocato MARIA ANDRETTA per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. ricorre per la cassazione della sentenza n. 35/2017 della Corte d’Appello di Milano, pubblicata il 28 luglio 2017, formulando quattro motivi.

Resiste con controricorso Generali Real Estate.

Entrambe le parti si sono avvalse della facoltà di depositare memorie.

La ricorrente assume di aver stipulato tre contratti di locazione con Assicurazioni Generali S.p.A.: a) i primi due aventi decorrenza dall’1 maggio 2001 e dall’1 febbraio 2002, relativi a due uffici di mq 716 e mq 82 siti entrambi al quarto piano dello stabile di (OMISSIS); b) il terzo riguardante l’ufficio di mq 100 al piano terra dello stesso edificio, con decorrenza 1 luglio 2002.

Il primo contratto conteneva una clausola che riconosceva al conduttore la facoltà di recedere anticipatamente a decorrere dall’1 maggio 2004 con preavviso di almeno sei mesi; il terzo contratto prevedeva anch’esso una clausola di recesso anticipato “contestualmente al contratto già in corso, intestato a Banca Monte dei Paschi di Siena al quarto piano, stipulato l’1 maggio 2001”.

La Generali Real Estate, per conto della locatrice, con lettera del 27 dicembre 2011, intimava disdetta dal primo contratto per la naturale scadenza del 30 aprile 2013; la conduttrice manifestava, con lettera raccomandata del 10 dicembre 2012, la volontà di recedere anticipatamente dal terzo contratto con effetto dal 20 giugno 2013.

In data 7 febbraio 2013 Generali Real Estate contestava l’illegittimità di tale recesso, perchè la facoltà di sciogliersi anticipatamente dal terzo contratto avrebbe dovuto essere esercitata contestualmente al recesso dal primo contratto di locazione relativo agli immobili al quarto piano e, quindi, rifiutava la riconsegna del bene locato offerta dalla conduttrice.

Intanto, le parti in causa convenivano ed effettuavano il rilascio entro la fine di maggio 2013 degli immobili al quarto piano, già oggetto di disdetta.

Il verbale di rilascio prevedeva che la conduttrice per altri sessanta giorni avrebbe conservato il diritto di utilizzo del locale contenente i quadri elettrici e trasmissione dati dell’immobile sito al piano terra, oggetto del terzo contratto, per cui è causa e che venissero rimossi il generatore elettrico con il relativo serbatoio che alimentava i gruppi di continuità di emergenza sia degli uffici al quarto piano sia di quelli al piano terra.

La conduttrice dal mese di giugno 2013 sospendeva il pagamento dei canoni di locazione e degli oneri accessori relativi al terzo contratto.

Con atto di citazione notificato in data 9 aprile 2014, Generali Italia Real Estate intimava alla Banca conduttrice sfratto per morosità con contestuale richiesta di convalida e di emissione di decreto ingiuntivo per canoni ed accessori scaduti nonchè per il pagamento dell’indennità di occupazione ed oneri accessori fino all’effettivo rilascio dell’immobile per cui è causa, con richiesta di accertamento della risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell’art. 1456 c.c. o, in subordine, ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c.

La conduttrice si opponeva, eccependo il collegamento del contratto dedotto in giudizio con quello stipulato l’1 maggio 2011 già vigente tra le parti e l’insussistenza della morosità, atteso che il rapporto locativo si era legittimante risolto per effetto del recesso anticipato da essa esercitato in virtù di apposita clausola contrattuale.

In data 24 giugno 2014 veniva effettuato un ulteriore sopralluogo da incaricati delle parti, all’esito del quale Generali Real Estate rifiutava la riconsegna del bene, asserendo che i locali fossero stati alterati rispetto alle condizioni in cui erano stati concessi in locazione.

Disposto il mutamento di rito, nelle more del procedimento, veniva accolta la richiesta di accertamento tecnico preventivo; prima della sua esecuzione le parti raggiungevano un accordo e, per l’effetto, l’immobile veniva riconsegnato il 6 maggio 2015.

Il procedimento proseguiva per le richieste di condanna al pagamento dei canoni per il periodo posteriore al recesso della Banca e fino alla data di riconsegna dell’immobile.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 13228/16, accoglieva la domanda attorea, dichiarava risolto per inadempimento il contratto di locazione stipulato l’1 luglio 2002 e condannava la banca ricorrente al pagamento in favore della locatrice di tutti i canoni insoluti dalla proposizione del giudizio fino al 6 maggio 2015, al netto della contabilizzazione dei pagamenti parziali effettuati nelle more dalla banca convenuta.

In particolare, il giudice di prime cure, in considerazione del fatto che la conduttrice aveva manifestato la sua volontà di recedere anticipatamente dal terzo contratto dopo quasi un anno dallo scioglimento del primo, riteneva che ciò avesse fatto venir meno la contestualità dello scioglimento dei due contratti per l’esercizio del diritto di recesso richiesta dalla clausola di cui alla lettera f) inserita nel terzo contratto.

La decisione veniva impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di Milano dall’odierna ricorrente, la quale eccepiva che il giudice di prime cure avesse posto a fondamento della propria decisione una questiòne rilevata d’ufficio, concernente la ritenuta mancanza di tempestività della comunicazione di recesso della società locataria rispetto alla disdetta della locatrice per l’immobile sito al quarto piano e contestava le statuizioni con cui erano state disattese la domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento della locatrice, l’eccezione di inadempimento nonchè l’omessa pronuncia sulla illegittimità del rifiuto della locatrice di ricevere l’immobile, anche dopo la scadenza naturale del contratto.

Generali Real Estate, con appello incidentale condizionato, chiedeva la liquidazione degli interessi convenzionali di mora.

La Corte d’Appello, con la sentenza qui impugnata, rigettava il gravame principale, accoglieva quello incidentale e condannava l’appellante alla rifusione delle spese di lite.

Il giudice territoriale, interpretando la clausola di cui alla lettera f) del contratto oggetto di controversia, riteneva che da essa emergesse inequivocabilmente la volontà delle parti di “attribuire a MPS la facoltà di recedere da questo contratto contestualmente con il recesso esercitato con riguardo al Primo contratto (…)” e che ” anche a voler estendere, come ritenuto dal primo Giudice, l’applicabilità di tale pattuizione al caso del recesso esercitato dal conduttore contestualmente all’invio della disdetta da parte del locatore, sarebbe stato pur sempre necessario, ai sensi della citata previsione contestuale, la contestualità tra gli eventi”; aggiungeva che la contestualità implica un insieme dal punto di vista temporale; non ravvisava, co me invece preteso dall’appellante, “elementi tali da indicare la limitazione del significato dell’avverbio contestualmente ad una mera correlazione tra gli eventi, da valutarsi con riguardo al momento non dell’invio del recesso, ma a quello, diverso, della sua efficacia, o tali da evidenziare contestualità tra l’effettiva cessazione di efficacia del contratto per gli uffici al Quarto piano e di quello relativo al piano terreno, o una parificazione, ai fini della contestualità, tra recesso e disdetta, nel senso di consentire l’esercizio del recesso in caso di disdetta di Generali dal c.d. Primo contratto”.

Negava, in aggiunta, che dalla produzione documentale emergesse un collegamento funzionale tra il contratto avente ad oggetto l’ufficio al piano terra e quello relativo agli uffici posti al quarto piano; riteneva che tale esclusione trovasse conferma nell’accordo sul rilascio dei locali oggetto del Primo e del Secondo contratto, risolto consensualmente, che nulla prevedeva in ordine all’efficacia del c.d. Terzo, non valendo a confutare tale conclusione la concessione di una disponibilità meramente transitoria del locale tecnico a favore della banca; escludeva che la banca conduttrice avesse provato di aver dato corso ad un’offerta reale dell’immobile locato ai sensi degli artt. 1209 e 1216 c.c. o, comunque, ad un’offerta seria ed inequivocabile, e/o di aver ricevuto un rifiuto della locatrice alla riconsegna dei locali, risultando ex actis l’invito scritto alla liberazione dei locali; accoglieva la domanda della locatrice di pagamento degli interessi convenzionali di mora, previsti dall’art. 3 del terzo contratto.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per error in procedendo in relazione all’art. 101 c.p.c., comma 2, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

La Corte territoriale aveva respinto l’analoga eccezione già formulata in appello ritenendo che il Tribunale avesse deciso la controversia non in base ad una questione rilevata d’ufficio non segnalata dalle parti, bensì in relazione al quadro del contendere delineato dalle circostanze di fatto allegate e alle tesi difensive svolte dalle parti, giungendo ad enucleare l’interpretazione del contratto ritenuta conforme alla volontà delle parti quale emergente dalle pattuizioni delle parti.

La ricorrente insiste sul fatto che la controversia fosse stata decisa in base ad una questione rilevata d’ufficio e lamenta la violazione del contraddittorio che le avrebbe impedito di far rilevare che il recesso dalla conduzione del terzo contratto era stata) comunicato il 10 febbraio 2012 cioè solo due mesi dopo il ricevimento della disdetta.

Il motivo è infondato.

Che non ci sia stata alcuna lesione del principio del contraddittorio emerge dalla stessa prospettazione della ricorrente, la quale, insistendo nella censura e richiamando la statuizione sul punto della sentenza di primo grado, attribuisce rilevanza ad un passaggio dell’iter argomentativo del giudice di prime cure, da cui si evince non già che la decisione sia stata assunta sulla scorta di una questione rilevata d’ufficio, ma che il giudice si sia limitato a far propria una interpretazione della clausola contrattuale relativa al recesso anticipato dal terzo contratto, con riferimento al requisito della contestualità, diversa da quella formulata dalle parti. Non vi è stato, dunque, alcun indebito allargamento del thema decidendum, come correttamente rilevato dal giudice d’Appello, perciò è da escludersi che il giudice di prime cure abbia emesso una decisione a sorpresa in violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio.

L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, rafforzato dall’aggiunta del comma 2 all’art. 101 c.p.c. ad opera della L. n. 69 del 2009, si estende solo alle questioni di fatto, che richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti, o alle eccezioni rilevabili d’ufficio, e non anche ad una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito.

Per di più, è appena il caso di ricordare che alla banca ricorrente non gioverebbe nemmeno la prospettazione formulata, atteso che l’interesse ad agire e ad impugnare ex art. 100 c.p.c. deve essere concreto e attuale e non tendere alla mera teorica esattezza tecnico-giuridica del prodotto giurisdizionale e alla correttezza dell’iter che lo ha preceduto; ciò vuol dire che in tanto la parte può dolersi del rilievo d’ufficio fatto “a sorpresa” solo in motivazione in quanto dimostri (e ciò non è avvenuto nel caso in oggetto) che, se il giudice avesse sollecitato le parti a prendere posizione sulla questione asseritamente rilevata d’ufficio, avrebbe potuto svolgere nuove attività probatorie e/o assertive in punto di fatto (e non mere difese) (cfr. Cass. 19/05/2016, n. 10353).

La conduttrice adduce che se il giudice non avesse posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio avrebbe potuto evidenziare la sostanziale contestualità del recesso avuto riguardo allo svolgimento complessivo della vicenda negoziale che avrebbe portato al venir meno di tutti e tre i rapporti locatizi.

Non vi sono dubbi, dunque, circa il fatto che ciò che la conduttrice lamenta di non avere potuto far valere integra al più una mera difesa insuscettibile come tale di essere stata compressa dal giudice e di dare sostanza all’eccezione formulata.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia interpretato erroneamente le clausole dei due contratti prevedenti il diritto di recesso, omettendo di considerare che il primo contratto prevedeva una facoltà di recesso a favore del conduttore da esercitarsi non prima dell’1 maggio 2004, perciò per recedere dal terzo contratto avrebbe dovuto attendere di poter recedere prima dal primo. La contestualità dei due recessi era funzionale a garantire una durata minima del primo contratto che avrebbe condizionato anche il terzo. Tale recesso era stato esercitato, nel caso di specie, dopo aver ricevuto disdetta del primo e solo in data 10 dicembre 2012 a valere dal 20 giugno 2013, quindi non solo successivamente maggio 2004, ma anche con effetti contestuali allo scioglimento degli effetti del primo contratto per volontà della locatrice.

In conclusione, la Corte di secondo grado avrebbe violato l’art. 1362 c.c., perchè non sarebbe andata oltre il senso letterale delle parole, al fine di indagare la comune intenzione delle parti, e, avrebbe deciso, violando altresì il canone ermeneutico che impone di tener conto del comportamento complessivo delle parti anche successivo alla stipulazione del contratto, giacchè non avrebbe tenuto conto di una sequenza di documenti che avrebbe, a suo avviso, comprovato una sostanziale continuità della vicenda complessiva che aveva portato al venir meno dei rapporti locatizi per tutti gli uffici.

La prospettazione della ricorrente introduce e fa propria un’interpretazione della clausola di cui alla lettera f del terzo contratto diversa da quella adottata dal giudice d’Appello, volta nella sostanza a mettere in relazione il recesso anticipato dal terzo contratto ad una qualunque causa, in questo caso la disdetta, che avesse determinato il venir meno del primo contratto.

E non si avvede che, diversamente da quanto censurato, la Corte territoriale non si è affatto avvalsa del mero tenore letterale della clausola per addivenire alla sua conclusione, tant’è vero che ha escluso, sulla scorta del criterio dell’interpretazione sistematica, che emergesse alcuna correlazione pattizia tra la durata della disponibilità dei locali al piano terreno con la disponibilità di quelli al quarto piano.

Perciò la censura della ricorrente si risolve nella mera estrapolazione di un passaggio della motivazione della sentenza – ove si riconosce quale criterio fondamentale quello della interpretazione letterale ex art. 1362 c.c., comma 1, – fondandovi la critica circa l’omessa indagine sulla effettiva volontà comune delle parti, trascurando di considerare che il giudice di merito non ha pretermesso di applicare al testo, oltre al criterio letterale, anche il criterio logico-sistematico, sancito dall’art. 1363 c.c., avendo per l’appunto verificato la portata semantica della clausola di cui alla lettera f del contratto, interpretandola e comparandola con il contenuto complessivo dei due contratti, traendone le seguenti conclusioni: a) la conoscenza che il primo contratto aveva una durata inferiore rispetto al terzo, essendo stato stipulato un anno prima; b) ove le parti, anzichè subordinare l’esercizio del recesso dal terzo contratto al recesso contestuale dal primo, avessero voluto subordinare lo scioglimento anticipato del terzo contratto al venir meno dell’efficacia del primo – per qualunque causa -avrebbero dovuto prevederlo espressamente, non risultando dai due contratti, come si è detto – nè essendo stato dimostrato, ma solo apoditticamente asserito dalla ricorrente – l’intendimento di subordinare la disponibilità dei locali al piano terreno alla disponibilità di quelli al quarto piano.

Gli ulteriori elementi extratestuali che il giudice di merito non avrebbe considerato, violando l’art. 1362 c.c., comma 2 non si intuisce come possano avere inficiato l’esito dell’attività ermeneutica operata dal giudice a quo. Si tratta, infatti, di dati documentali, peraltro introdotti senza il rispetto del canone dell’autosufficienza, che sono utilizzati dalla ricorrente solo per formulare e supportare un diverso approdo ermeneutico.

La giurisprudenza di questa Corte nega che possa essere causa di annullamento della sentenza impugnata la ricorrenza di un’opzione ermeneutica alternativa a quella eletta dalla pronuncia gravata, potendo essere quella posta alla base del decidere solo una delle interpretazione possibili e non necessariamente la migliore.

L’unica maniera per addivenire all’accoglimento della richiesta cassatoria consiste nella dimostrazione che il giudice a quo abbia violato i canoni dell’interpretazione condensati negli artt. 1362 c.c. e ss. fornendo un’esegesi svincolata da regole conoscibili, criptica e, in definitiva, immotivata: Cass. 14/05/2019, n. 12798.

Nel caso di specie, è vero che la ricorrente invoca la violazione dell’art. 1362 c.c., adducendo che il giudice avrebbe dovuto andare oltre il senso letterale delle parole, contestando che il criterio letterale sia fondamentale dell’indagine ermeneutica, come ritenuto dal giudice a quo – e come, in effetti, ritiene anche questa Corte – ma non basta “la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito. Si è, infatti, osservato che “L’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e ss., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto il profilo della violazione di legge, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali asseritamente violati o li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea la mera critica del convincimento, cui il giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione di una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1209 e 1216 c.c., ex art. 360 c.c., comma 1, nn. 4 e 3.

La tesi della ricorrente è che la Corte territoriale, ritenendo non dimostrata la ricorrenza di un’offerta reale o di una offerta seria ed inequivocabile, abbia omesso di considerare che, al recesso manifestato dalla conduttrice con la lettera del 10 dicembre 2012, Generali Real Estate aveva dato riscontro con lettera scritta con cui contestava l’efficacia del recesso e dichiarava di non essere tenuta ad accettare la riconsegna degli immobili.

Pertanto, a fronte di tale rifiuto espresso la conduttrice, ad avviso della ricorrente, sarebbe stata costituita in mora ex re, avendo dichiarato per iscritto di non voler eseguire la propria obbligazione, di talchè era da ritenersi inutile indagare sulla serietà della offerta di consegna dell’immobile, anche in considerazione del fatto che la locatrice: a) aveva avuto modo di verificare lo stato dei luoghi senza sollevare eccezioni e ciononostante si era rifiutata di riceverlo; b) continuava a rifiutare le chiavi offerte banco iudicis, durante l’udienza del 27 maggio 2014; c) si era successivamente rifiutata di ricevere l’immobile adducendo per la prima volta la difformità rispetto allo stato in cui si trovava allorchè era stato concesso in locazione.

In primo luogo, giova mettere in risalto l’inconferente evocazione dell’art. 1219 c.c. che riguarda l’ipotesi della mora del debitore, mentre nel caso di specie ci si trova dinanzi ad una mora credendi, cioè ad un procedimento di eventuale liberazione del debitore coattivo o contro la volontà del creditore, giustificato da un abusivo esercizio del diritto di credito, cui si ricorre allorchè l’avente diritto, a fronte di una prestazione – la riconsegna dell’immobile – quantitativamente e qualitativamente esatta, non consenta, senza motivo legittimo, al debitore di liberarsi dal vincolo obbligatorio, rifiutandosi di ricevere la prestazione o non compiendo quanto necessario affinchè il debitore possa adempiere.

Tale procedimento ha in comune con quello di cui all’art. 1219 c.c. solo un prolungamento del vincolo obbligatorio, ma non presenta con la mora del debitore alcun altro parallelismo, giacchè la mora del debitore implica una situazione di inadempimento consistente in un ritardo qualificato nell’esecuzione della prestazione.

Ciò stando, precisato che di mora credendi non è dato parlare ove la prestazione offerta non risulti esatta sotto il profilo qualitativo o quantitativo, delle modalità di tempo e di luogo, perchè, onde apprezzare il comportamento negativo del creditore occorre che la prestazione offerta sia esatta e che egli senza motivo legittimo – motivo che non contiene alcun riferimento all’esattezza della prestazione, giacchè se essa ricorresse il debitore sarebbe puramente e semplicemente inadempiente e non potrebbe apprezzarsene l’interesse alla liberazione dall’obbligo – cioè senza che ricorra una circostanza riguardante la sua persona, cioè la sua sfera giuridica, purchè oggettivamente apprezzabile, provochi arbitrariamente una proroga del vincolo del debitore, deve ritenersi che la Corte d’appello abbia fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità, ponendo l’onere della prova relativo alla effettuata restituzione del bene locato sul conduttore: “trattandosi di fatto estintivo del diritto di credito del locatore, al quale il bene va restituito al termine del rapporto locativo (quale ne sia stata la causa della cessazione) ovvero va offerto in restituzione quantomeno con modalità aventi valore di offerta non formale” (in termini Cass. 23/04/2004, n. 7776).

Le conseguenze sfavorevoli per il creditore della prestazione e la liberazione coattiva del debitore conseguono ad un procedimento complesso, il cui primo atto è costituito, ai sensi degli agli art. 1216 c.c. e art. 1209 c.c., comma 2, dall’intimazione al creditore di ricevere tale consegna nelle forme stabilite per gli atti giudiziari. La giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che tale intimazione “rappresenta l’unico mezzo per la costituzione in mora del creditore per provocarne i relativi effetti (art. 1207)”.

L’adozione di altre modalità “purchè serie, concrete e tempestive (come ad esempio la convocazione per iscritto del locatore per consegnargli le chiavi dell’immobile e redigere il verbale di consegna) aventi valore di offerta reale non formale (art. 1220 c.c.)” non vale a costituire in mora il creditore, ma “è tuttavia idonea ad evitare la mora del conduttore, circa l’esecuzione della sua prestazione e a produrre ogni altro effetto, connesso alla dichiarazione di volontà da lui espressa sostanzialmente (Cass. 23/04/2004, n. 7776; Cass. 17/03/1999, n. 2419; Cass. 04/12/1992, n. 12922).

Nella sostanza, l’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 1590 c.c. gravante sul conduttore può essere eseguito “mediante un’attività che faccia tornare l’immobile nella concreta disponibilità del locatore, nel caso di rifiuto di quest’ultimo, al fine di costituirlo in mora e addivenire alla liberazione coattiva del debitore, è, nondimeno, indispensabile un’offerta di carattere formale, seguita dalla nomina del sequestratario ai sensi dell’art. 1216 c.c., comma 2, al quale venga consegnata la “cosa dovuta” (cfr. Cass. 27/04/2004, n. 7982), alla stregua di un complessivo procedimento i cui esiti sono soggetti, pur sempre, alla convalida giudiziale.

In pratica, l’offerta reale non formale non libera il debitore dall’obbligo di eseguire la propria prestazione, ma dagli effetti del ritardo nel proprio inadempimento e dalle conseguenze risolutorie e risarcitorie connesse all’inadempimento; “solo l’offerta reale formale provoca la mora accipiendi ed i relativi effetti indicati dall’art. 1207 c.c. (tra cui, quello, di peculiare rilievo, dell’immediato trasferimento del rischio in capo al creditore della impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile), ma non già a liberare immediatamente il debitore dall’obbligo di adempiere all’obbligazione (cfr., più in generale, Cass., 16 gennaio 1969, n. 84), tanto che l’art. 1207 c.c., comma 3, impone ancora al debitore di custodire e conservare la “cosa” (salvo esonerarlo dalle relative spese), mentre il momento che segna la liberazione del debitore è proprio quello di consegna dell’immobile al sequestratario, come espressamente stabilito dall’ultimo periodo del citato art. 1216 c.c., comma 2″: Cass. 20/01/2016, n. 890.

La giurisprudenza ha precisato che l’offerta rilevante al fine di escludere la mora del conduttore, ex art. 1220 c.c., deve soddisfare quattro condizioni: essere seria, tempestiva, completa e tale da introdurre il bene nella effettiva disponibilità del locatore. In aggiunta, non deve ricorrere un giustificato motivo che legittimi il locatore a ricevere il bene (Cass. n. 890/2016, cit.).

La mancata attuazione delle procedure di offerta in restituzione giustifica il protrarsi dell’obbligo di pagamento del canone di locazione: infatti, “soggiace il conduttore, che voglia liberarsi dell’obbligazione di un tale pagamento, a specifici oneri, tra cui quello di offerta, anche non formale, di restituzione del bene (per tutte, con principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, v. Cass. ord. 20 gennaio 2011, n. 1337): ed appare conforme a diritto che, in virtù della volontaria protrazione del godimento del bene (volontaria in quanto dipendente anche dalla deliberata mancanza della attivazione delle dette procedure di offerta in restituzione), chi ne fruisca continui a versare alla controparte quanto meno una somma pari a quello che sarebbe stato il corrispettivo in caso di fisiologica persistenza del contratto” (Cass. 25/06/2013, n. 15876).

Nella specie, il giudice ha accertato che non vi era prova che un’offerta di carattere formale o non formale fosse stata compiuta dalla conduttrice; che, al contrario, era emerso che con la lettera dell’8 luglio 2014 la locatrice avesse chiesto alla banca convenuta di liberare i locali evidentemente ancora occupati da beni di proprietà della conduttrice.

Tali considerazioni, trasfuse in una logica e congrua motivazione che ha dimostrato di aver fatto buon governo della giurisprudenza di questa Corte, non sono state fatte oggetto di censura da parte della ricorrente, la quale ha incentrato tutta la propria strategia argomentativa sulla asserita pretestuosità del rifiuto di ricevere l’immobile da parte della locatrice per inesistenti alterazioni dello stesso, omettendo di considerare che la eventuale presenza di alterazioni dell’immobile locato avrebbero reso la prestazione di riconsegna eventualmente offerta inesatta e ciò avrebbe precluso tanto la propria liberazione coattiva dal vincolo obbligatorio quanto la propria liberazione dall’obbligo di corrispondere il canone locatizio.

La Corte territoriale, invece, ha fondato la propria statuizione su argomenti diversi che non sono stati raggiunti dagli assunti cassatori.

Per di più, quand’anche vi fosse stato un iniziale rifiuto da parte della locatrice di ricevere gli immobili fondato sulle ragioni addotte dalla banca ricorrente, l’invito a liberare gli immobili, contenuto nella lettera dell’8 luglio 2014, non contestato, dimostrava inequivocabilmente la disponibilità della locatrice ad essere reimmessa nella disponibilità dei locali, superando gli eventuali precedenti rifiuti.

4. Con il quarto motivo la ricorrente chiede la riforma delle statuizioni della Corte dipendenti dall’erronea reiezione.

Il motivo è assorbito.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

7. Si dà atto che a carico della ricorrente va posto l’obbligo di pagamento del doppio contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 14.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2019

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